[Indice degli Annali franco-tedeschi]
Pubblicato nel 1844 negli Annali franco-tedeschi. Ripubblicato nella «Neue Zeit», XI, 1890-91, vol. IX, pp. 236-254.
A distanza di quindici anni Marx definirà questo articolo «un geniale schizzo di critica delle categorie economiche» [Per la critica dell'economia politica (1859), Prefazione]
Versione di Leonardo M. Battisti, marzo 2018
L'economia politica nacque in conseguenza naturale dell'espansione commerciale con cui un raffinato sistema di frode autorizzata, una completa scienza dell'arricchimento sostituì il traffico ingenuo, non scientifico.
Tale economia politica o scienza dell'arricchimento (nata dall'invidia reciproca e dall'avidità dei mercanti) reca in fronte il marchio del più nauseante egoismo. Si era ancora ingenui da credere che l'oro e l'argento fossero la ricchezza onde la massima urgenza era proibire ovunque l'esportazione dei metalli «nobili». Le nazioni si affrontavano come degli avari: ognuna stringendo forte la cassa col tesoro e guardando il vicino con invidia e sospetto. Fu usato ogni mezzo per toglier ai popoli con cui si avevano rapporti commerciali tutto il denaro liquido possibile e per non far uscir dalle proprie dogane quanto vi si era felicemente introdotto.
La piena attuazione di tale principio avrebbe ucciso il commercio. Così si iniziò a superare tale fase, a capir che il capitale stipato è cosa morta mentre il capitale circolante si accresce sempre. Si divenne allora più cordiali, si spedirono i ducati come uccelli da richiamo onde tornassero indietro con degli altri, e si capì che non nuoce pagare cara ad A la sua merce finché la si può rivendere a B a un prezzo maggiore.
Su tale base sorse il mercantilismo. L'avidità insita nel commercio fu un po' nascosta; le nazioni si avvicinarono, strinsero trattati di commercio e di amicizia, fecero affari insieme e, in vista di lucri maggiori, tessero a vicenda ogni possibile idillio. In fondo era sempre l'antica avidità di denaro, l'antico egoismo che talvolta esplodeva in guerre, tutte fondate sulla gelosia commerciale. Tali guerre provavano che il commercio, come la rapina, si basa sul diritto del più forte; niuno si faceva alcuno scrupolo di estorcere con l'astuzia o colla violenza i trattati che paressero più favorevoli.
Nucleo del mercantilismo è la teoria della bilancia commerciale. Poiché si seguiva ancora il principio che l'oro e l'argento fossero la ricchezza, si stimavano giovevoli solo gli affari che introducessero nel Paese denaro liquido, rilevabili confrontando l'esportazione e l'importazione. Se si era esportato più di quanto importato si riteneva che la differenza fosse fluita nel Paese come denaro liquido, e ci si stimava arricchiti di tale differenza. L'arte degli economisti era così far sì che alla fine d'ogni anno la bilancia segnasse l'esportazione in vantaggio sull'importazione. Per tale ridicola fola migliaia di uomini sono morti! Pure il commercio ha le sue Crociate e Inquisizione!
Il ‘700, il secolo della rivoluzione, rivoluzionò pure l'economia; ma tutte le rivoluzioni settecentesche furono unilaterali e confinate in un'antitesi (astratto spiritualismo contro astratto materialismo; monarchia contro repubblica; diritto divino contro contratto sociale), inclusa quella economica. Ogni opposto aveva gli stessi presupposti: il materialismo non intaccò il cristiano disprezzo e avvilimento dell'uomo, bensì sostituì Dio con un altro ente assoluto, la natura; la politica non pensò di verificare i presupposti dello Stato in sé e per sé; l'economia non pensò di cercar una giustificazione della proprietà privata. Così la nuova economia fu solo un mezzo progresso: per giunger a conclusioni concordi colla saggezza coeva anziché dedurle dai propri presupposti, essa dovette tradirli e rinnegarli, ricorrer alla sofistica e all'ipocrisia per celare le contraddizioni in cui si involgeva. L'economia passò dalla scienza all'etica allorché converse ai consumatori il favore che dava ai produttori; affettò un grave disdegno contro il terrore cruento mercantilista e «definì» il commercio: nesso di amicizia e di unione tanto fra le nazioni e gli individui. Insomma una magnifica generosità generale. Ma tosto i reali presupposti ebbero la rivincita contro tale filantropia farisaica e generarono la teoria malthusiana della popolazione, il più barbarico sistema mai esistito, un sistema della disperazione che distrusse tutte le frasi di amore del prossimo e di cosmopolitismo. Tali presupposti poi crearono e diffusero il sistema-fabbrica e la moderna schiavitù che nulla cede all'antica in inumanità e crudeltà. L'economia nuova, il sistema della libertà di commercio basato su La ricchezza delle nazioni (Adam Smith, 1776) presenta la stessa ipocrisia, irrazionalità e immoralità che la libera umanità si trova oggi a dover affrontare in tutti i campi.
Il sistema di Smith allora fu o no un progresso? Lo fu; anzi fu un progresso necessario. Fu uopo abbattere il sistema mercantilistico (coi suoi monopoli e restrizioni ai traffici) per far emerger le vere conseguenze della proprietà privata; fu uopo che sparissero tutti i piccoli scrupoli provinciali e nazionali per iniziar l'universale lotta umana del nostro tempo; fu uopo che la teoria della proprietà privata lasciasse il mero metodo empirico dell'indagine oggettiva e assumesse un carattere scientifico imputantele la responsabilità delle sue conseguenze per portar la questione su un piano universalmente umano; infine fu uopo che l'attacco all'immoralità della vecchia economia l'abbia solo massimizzata esigendo così di introdurre l'ipocrisia. Ciò era nella natura della cosa. Non ci crea alcun imbarazzo che la prima possibilità storica d'elider l'economia della proprietà privata sia seguita solo dalla creazione e diffusione della libertà di commercio, purché ci resti il diritto di rivelar la nullità teorica e pratica di codesta libertà.
Il nostro giudizio dovrà farsi più duro allorché rivolto ad economisti contemporanei. Infatti Smith e Malthus videro solo frammenti; invece gli altri videro l'intero sistema attuato, tutte le conseguenze tratte, le contraddizioni affatto appalesatesi, ma non procedettero al vaglio delle premesse bensì si assunsero la tutela dell'intero sistema. Un economista più vicino al presente è più lontano dall'onestà. Ogni anno che passa esige più cavilli per non modificare l'invalsa teoria economica. Così David Ricardo (1815) è più colpevole di Smith (1776) e John Ramsay MacCulloch (1825) e James Mill (1821) lo sono più di Ricardo.
La recente economia è ingiusta perfino verso il sistema mercantilistico poiché è del pari unilaterale e legata agli stessi principi. Solo il punto di vista superiore all'antitesi dei due sistemi, che critichi le premesse comuni ad ambi e parta da un'universale base umana, potrà dare ad ambi giusti riconoscimenti. E proverà che i paladini della libertà di commercio sono monopolisti peggiori dei vecchi mercantilisti. Proverà che la farisaica umanità dei primi sia una barbarie ignota ai secondi; che la confusione teorica dei secondi sia più coerente della logica biforcuta dei loro critici; che ambi i partiti non possono imputarsi un che non ricada pure su di sé.
La più recente economia liberale neppure può capir la restaurazione del sistema mercantilistico operata da List (per noi assai intelligibile). L'incoerenza e la duplicità dell'economia liberale va attribuita alle parti costitutive. Come la teologia deve o regredir alla cieca credenza o progredir verso una filosofia libera così la libertà di commercio deve o regredir nei monopoli ripristinati o progredir nell'elisione della proprietà privata.
L'unico progresso positivo compiuto dall'economia liberale è lo sviluppo delle leggi della proprietà privata, invero incluse in essa benché non siano svolte fino alle estreme conseguenze né formulate con chiarezza. Indi in tutte le dispute su quale sia il sistema più rapido ed efficace per diventare ricchi (cioè nelle dispute rigorosamente economiche) i liberoscambisti fanno premio. Beninteso: nelle controversie contro i monopolisti (non contro gli avversari della proprietà privata; i cui esponenti socialisti inglesi hanno provato, in teoria e in pratica, di saper giudicare più correttamente in questioni economiche dal punto di vista dell'economia).
Perciò una critica dell'economia politica ricerca le categorie fondamentali di essa, svela la contraddizione introdotta dal sistema della libertà di commercio e trae le conseguenze di ambi i lati di tale contraddizione.
L'espressione «ricchezza nazionale» è stata diffusa dalla smania generalizzatrice degli economisti liberali e non ha senso finché esiste la proprietà privata. La «ricchezza nazionale» degli inglesi è molto grande, eppur essi sono il popolo più povero del mondo. Indi o si elimini l'espressione o si assumano premesse che le diano un senso. Lo stesso vale pelle espressioni economia nazionale, economia politica, economia pubblica. Nei rapporti attuali, tale scienza andrebbe chiamata economia privata poiché per essa i rapporti pubblici sono solo a tutela della proprietà privata.
La conseguenza sùbita della proprietà privata è il commercio: lo scambio dei reciproci bisogni, la compravendita. Sotto il dominio della proprietà privata tale commercio deve essere (come ogni altra attività) una tosta fonte di guadagno per chi la esercita; cioè ognuno deve cercar di vendere al prezzo più alto e di comprar al prezzo più basso possibili. Così a ogni compravendita sono di fronte due uomini con interessi inconciliabili; il conflitto è decisamente fra nemici poiché ognuno sa le intenzioni dell'altro e sa che sono opposte alle proprie. Il primo effetto è da un lato la reciproca diffidenza e dall'altro la giustificazione di tale diffidenza e dell'uso di mezzi immorali per un fine immorale. Es. Norma basilare del commercio è la segretezza: celar ciò che potrebbe ridurre il valore di un dato articolo; indi nel commercio è lecito giovarsi al massimo dell'ignoranza e della fiducia della controparte e vantare pregi che la propria mercé non ha. Insomma il commercio è la frode legale. Che la pratica coincida con tale teoria potrà confermarlo ogni commerciante che voglia onorare la verità.
Il mercantilismo conservava una certa disinvolta franchezza cattolica e non celava affatto la natura immorale del commercio. Ostentava apertamente la sua volgare avidità. L'ostilità reciproca delle nazioni nel ‘700, l'invidia disgustosa e la gelosia commerciale erano logiche conseguenze del commercio in generale. L'opinione pubblica non era ancora umanizzata; inutile celare le conseguenze dell'essenza inumana e asociale del commercio.
Ma allorché il Lutero dell'economia, Adam Smith, criticò l'economia anteriore, le cose erano mutate molto. Il secolo era umanizzato, la ragione prevalse, la moralità iniziò a pretendere il suo eterno diritto. I trattati commerciali estorti, le guerre commerciali, il rigido isolamento delle nazioni offendevano troppo la coscienza progredita. Alla franchezza cattolica subentrò l'ipocrita bigottismo protestante. Smith provò che pure l'umanitarismo si fonda sull'essenza del commercio, che il commercio anziché «sicura fonte di discordia e di inimicizia» deve divenire un «nesso di amicizia e di unione fra le nazioni e gli individui» (Libro 4, capitolo 3, parte 2); sarebbe nella natura del commercio l'avvantaggiare tutti coloro che vi hanno parte.
Smith aveva ragione nel lodare l'umanità del commercio. Nel mondo nulla è immorale in assoluto; pure il commercio ha un lato che omaggia la moralità e l'umanità! Il diritto della forza, il crudo brigantaggio medievale fu umanizzato mutando nel commercio al primo stadio (il divieto d'esportar denaro) cioè nel sistema mercantilistico, che fu altrettanto umanizzato. Infatti è interesse del commerciante avere buoni rapporti con colui da cui compra a poco e con colui a cui vende a molto. Così è impolitica la nazione che si nimichi i fornitori e i clienti. Giova di più essere amichevoli: ecco l'«umanità» del commercio. Tale costume ipocrita di usar la morale a fini immorali è l'orgoglio del sistema della libertà del commercio. Dicono codesti spigolistri: «Abbiamo abbattuto la barbarie dei monopoli, abbiamo portato la civiltà nei posti più remoti, abbiamo affratellato i popoli e diminuite le guerre». Invero lo avete fatto, ma come? Avete distrutto i piccoli monopoli onde regnasse tanto più libero e illimitato l'unico grande monopolio fondamentale: la proprietà privata; avete incivilito i posti più remoti per aver nuovi spazi ove estender la vostra spregevole avidità; avete affratellato i popoli in una fratellanza di ladri e diminuite le guerre perché la pace è più lucrosa e massimizza l'inimicizia fra i singoli individui con l'infame guerra della concorrenza! Quando mai avete voi fatto un che solo per amor dell'umanità e non per metter l'interesse dei singoli contro l'interesse universale? Quando mai siete stati morali senza avere un interesse o segreti motivi immorali ed egoistici?
Per divenir assoluta, l'economia liberale prima fece del suo meglio per generalizzar l'inimicizia dissolvendo il legame comunitario delle nazionalità e per mutare l'umanità in un'orda di belve (tali sono i concorrenti) che si divorano a vicenda poiché a ognuna interessa la stessa cosa; poi passò a dissolvere un ultimo legame comunitario: la famiglia. Per dissolver la famiglia ricorse ad una sua bella invenzione: il sistema-fabbrica. La famiglia in Inghilterra si sta dissolvendo perché il sistema-fabbrica scioglie l'ultimo residuo di interessi comuni: la comunione familiare dei beni. È ormai invalso che i bambini, tostoché atti al lavoro (novenni), spendano per sé il proprio salario, stimino la casa genitoriale come una pensione a cui pagar vitto e alloggio. Come potrebbe esser diverso? L'isolamento degli interessi (che è l'essenza del sistema della libertà di commercio) ha questo effetto diretto. Tostoché un principio è azionato allora realizza da sé tutte le sue conseguenze (moleste agli economisti che sconfinano dalla scienza all'etica).
Ma l'economista non conosce la causa che serve. Non sa che, malgrado tutti i suoi ragionamenti egoistici, egli resta comunque un anello della catena dell'universale progresso dell'umanità. Non sa che la dissoluzione di tutti gli interessi particolari apre la strada al grande rivolgimento cui va incontro il secolo: la riconciliazione dell'umanità con la natura e con sé stessa.
Categoria immediatamente determinata dal commercio è il valore; aliena come tutte le categorie economiche alla querelle degli antichi e dei moderni poiché i monopolisti nella loro smania di arricchirsi non si occuparono di categorie. Ogni disputa economica scoppiò fra i moderni.
Per l'economista, che vive di contraddizioni, esiste nientemeno che un duplice valore: il valore astratto o reale ed il valore di scambio. Sull'essenza del valore reale ci fu una disputa fra gli inglesi (che definivano i costi di produzione come l'espressione del valore reale) ed il francese Giambattista Say (che riteneva l'utilità d'una cosa misura del valore reale). La disputa è penduta fino all'inizio dell'800 e si è sopita anziché risolta: nulla sanno risolvere gli economisti.
Gli inglesi (specie MacCulloch e Ricardo) asseriscono che il valore astratto d'una cosa è determinato dai suoi costi di produzione. Beninteso: il valore astratto, non il valore di scambio, lo exchangeable value, il valore commerciale, che è tutt'altra cosa. Perché i costi di produzione sono la misura del valore? Poiché (udite, udite!) in circostanze normali (senza concorrenza) nimo venderebbe una cosa per meno di quanto gli costi produrla. Vendere? Ma cosa ci fa qui la «vendita» se non si tratta del valore commerciale? Ecco che il commercio espulso dal discorso ci rientra, e che commercio! Un commercio privo dell'essenza: la concorrenza. Prima un valore astratto, ora un commercio astratto, un commercio senza concorrenza cioè un uomo senza corpo, un pensiero senza cervello. E non pensa l'economista inglese che senza la concorrenza nulla garantisce che il produttore venda la sua merce al costo di produzione? Che confusione!
Ancora. Ottriamo un attimo ciò che dice l'economista. Varrebbe i costi di produzione un che di inutile che niun uomo desidera fabbricato con fatica improba ed enormi spese? No, dice l'economista, chi vorrebbe comprarlo? Ivi ritorna l'espulsa utilità di Say nonché la concorrenza essendoci «compera». È impossibile all'economista far sussister la sua astrazione un solo istante: la concorrenza da espeller e l'utilità già espulsa sono irresistibili sempre. Il valore astratto determinato dai costi di produzione è sì astratto da esser irreale.
Ma seguitiamo ad ottriar l'economista. Come determina i costi di produzione senza la concorrenza? Nel prosieguo i costi di produzione risulteranno una categoria altrettanto basata sulla concorrenza indi pure qui si appalesa l'incoerenza dell'economista inglese.
Passiamo al francese Say: c'è la stessa astrazione. L'utilità di una cosa è un che di soggettivo, di non misurabile in assoluto, specie finché si è involti in contraddizioni. In tale teoria i beni necessari dovrebbero valere più dei beni di lusso. Sotto il dominio della proprietà privata è possibile un'unica misura in qualche modo obiettiva e apparentemente universale della maggiore o minore utilità d'una cosa: il rapporto di concorrenza, proprio ciò che si vuole escludere. Pur escludendo la concorrenza, i costi di produzione ritornano poiché nimo vorrà vender a meno di quanto abbia investito nella produzione. Perciò il lato francese dell'antitesi trapassa nolente nell'altro lato inglese (e viceversa come suesposto).
Ora tentiamo di ordinare tale garbuglio. Il valore d'una cosa include ambi i fattori che i suddetti disputanti hanno invano cercato di separare. Il valore è il rapporto fra i costi di produzione & l'utilità. Il primo uso del valore è la decisione se una cosa sia da produrre, cioè se la sua utilità compensi i costi di produzione. Posti uguali costi di produzione di due cose sarà l'utilità a discriminar il loro valore comparativo.
Questa è l'unica base corretta dello scambio. Cosa altrimenti discrimina l'utilità di qualcosa? L'opinione degli interessati? Ma così uno di loro deve sbagliarsi. O l'utilità è intrinseca alla cosa, indipendente dagli interessati e invisibile al loro? Ma così ci sarebbe solo permuta coatta, ritenendosi gli interessati ingannati. Tale contraddizione fra utilità intrinseca alla cosa & discriminazione di tale utilità, fra discriminazione dell'utilità & libertà dei permutanti è insuperabile salvo abolir la proprietà privata; abolitala, non può più parlarsi d'uno scambio quale esiste ora; bensì l'applicazione pratica del concetto di valore si ridurrà viepiù alla decisione se una cosa sia da produrre: tale è la sua sfera vera e propria.
Ma come stanno oggi le cose? Abbiamo visto come il concetto di valore sia scisso a forza per spacciar un frammento per il tutto. I costi di produzione devono costituir il valore benché siano alterati a priori dalla concorrenza; lo stesso vale per l'utilità (criterio d'uopo soggettivo). Tali zoppicanti definizioni si aggrappano alla concorrenza; e il bello è che pegli inglesi la concorrenza stima l'utilità a fronte dei costi di produzione e per Say la concorrenza stima i costi di produzione a fronte dell'utilità. Ma che razze di stime fa! Per la concorrenza l'utilità dipende dal caso, dalla moda e dal capriccio dei ricchi; i costi di produzione salgono e calano in base al rapporto casuale fra domanda e offerta.
La differenza fra valore reale & valore di scambio viene dal fatto che il valore d'una cosa differisce da ciò che si stima essere il suo equivalente nel commercio: ciò significa che tale equivalente non è affatto equivalente. Tale cosiddetto equivalente è il prezzo della cosa e se l'economista fosse onesto userebbe tale parola per indicar il «valore di mercato». Invece ei deve salvar la parvenza che il prezzo dipenda in qualche modo dal valore onde l'immoralità del commercio non sia evidente. Ma che il prezzo sia determinato dall'azione reciproca dei costi di produzione e della concorrenza è vero, anzi è una legge capitale della proprietà privata. Tale pura legge empirica fu la prima scoperta dell'economista da cui ha poi astratto il valore reale, cioè: il prezzo nel momento in cui la concorrenza è bilanciata e la domanda e l'offerta coincidono; al che restano solo i costi di produzione che l'economista chiama valore reale, ma sono solo una speciale determinazione del prezzo. Ciò capovolge l'economia: il valore (origine e la fonte del prezzo) è fatto dipender dal prezzo (che è un prodotto del valore). Tale capovolgimento è l'essenza del processo di astrazione reso intelligibile da Feuerbach.
Per l'economista i costi di produzione d'una mercé constano di tre elementi: il canone fondiario per la terra necessaria a produrre la materia grezza (rendita); il guadagno del capitale (profitto) e il guadagno del lavoro (salario) necessari per produrre e lavorare l'oggetto. Ma tosto gli economisti identificano capitale e lavoro definendo il capitale «lavoro accumulato». Così restano solo la terra (lato naturale ed oggettivo) e il lavoro (lato umano e soggettivo, che include pure il capitale). Ma l'economista non discerne un terzo elemento spirituale: l'invenzione, il pensiero accanto alla fisicità del lavoro puro e semplice. Cosa cale all'economista dello spirito inventivo? Quale invenzione non si genera spontaneamente? Quale costa a lui qualche fatica? Perché allora dovrebbe calersene nel conto dei costi di produzione? Terra, capitale, lavoro gli bastano quali condizioni della ricchezza. Non lo tange che la scienza (con Berthollet, Davy, Liebig, Watt, Cartwright etc.)1 abbia fattogli doni che hanno elevato lui e la sua produzione. Egli non sa contar simili cose; i progressi della scienza esorbitano dalle sue cifre. Ma pella razionalità (oltre la spartizione degli interessi propri dell'economista) l'elemento spirituale è uno degli elementi della produzione e troverà il suo posto in economia fra i costi di produzione. È una soddisfazione sapere che curare la scienza dia un compenso materiale e che un singolo ritrovato della scienza (tipo la macchina a vapore di Watt) nei primi cinquant'anni della sua esistenza abbia reso al mondo più di quanto il mondo abbia speso per la scienza dall'inizio ad oggi.
Così nella produzione agiscono due elementi: la natura e l'uomo, e quest'ultimo agisce fisicamente e spiritualmente. Detto ciò, torniamo all'economista e ai suoi costi di produzione.
Per l'economista, tutto ciò che non può essere monopolizzato non ha valore (tesi che poi esamineremo). Dire che «non ha prezzo» vale sotto il dominio della proprietà privata. Se si potesse aver la terra come l'aria allora nimo pagherebbe rendite. Ma non è così anzi l'estensione di terra requisibile in un caso speciale è limitata indi o si paga un canone fondiario per una terra già posseduta cioè monopolizzato o si paga un prezzo per acquisirlo. Ma se il valore della terra ha tale origine allora è strano che l'economista definisca la rendita: la differenza fra il provento del terreno pagante il canone & il provento del peggiore pezzo di terra coltivabile. Fu Ricardo il primo a definire così la rendita. Tale definizione varrebbe se nella realtà un ribasso della domanda agisse tosta sulla rendita causando il tosto abbandono della peggiore terra coltivata. Ma ciò non capita indi la definizione è difettosa, né spiega la causa della rendita indi va rigettata. Il colonnello Thomas Perronet Thompson, membro della Lega contro le leggi sul grano,2sostituì la definizione di Smith a quella di Ricardo con un motivo. Per lui la rendita è il rapporto fra la concorrenza di coloro che aspirano all'uso della terra & la quantità limitata di terra disponibile. Tale definizione almeno considera l'origine della rendita ma neglige le differenze di fertilità della terra così come la precedente trascura la concorrenza.
Così di nuovo per un solo oggetto ci sono due definizioni unilaterali e incomplete. E (come si è fatto pel concetto di valore) dovremo fonderle per trovar la definizione vera, la quale scaturisca dallo sviluppo della cosa onde comprenda tutta la prassi. La rendita è il rapporto fra la produttività del suolo (il lato naturale, a sua volta diviso in feracità naturale e migliorie dell'opera umana) & la concorrenza (il lato umano). Gli economisti scuotano pure la testa su tale «definizione»; nolenti vedranno che essa copre tutto ciò che ha relazione con la cosa.
Il proprietario terriero non può accusar il commerciante perché del pari è furto monopolizzar la terra, approfittarsi dell'aumento della popolazione (che accresce la concorrenza indi il valore del suolo) e guadagna da ciò datogli dalla sorte senza contribuir alla sua produzione. Il proprietario ruba affittando poiché ottiene i miglioramenti apportati dal suo fittavolo. È il segreto della crescente ricchezza dei grandi proprietari terrieri.
Per noi sono insostenibili i seguenti assiomi per qualificare come furto i guadagni del proprietario: «ognuno ha dei diritti sul prodotto del proprio lavoro»; «nimo deve raccoglier ciò che non ha seminato». Il primo esclude il dovere di nutrire i figli, il secondo esclude ogni generazione dal diritto all'esistenza poiché ognuna eredita dalla generazione precedente. Tali assiomi sono anzi conseguenze della proprietà privata. O si traggono tutte le conseguenze dalla proprietà privata; o si abolisca la proprietà privata come premessa.
Infatti pure la «spoliazione originaria» [Say] è giustificata asserendo un preesistente diritto comune di proprietà. Ovunque ci volgiamo la proprietà privata ci porta a contraddizioni.
La commercializzazione della terra, che è la prima condizione d'esistenza di noi tutti, fu l'ultimo passo verso il commercio di sé. Essa fu fin dall'inizio un'immoralità superata solo dal commercio di sé. E la spoliazione originaria, la monopolizzazione della terra da parte d'una minoranza ristretta, l'esclusione degli altri da tali condizioni della loro vita, è immorale quanto la posteriore commercializzazione della terra. Ecco un'altra verità (l'essenza della rendita) resa intelligibile negando la proprietà privata. E il valore del suolo, scorporato da esso come rendita, ritorna al suolo. Tale valore (misurabile confrontando la produttività di eguali superfici a parità di lavoro impiegatovi) figura nel calcolo del valore dei prodotti come parte dei costi di produzione e, come la rendita, è il rapporto fra la produttività & la concorrenza, ma la concorrenza vera, quale sarà sviluppata a suo tempo.
Si è visto come in origine il capitale e il lavoro siano identici; inoltre vediamo dagli sviluppi degli economisti stessi come nel processo produttivo il capitale (risultato del lavoro) diventi tosto il sostrato (la materia del lavoro): cioè come la scissione fra capitale & lavoro ridiventi subito loro unità. Eppure l'economista scinde il capitale & lavoro e mantiene la scissione, lasciando l'unità solo nella definizione di capitale: «lavoro accumulato». La scissione fra capitale & lavoro (effetto della proprietà privata) è solo la dilacerazione del lavoro in sé stesso che corrisponde a tale scissione e da essa causata. Attuata tale scissione pure il capitale si scinde in capitale originario & profitto (l'aumento del capitale nel processo di produzione, benché nella prassi profitto e capitale sono tosto fusi e rimessi in circolazione). Il profitto poi è scisso in interesse & profitto autentico. L'interesse è l'apice dell'assurdità di tali scissioni. L'immoralità dell'interesse (il reddito senza lavoro attraverso il prestito) benché già insita alla proprietà privata, è riconosciuta pure dal parco intuito popolare, che stavolta ha perlopiù ragione. Tutte questo scindere e separare sorge dalla scissione originaria fra capitale & lavoro attuata al massimo dalla scissione dell'umanità in capitalisti & lavoratori, scissione che ogni giorno si acuisce e che vedremo dovrà acuirsi sempre. Ma tale scissione (come la suddetta scissione fra terra, capitale, lavoro) finisce nell'impossibile. È assolutamente impossibile misurar in un prodotto finito l'apporto della terra, del capitale e del lavoro. Le tre quantità sono incommensurabili. La terra dà la materia prima, ma non senza il capitale e il lavoro; il capitale presuppone terra e lavoro; il lavoro perlomeno la terra e perlopiù pure il capitale. Le funzioni dei tre fattori sono di natura diversa, non adeguabile a una quarta misura comune. Così ai giorni nostri i proventi non si ripartiscono fra i tre elementi mercé una misura inerente a essi, bensì mercé una misura aliena ad essi e casuale: la concorrenza (forma raffinata del diritto del più forte). La rendita della terra implica la concorrenza; il profitto del capitale è determinato solo dalla concorrenza; del salario del lavoro tratteremo in seguito.
Se togliamo la proprietà privata, cadranno tutte queste scissioni innaturali. Cade la differenza fra interesse & profitto; il capitale è nulla senza il lavoro, senza movimento. Il guadagno riduce la sua importanza al peso che il capitale pone sulla bilancia nel determinare i costi di produzione; così resta inerente al capitale solo il modo in cui esso coincide col lavoro nella sua unità originaria.
Il lavoro, l'elemento principale nella produzione, la «fonte della ricchezza», la libera attività umana è bistrattato dall'economista, il quale, dopo averlo prima scisso dal capitale, scinde il lavoro un'altra volta. Il prodotto del lavoro sta ante il lavoro nella forma salario, scisso da esso, e (come al solito) determinato dalla concorrenza poiché (come si disse) non c'è una misura precisa dell'apporto del lavoro alla produzione. Pure tale scissione innaturale (lavoro & salario del lavoro) cade abolendo la proprietà privata ed emerge l'essenza del salario del lavoro alienato: l'essenza del lavoro per determinare i costi di produzione di una cosa.
Si è visto come finché sussista la proprietà privata tutto confluisca poi nella libera concorrenza. La proprietà privata è la categoria principale dell'economista, la sua figlia prediletta, che coccola e vezzeggia ... attento a non snudarne il volto gorgoneo.
La prima conseguenza della proprietà privata fu la scissione della produzione in due parti contrapposte: la naturale & la umana. Il suolo (che senza l'attività umana è infecondo) & l'attività umana (che senza il suolo non si attiva). Poi si è visto come l'attività umana si scinda in lavoro & capitale, due parti di nuovo antitetiche. Così c'era la lotta reciproca dei tre elementi anziché reciproco appoggio; a ciò ora si aggiunge il fatto che la proprietà privata implichi l'ulteriore sbriciolamento di ognuno dei tre elementi. Un pezzo di terreno si contrappone ad un altro, un capitale all'altro, una forza-lavoro all'altra. Insomma: poiché la proprietà privata isola ognuno nella sua bruta singolarità e poiché a ognuno cale la stessa cosa del suo vicino, un proprietario fondiario è nemico dell'altro, un capitalista dell'altro, un operaio dell'altro. Questa ostilità di interessi identici (proprio in ragione della loro identità) conduce alla perfezione l'immoralità della presente condizione sociale dell'umanità. Questa perfezione è la concorrenza.
L'opposto della concorrenza è il monopolio. Il monopolio fu il grido di guerra dei mercantilisti; la concorrenza quello degli economisti liberali. È facile capir che pure tale antitesi sia affatto vuota. Ogni concorrente (lavoratore, capitalista o proprietario terriero) deve ambire al monopolio. Ogni piccolo gruppo di concorrenti deve ambire al monopolio contro tutti gli altri. La concorrenza riposa sull'interesse che genera il monopolio indi la concorrenza muta nel monopolio. Del resto il monopolio genera la concorrenza anziché arrestarne il flusso: es. il divieto d'importazione o alti dazi generano tosto la concorrenza del contrabbando. Nella concorrenza ritorna la stessa contraddizione della proprietà privata: ciascuno ha interesse a possedere ogni cosa ma la comunità ha interesse che ciascuno possieda in pari quantità. Ecco l'interesse individuale in diametrale opposizione coll'interesse generale. La contraddizione della concorrenza è che ognuno deva desiderare per sé il monopolio che nuoce alla comunità in quanto tale onde essa deve combatterlo. Anzi: il presupposto dalla concorrenza, la proprietà è già un monopolio (il che riconferma l'ipocrisia dei liberali) e finché sussiste il monopolio della proprietà allora è parimenti giustificata la proprietà del monopolio; ché pure il monopolio attuatosi è proprietà. Indi è fazioso toglier i piccoli monopoli per lasciar quello fondamentale. E se a tal proposito ripetiamo la tesi dell'economista «ha valore solo ciò che può esser monopolizzato», quindi ciò che non consente monopolizzazione non può entrare nella lotta della concorrenza, allora risulta affatto provata la nostra tesi che la concorrenza presupponga il monopolio.
La legge della concorrenza è che domanda e offerta non si integrino mai. Ambi i lati sono separati e resi opposti inconciliabili. L'offerta rasenta sempre la domanda, ma mai riesce a saturarla: o è troppo grande o troppo piccola senza corrisponder alla domanda, poiché nimo sa quanto siano grandi questa o quella: l'attuale stato di incoscienza dell'umanità è come un gioco ad informazione incompleta. Se la domanda supera l'offerta il prezzo sale e tale rialzo stimola l'offerta alla cui comparsa sul mercato i prezzi calano; e se l'offerta supera la domanda il ribasso dei prezzi è sì rilevante da stimolar la domanda. Seguitando così mai c'è uno stato sano, bensì un continuo altalenarsi di ipertonia e ipotonia senza ottener stabilità. Tale legge di compensazione continua (per cui ciò che si perde lì si guadagna là) incanta l'economista. È il suo massimo vanto che mai si sazia di contemplare e ne vaglia tutti i suoi rapporti possibili o impossibili. Eppure è evidente che è una legge di natura, non una legge dello spirito. È una legge che genera la rivoluzione. L'economista sbuca con la sua bella teoria della domanda e dell'offerta, prova che «è impossibile una sovrapproduzione»; ma la prassi replica con le crisi commerciali, ricorrenti ogni 5-7 anni regolari come comete! Tali crisi commerciali, capitate regolari in ottant'anni come un tempo capitavano le pandemie, sono più di esse foriere di miseria e immoralità (cfr. John Wade: Storia delle classi medie e delle classi lavoratrici, Londra 1835, p. 211).
Invero tali rivoluzioni del commercio provano la legge in modo completo ma non come l'economista vorrebbe convincerci. Cosa si deve pensar d'una legge che si attua solo mercé rivoluzioni periodiche? Che è proprio una legge di natura che riposa sull'incoscienza di chi vi partecipa. Se i produttori sapessero di quanto abbisognano i consumatori se organizzassero la produzione dividendosela fra loro diverrebbero impossibili l'oscillazione della concorrenza e la sua tendenza alla crisi. Producete consapevolmente da specie umana (non da atomi dispersi e incoscienti d'appartener a una specie) ed ecco elise tutte queste antitesi artificiali e insostenibili. Ma finché produrrete nell'attuale modo (inconsapevole, dissennato, in balia del caso) le crisi commerciali permarranno; anzi ogni crisi sarà più generale e peggiore della precedente, proletarizzerà sempre più piccoli capitalisti accrescendo la classe di coloro che vivono del solo lavoro, il che accrescerà la massa di disoccupati (problema principale dei nostri economisti) fino a causar una rivoluzione sociale inconcepibile alla sapienza scolastica degli economisti.
L'eterna oscillazione dei prezzi causata dalla concorrenza toglie al commercio l'ultima traccia di moralità. Non si parla più di valore: quel sistema (che pare tener in tanta cale il valore, che all'astrazione del valore nel denaro dona un'esistenza particolare) distrugge con la concorrenza ogni valore intrinseco alle cose e muta in ogni istante il loro rapporto di valore reciproco.
Dove in tale caos c'è posto per uno scambio fondato su princìpi morali? In tale perpetua oscillazione ognuno deve cogliere l'istante propizio per comprar o vender; deve divenir speculatore cioè: mieter dove non ha seminato, arricchirsi dell'altrui perdita, contar su una sorte cattiva per gli altri e buona per sé. Lo speculatore calcola le disgrazie (specie le carestie), sfrutta ogni cosa (come l'incendio di New York del 16 dicembre 1835). Colmo dell'immoralità è la speculazione sui titoli in Borsa ove gli eventi storici e gli interessi dell'umanità sono ridotti a mezzi per soddisfare l'avidità dello speculatore che o calcola o azzarda.
E il rispettabile e «serio» commerciante non deve sentirsi superiore al gioco in Borsa con posa farisaica! Economia reale e economia finanziaria sono altrettanto immorali: pure il commerciante specula, deve farlo costrettovi dalla concorrenza; indi il suo commercio implica la stessa immoralità del gioco di Borsa. La verità del rapporto di concorrenza è il rapporto fra forza consumatrice & forza produttrice: questo rapporto sarà l'unica concorrenza in una società davvero umana: la comunità dovrà calcolar cosa produrre coi mezzi disponibili e stabilir secondo il rapporto fra tale forza produttiva e la massa dei consumatori se accrescer o frenar la produzione, se accrescer o limitar il lusso. Ma per ben giudicar tale rapporto e l'aumento della forza produttiva auspicabile in uno stato razionale dell'umanità invito i miei lettori a legger le opere dei socialisti inglesi e alcune di Fourier.
In un tale stato, la concorrenza soggettiva, la gara fra capitale e capitale, fra lavoro e lavoro, etc., si ridurrà all'emulazione basata sulla natura umana finora trattata decentemente solo da Fourier. Tale emulazione sarà trattenuta dall'abolizione degli interessi antagonistici nella sua sfera peculiare e razionale.
La lotta fra capitale e capitale, fra lavoro e lavoro, fra terra e terra mette la produzione in uno stato febbrile in cui essa capovolge ogni rapporto naturale e razionale: un capitale per resister alla concorrenza dell'altro deve attivarsi al massimo grado. Ogni terreno per esser coltivato con profitto deve viepiù aumentar la sua forza produttiva. Ogni lavoratore per resistere ai suoi concorrenti deve mettere nel lavoro tutte le sue forze. Insomma: chiunque entri nella lotta della concorrenza può sostenerla solo con un estremo dispendio delle sue forze avulso da ogni fine umano autentico. Tale superattività da un lato provoca inattività dall'altro. Allorché l'oscillazione della concorrenza è minima, allorché la domanda e l'offerta, la produzione e il consumo sono quasi uguali, la produzione evolve in uno stadio in cui la capacità produttiva è così superiore alla quantità richiesta che la gran massa della nazione non ha di che viver, che la gente muore di fame per la sovrabbondanza. In tale situazione folle, in tale assurdità vivente si trova già da qualche tempo l'Inghilterra. Effetto di un simile stato è l'oscillazione della produzione più violenta, che implica l'alternarsi di prosperità e di crisi, di sovrapproduzione e di ristagno. L'economista mai è riuscito a spiegarsi tale folle situazione; per provar a farlo ha inventato la teoria della popolazione, folle quanto anzi più di tale contraddizione di ricchezza e miseria al contempo. L'economista aveva il dovere di non vedere la verità; non poteva accorgersi che tale contraddizione è una conseguenza pura della concorrenza, poiché altrimenti tutto il suo sistema sarebbe crollato.
Invece noi comprendiamo tale fenomeno. La forza produttiva di cui l'umanità dispone è smisurata. La fertilità del suolo può esser accresciuta all'infinito impiegando capitale, lavoro e scienza. La «sovrappopolata» Gran Bretagna, giusta i calcoli degli economisti e degli statisti più valenti (cfr. Archibald Alison: Princìpi della popolazione (1840), vol. 1, cap. 1 e 2) può esser portata in 10 anni a produrre frumento bastevole a una popolazione che sestupla dell'attuale. Il capitale cresce ogni giorno; la forza-lavoro cresce col crescer della popolazione, e la scienza sottomette nuove forze naturali all'uomo ogni giorno di più. Se tale immensa capacità produttiva fosse adoprata con consapevolezza e nell'interesse di tutti ridurrebbe lesta ad un minimo il lavoro spettante all'umanità; invece lasciata alla concorrenza fa lo stesso ma in modo contraddittorio. Una parte della terra è coltivata nel modo migliore mentre un'altra (30 milioni di acri di buona terra in Gran Bretagna e in Irlanda) giace incolta. Una parte del capitale circola ad alta velocità, un'altra giace morta in casseforti. Una parte dei lavoratori lavora 14-16 ore al giorno mentre un'altra resta inattiva e basisce di fame. La distribuzione esula da tale simultaneità: oggi il commercio rende, c'è alta domanda, tutti lavorano, il capitale gira di mano lesto, l'agricoltura prospera, i lavoratori lavorano fino a rovinarsi; invece domani c'è un ristagno, l'agricoltura non compensa più le fatiche, terreni enormi restano incolti, il capitale si arresta nel bel mezzo della circolazione, i lavoratori non hanno più occupazione e tutto il Paese soffre di un eccesso di ricchezza e di popolazione.
L'economista non può riconoscere vero tale stato di cose, pena (ripetiamo) la rinuncia al suo sistema della concorrenza, il rigetto del contrasto fra produzione e consumo, popolazione e ricchezza. Ma non potendo negare il fatto, per adattare il fatto alla teoria, si inventò la teoria della popolazione.
Malthus, autore di tale dottrina, sostiene che la popolazione grava sempre sui mezzi di sussistenza, e che al crescere della produzione cresce la popolazione, e che la tendenza inerente alla popolazione di crescere al di là dei mezzi di sussistenza disponibili è la causa d'ogni miseria e d'ogni vizio perché se ci sono troppi uomini allora serve rimuoverli in un modo o nell'altro, uccisi o con violenza o per inedia. Ma l'avvento di ciò crea una lacuna tosto colmata da un altro aumento della popolazione e la miseria ricomincia. Nonché nello stato civile ciò vale nello stato di natura: i selvaggi dell'Australia (dalla densità d'una persona ogni miglio quadro) soffrono di sovrappopolazione quanto l'Inghilterra. Se vogliamo esser coerenti serve ammetter che la terra era già sovrappopolata allorché c'era un solo uomo. Le conseguenze di tale ragionamento sono: dacché i soprannumerari sono certo i poveri, l'unico aiuto da offrirgli è facilitargli al massimo la morte per fame, convincerli che nulla può mutare e che la sola salvezza per la loro classe sia ridurre al minimo la riproduzione o, se non si facessero convincer, fondar l'istituto statale per l'uccisione indolore dei figli dei poveri proposto da «Marcus3»: per costui ogni famiglia operaia deve aver due figli e mezzo: l'eccedenza va soppressa in modo indolore. L'elemosina è come un delitto poiché giova all'aumento della popolazione eccedente; è meglio render la povertà un delitto e le workhouses delle prigioni, come ha già fatto l'Inghilterra colla «liberale» nuova legge sui poveri.4 Certo tale teoria nega la dottrina biblica della perfezione di Dio e della sua creazione, ma «è anodino opporre la Bibbia ai fatti»!
Devo esporre altre conseguenze di tale dottrina abbietta e infame, orrenda bestemmia contro la natura e l'umanità, che esibisce la massima immoralità dell'economista? Cosa sono tutte le guerre e gli orrori del sistema monopolista paragonate a tale teoria? Proprio essa è il sostegno del sistema liberale della libertà di commercio, la cui rottura farebbe crollare l'intero edificio. Infatti, avendo noi provato che invece è la concorrenza la causa della miseria, della povertà e del delitto, chi oserà ancora parlare in suo favore?
Alison (libro succitato) attaccò la teoria di Malthus appellandosi alla capacità produttiva della terra ed opponendo al principio malthusiano il fatto che ogni uomo adulto può produrre più di ciò che da solo consumi: fatto senza cui l'umanità non potrebbe né accrescersi né sussistere; altrimenti di cosa vivrebbero i giovani? Ma Alison non tocca il centro del problema che resta lo stesso di Malthus: prova che il principio di Malthus è errato, ma non sa negare la miseria fattuale della massa che fece concepir a Malthus il suo principio.
Se Malthus avesse valutato la questione non unilateralmente allora avrebbe notato che: la popolazione o la forza-lavoro superflua è sempre legata a superfluità di ricchezza, di capitale e di proprietà fondiaria. La popolazione è troppo grande solo dove la forza produttiva è troppo grande. È provato con evidenza fin dal tempo di Malthus dalla condizione di ogni paese sovrappopolato, specie l'Inghilterra. Tali erano i fatti che Malthus avrebbe dovuto considerar nel loro insieme per arrivar al risultato giusto; invece Malthus assunse un solo fatto negligendo gli altri e arrivò al suo folle risultato. Il secondo errore che fece fu confonder mezzi di sussistenza & mezzi di occupazione. È bensì merito di Malthus aver constatato che la popolazione grava sempre sui mezzi di occupazione, che si possono occupare tanti uomini quanti ne sono generati, insomma che la provvigione della forza-lavoro è stata finora regolata dalla legge della concorrenza indi esposta alle crisi ed alle oscillazioni periodiche. Ma i mezzi di occupazione non sono i mezzi di sussistenza. L'aumento dei mezzi di occupazione è solo il risultato finale dell'aumento della forza delle macchine e del capitale; i mezzi di sussistenza aumentano subito all'aumento della forza produttiva. Ivi c'è un'altra contraddizione dell'economia: la domanda e il consumo dell'economista non sono quelli reali: infatti l'economista stima un richiedente o un consumatore è solo chi può offrir un equivalente in cambio di ciò che riceve; ma se è un fatto che ogni adulto produce più di quanto da solo consumi e che i fanciulli, come degli alberi, restituiscono in sovrappiù alle spese sostenute per coltivarli (e non sono fatti questi?) allora si dovrebbe dedurre che: [1] ogni lavoratore dovrebbe produrre più di ciò che gli serva onde la comunità dovrebbe fornirgli volentieri tutto ciò che gli serva; [2] una famiglia copiosa sia un dono prezioso per la comunità. Ma l'economista, nella sua concezione rozza, discerne un unico equivalente: ciò che gli è corrisposto nella tangibile forma-denaro. Ei è sì legato alle sue antitesi che è indifferente sia ai fatti più evidenti sia ai principi più puri.
Noi possiamo distruggere la contraddizione solo superandola. Con la fusione degli interessi finora contrapposti sparisce il contrasto fra sovrappopolazione & superarricchimento, sparisce lo stupore per una nazione che muore di fame per la troppa ricchezza e la sovrabbondanza (prodigio maggiore di tutti i miracoli di tutte le religioni messe insieme); sparisce la folle tesi che la terra non abbia il potere di nutrire tutti gli uomini. Tale tesi è l'acme dell'economia cristiana. In un altro lavoro5 proverò che la nostra economia sia cristiana in ogni teorema e in ogni categoria e che la teoria di Malthus è solo l'espressione economica del dogma religioso della contraddizione fra spirito & natura e della conseguente corruzione d'ambi. Io spero d'aver provato la nullità di tale contraddizione nel campo economico (poiché nel campo religioso è stata risolta da Feuerbach). Inoltre riterrò incoerente ogni difesa della teoria di Malthus che non deduca dal suo principio il modo in cui un popolo possa morir di fame per l'abbondanza mettendo così in accordo la ragione e coi fatti.
Beninteso: la teoria di Malthus è stata una fase transitoria affatto necessaria, che ci ha portati molto innanzi: prima demografia ed economia politica ci hanno fatto considerar per la prima volta la produttività della terra e dell'umanità; poi, superando le disperate conclusioni degli economisti, ci siamo liberati per sempre dall'arlotteria della sovrappopolazione. Da essa traiamo concrete ragioni economiche per trasformare la società. Infatti pure se Malthus avesse affatto ragione allora servirebbe una sùbita trasformazione della società per dar alle masse un'educazione che attui freni morali all'istinto della procreazione (miglior rimedio contro la sovrappopolazione, giusta Malthus). La teoria di Malthus esibisce il massimo degrado dell'umanità e la sua dipendenza dai rapporti di concorrenza; esibisce come la proprietà privata abbia infine ridotto l'uomo a merce, la cui creazione e distruzione dipendono altrettanto esclusivamente dalla domanda, come il sistema della concorrenza stermini ogni giorno milioni di uomini. Tutto ciò vedemmo e tutto ciò fece sentire a quelli come noi la responsabilità di elidere di tale degradazione dell'umanità abolendo la proprietà privata, la concorrenza e gli interessi contrapposti.
Ma per scardinare l'arlotteria in auge della sovrappopolazione consideriamo di nuovo il rapporto fra forza produttiva & popolazione. Malthus basa tutto il suo sistema su un calcolo: la popolazione cresce in progressione geometrica: 1+2 + 4 + 8 + 16 + 32 ecc.; la capacità produttiva del suolo in progressione aritmetica: 1+2 + 3 + 4 + 5 + 6. La differenza è evidente e terrorizzante; ma è giusta? Cosa prova che la fertilità del suolo cresce in progressione aritmetica? L'estensione del suolo è sì limitata. E, quando la forza-lavoro impiegabile su tale superficie cresce con la popolazione, potrei accettar che l'aumento del prodotto ottenuto dall'aumento del lavoro non sia proporzionale al lavoro; tuttavia resterebbe un terzo elemento che l'economista non discerne: la scienza, il cui progresso è infinito e altrettanto rapido dell'aumento della popolazione. Quale progresso dell'agricoltura ottocentesca non è dovuto alla chimica, anzi a due soli uomini, Sir Humphry Davy e Justus Liebig? La scienza cresce almeno quanto la popolazione: la popolazione cresce proporzionale al numero della generazione precedente; la scienza cresce in rapporto alla somma di tutte le conoscenze tramandate dalle generazioni precedenti quindi perlopiù in progressione altrettanto geometrica. Cosa è impossibile alla scienza? È poi ridicolo parlare di sovrappopolazione finché «la valle del Mississippi ha tanto terreno incolto da potervi trasferire tutta la popolazione d'Europa» [Alison: op. cit]. Finora solo un terzo della terra è stato coltivato e anche solo su questo terzo la produzione può ancora più che sestuplicarsi con l'impiego dei nuovi mezzi di coltura oggi già escogitati.
Ripetiamo: la concorrenza oppone capitale a capitale, lavoro a lavoro, proprietà fondiaria a proprietà fondiaria, e ognuno di tali elementi a tutti gli altri. Nella lotta vince il più forte indi l'esito è prevedibile studiando la forza dei concorrenti. Anzitutto proprietà fondiaria e capitale sono ambi più forti del lavoro ché il lavoratore deve lavorar per viver mentre il proprietario fondiario può viver delle sue rendite e il capitalista dei suoi profitti o del suo capitale o del possesso fondiario capitalizzato se serve. Ne segue che al lavoro spetta solo lo stretto necessario, i meri mezzi di sussistenza; mentre la maggior parte dei prodotti è partita fra capitale e possesso fondiario. Inoltre il lavoratore più forte scaccia dal mercato il più debole, il capitale maggiore quello minore, il possesso fondiario più grande quello più piccolo: teoria confermata dalla realtà. Sono noti i vantaggi dell'industriale e del commerciante più grosso sul più piccolo, del grande proprietario fondiario sul proprietario d'un solo iugero. Ne segue che perlopiù il capitale e la proprietà fondiaria più grandi divorano il capitale e la proprietà fondiaria più piccoli: l'effetto è la centralizzazione del possesso, accelerata dalle crisi commerciali ed agricole. La grande proprietà cresce più lesta della piccola poiché dal ricavato lordo si detrae una parte assai minore per le spese della proprietà. Tale centralizzazione del possesso è una legge intrinseca della proprietà privata come le altre: le classi medie devono esser proletarizzate finché il mondo sarà polarizzato in milionari e poveri, in grossi possidenti e poveri manovali. Tutte le leggi per ridistribuir la terra o scorporar il capitale sono vane: la polarizzazione è uopo salvo un totale mutamento dei rapporti sociali, un'elisione dell'antagonismo degli interessi, abolizione della proprietà privata.
La libera concorrenza (dogma degli economisti odierni) è impossibile. Il monopolio forse non poteva realizzare la sua intenzione di tutelare il consumatore dalla frode; ma la sua abolizione spalanca le porte alla frode. Dire che la concorrenza abbia connaturato l'antidoto contro la frode poiché nimo vuole merci cattive (cioè presupporre l'assurdo che ognuno sia perito d'ogni merce) implica l'uopo del monopolio, evidente per molte merci. Es. Le farmacie devono aver un monopolio; e la merce più importante, il denaro, necessita del monopolio più di tutte: ogni qualvolta cessò d'esser monopolio dello Stato, il mezzo circolante ha causato una crisi commerciale; e gli economisti inglesi (fra cui il dottor Wade) ammettono la necessità di tale monopolio. Ma manco il monopolio protegge dal denaro falso. Da ogni lato il problema ha difficoltà irrisolte: il monopolio genera la libera concorrenza e la libera concorrenza genera il monopolio; perciò ambi vanno abolite elidendo il principio che la genera.
La concorrenza ha penetrato tutti i rapporti umani e ha reso completa la reciproca schiavitù in cui oggi vivono gli uomini. La concorrenza è la gran molla che sprona incessante all'industriosità il nostro ordine, anzi il nostro disordine sociale, vecchio e decadente; ma ogni nuovo sforzo distrugge pure una parte delle energie scemanti. Nonché il progresso numerico dell'umanità, la concorrenza governa il progresso morale. Chi conosca un poco le statistiche dei delitti avrà notato la caratteristica regolarità con cui determinate cause causino determinati delitti. L'estendersi del sistema-fabbrica ovunque ha arrecato l'incremento dei crimini. Si può preveder con sempre maggiore esattezza il numero degli arresti, dei crimini, perfino degli omicidi, dei furti con scasso, dei furtarelli etc. che ogni anno avverranno in una grande città come avvenuti in Inghilterra. Tale regolarità prova che pure il delitto è retto dalla concorrenza; che la società genera una domanda di delitti cui corrisponde un'adeguata offerta; che il vuoto lasciato da arresti, deportazioni o esecuzioni d'un certo numero di persone è tosto colmato, proprio come ogni spopolamento è tosto colmato da nuove nascite. In altre parole: il delitto grava sui mezzi di repressione come le popolazioni gravano sui mezzi di occupazione. Giudichi il lettore se sotto tale regime sia giustizia autentica punire i crimini. Io voglio solo provar che la concorrenza abbia esteso il suo dominio sul terreno morale e a che degradazione la proprietà privata ha condotto l'uomo.
Nella lotta del capitale e della terra contro il lavoro, i primi due elementi hanno ancora un particolare vantaggio rispetto al lavoro: l'aiuto della scienza. Pure la scienza è diretta contro il lavoro nelle attuali circostanze. Es. Quasi tutte le invenzioni meccaniche ebbero cagione dalla penuria di forza-lavoro: così in particolare le macchine filatrici di Hargreaves, di Crompton ed Arkwright.6 Ad ogni richiesta di lavoro è seguita un'invenzione accrescente la forza-lavoro riducendo la domanda di lavoro umano. La storia d'Inghilterra dal 1770 ad oggi lo prova. Solo la richiesta di lavoro e di salari superiori occasionò l'ultima grande invenzione nel campo della filatura: la selfacting mule (mulinello automatico) che raddoppiò il lavoro meccanico dimezzando il lavoro manuale, rese disoccupata metà degli operai e ridusse i salari dell'altra metà; annientò una coalizione operaia contro gli industriali e distrusse l'ultimo residuo di forza con cui il lavoro aveva potuto ancora sostenere l'impari lotta contro il capitale (cfr. Andrew Ure: Filosofia delle manifatture, vol. 2).
L'economista ha ragione che infine la meccanizzazione giova ai lavoratori poiché rende meno costosa la produzione onde il mercato per i suoi prodotti diviene più grande al che i lavoratori licenziati sono riassunti. Ma non scorda l'economista che la produzione della forza-lavoro è regolata dalla concorrenza, che la forza-lavoro grava sempre sui mezzi di occupazione, cioè che: già nel momento in cui tali vantaggi arrivano, c'è un'eccedenza di concorrenti in attesa di lavoro rendendo illusori quei vantaggi, mentre resta lo svantaggio: l'improvvisa sottrazione dei mezzi di sussistenza a metà operai e la caduta dei salari dell'altra metà? Non scorda l'economista che il progresso delle invenzioni è incessante onde tale svantaggio si perpetua? Non scorda che colla sempre maggior divisione del lavoro, un operaio è impiegato solo a una certa macchina per un certo lavoro particellare di cui vive, cioè che per l'operaio adulto è di solito impossibile il trapasso da un lavoro ad un altro?
Gli effetti della meccanizzazione sono un tema legato ad un altro tema più lontano: il sistema-fabbrica, che ivi non ho tempo e voglia di trattar, ma spero d'aver presto occasione di farlo per esteso l'orrida immoralità di tale sistema e di rilevar implacabile l'ipocrisia degli economisti che in esso è affatto visibile.7
1. Claude Louis Berthollet [1748 –1822]; Humphry Davy [1778 –1829]; Justus von Liebig [1803 –1873]; James Watt [1736 – 1819]; Edmund Cartwright [1743 – 1823]: celebri chimici e inventori.↩
2. La Lega contro le leggi sul grano (Anti-Corn-Law League), fondata nel 1838 dagli industriali Cobden e Bright a Manchester, era un'organizzazione liberista dei capitalisti industriali per indebolir la grande nobiltà fondiaria e ridurre i salari. Le leggi che limitavano importazioni di cereali dall'estero tenevano alto il prezzo del grano e quindi i salari. Nella loro lotta contro i proprietari fondiari, gli industriali liberali tentarono di allearsi alle masse operaie ma il primo movimento operaio autonomo (il cartismo) si schierò contro l'abolizione delle leggi sul grano e in genere contro l'alleanza col liberalismo. Le leggi sul grano saranno abrogate nel 1846. La Lega si sciolse giovedì 2 luglio 1846.↩
3. Lo pseudonimo Marcus fu introdotto da Joseph Rayner Stephens per raccontare una teoria del complotto contro i poveri; e poi ripreso dai cartisti per pubblicare l'opuscolo satirico: The Book of Murder! A vademecum for the Commissioners and Guardians of the New Poor Law throughout Great Britain and Ireland, being an exact reprint of the infamous Essay on the possibility of limiting populousness, by Marcus, one of the three. With a refutation of the Malthusian doctrine [Londra, 1839]. L'opuscolo affermava che il governo praticasse l'infanticidio dei poveri tramite gas.↩
4. La legge nuova sui poveri (An act for the amendment and better administration of the laws, relating to the poor England and Wales, 14 agosto 1834) impose un'unica assistenza ai poveri: il lavoro coatto. Le case di lavoro furono rinominate dal popolo “bastiglie della legge sui poveri”.↩
5. Engels non realizzò tale progettata opera di carattere economico; ma nella tripla di articoli «La situazione dell'Inghilterra» (abbozzo di una storia sociale dell'Inghilterra, di cui l'Articolo 1 è uscito negli Annali franco-tedeschi) stima l'insegnamento economico di Adam Smith e le teorie utilitaristiche di Jeremy Bentham e James Mill una teorizzazione del dominio della proprietà privata, dell'egoismo, dell'alienazione dell'uomo, che sono la materializzazione dei princìpi derivanti dalla Weltanschauung cristiana (cfr.: Il secolo diciottesimo).↩
6. James Hargreaves [1720-1778]: inventore della giannetta: filatrice che per la prima volta permise di tessere tessuti di dimensioni più grandi delle braccia del tessitore. Il nome deriva dall'inglese engine: macchina a motore.
Sir Richard Arkwright [1732-1792]: inventore del throstle (tordo): filatrice idraulica a lavoro continuo (anziché a vapore e a lavoro intermittente come la giannetta), chiamata tordo perché rumorosa.
Samuel Crompton [1753-1827]: inventore del mulo: un ibrido fra la giannetta e il throstle.↩
7. Nel 1845 Engels avrebbe pubblicato La situazione della classe operaia in Inghilterra: «un argomento che all'inizio volevo svolgere solo come capitolo singolo di un lavoro più ampio sulla storia sociale dell'Inghilterra, ma l'importanza dell'argomento tosto mi costrinse a dargli un'opera a sé stante» [Prefazione]. L'opera è la sintesi della documentazione raccolta durante il soggiorno inglese (novembre 1842 - agosto 1844).
«A Manchester era stato mandato, come è noto, in veste ufficiale perché si occupasse dell'andamento del cotonificio Ermen & Engels, di cui il padre era comproprietario, ma per quasi due anni il tirocinio commerciale aveva in realtà coinciso, come del resto era nelle sue intenzioni, con l'apprendistato politico. Nel cuore di quella zona dell'Inghilterra che la rivoluzione industriale aveva radicalmente trasformato, Engels aveva infatti potuto conoscer di persona una realtà che non aveva riscontri altrove. Ci si era immerso con l'impegno nonché l'entusiasmo di volerne studiar la fisionomia sociale, economica e politica, capirne il processo di formazione di possibile sviluppo, individuarne le tensioni e i sommovimenti in atto. Tornato, poi, a Barmen, nella sempre più claustrofobica casa paterna, si era messo al lavoro non avendo ancora ben chiaro che sorta di libro avrebbe ricavato da quegli studi non-teorici, da quella sintomatica esperienza. [...] Con sé è Engels non aveva portato solo articoli, opuscoli, tabelle statistiche, rapporti delle commissioni d'inchiesta (gli allucinanti blue-books) e altri liberi che avevano già trattato aspetti della questione (come quelli di Carlyle, di Peter Gaskell, del cartista, e amico James Leach ecc.), ma anche una grande quantità di annotazioni e di rilievi, frutto di osservazioni e indagini personali, che gli consentivano, oltre che un diretto controllo sull'argomento, di intervenire in prima persona.. Inoltre riconfluivano nell'ambito della disanima degli effetti provocati dal “sistema delle fabbriche” sulla realtà sociale, tutta una serie di interventi che era già venuto facendo nella “corrispondenza” inviata dalla Inghilterra alla “Gazzetta Renana” e allo “Schweizerische Republikaner”, negli articoli sullo “Avanti!”, e soprattutto nei due saggi pubblicati da Marx, a Parigi, negli “Annali franco-tedeschi”. Insomma in questo “primo libro inglese” (come è Engels lo battezza nell'epistolario) veniva ripresa una molteplicità di temi già affrontati: dalle teorie di Malthus e dei liberoscambisti alle rivendicazioni del movimento che cartista, dalle leggi sul grano al bill delle 10 ore, dal processo di rapida proletarizzazione delle classi lavoratrici alle vicende dello sciopero del 1842, e diventano parte integrante del punto focale di tutto il libro, per Engels, il “nocciolo” della situazione inglese, cioè la condizione della classe operaia» [Laura Caretti: Nota introduttiva a La condizione della classe operaia in Inghilterra, Samonà e Savelli, 1972] ».↩
Indice di Annali franco-tedeschi
Ultima modifica 2019.02.06