L'imperialismo unitario

Arrigo Cervetto (1950-1980)

 


Trascritto per inetrnet da Dario Romeo, settembre 2001

Capitolo sesto
L'UNITA' DELL'IMPERIALISMO
NELLA "COESISTENZA PACIFICA", 1957-1964

Nota introduttiva
Il corso dell'imperialismo nel 1956-57
L'unità dell'imperialismo nel confronto USA-URSS
Tesi sullo sviluppo imperialistico, durata della fase controrivoluzionaria e sviluppo del partito di classe
L'impostazione strategica delle "Tesi" del 1957
I limiti della recessione americana
L"'imperialismo unitario" nella posizione dell'URSS sulla recessione USA
Il Piano delle promesse sbagliate
Dall'autarchia staliniana al mercato unico mondiale
Il significato della "distensione" nel quadro di una circolazione mondiale dell'imperialismo
Il Giappone negli equilibri asiatici
Kruscev: un cane morto

Nota introduttiva
L'analisi condotta nel periodo krusceviano evidenzia con abbondante documentazione come ogni settore economico nazionale sia sempre più legato al sistema economico mondiale e come esso, in questa condizione di interdipendenza, lavori e contribuisca allo sviluppo dell'imperialismo mondiale. Il capitalismo statale sovietico, ancora relativamente debole e molto meno diffuso di quello sviluppato dalle grandi "Corporation" americane, sorregge e rafforza, nella sua ascesa, l'imperialismo USA. Questa la sintesi dell'analisi condotta allora.

L'analisi tuttavia era in funzione di una concezione critica dell'imperialismo in rapporto alla visione e ai tempi di formazione del partito rivoluzionario. L'impegno teorico e politico assunto dal gruppo originario di "Lotta Comunista" in questa direzione si trovava nel 1957 di fronte all'alternativa: o attivizzare un "movimento" eterogeneo in un'opera di denuncia e di "pressione" per accelerare il processo di destalinizzazione dei partiti socialcomunisti, destinato ad essere assorbito nel calderone della "socialdemocratizzazione", rischiando così di portare acqua al mulino dell'opportunismo; oppure costruire l'ossatura del partito di classe, iniziando da una rete di quadri operai, operanti inevitabilmente in una condizione di minoranza, ma nella certezza di costruire qualcosa di duraturo.

L'alternativa era conseguente alla momentanea crisi del PCI, determinata dal "Rapporto Kruscev", dalla tragedia ungherese, e riflessa dai tentativi confusi di costituire una "sinistra comunista". La nostra tesi sull'imperialismo unitario, nata in contrapposizione alle ideologie e alle manifestazioni della guerra fredda come richiamo alle ragioni dell'antagonismo di classe e del vero internazionalismo proletario, trovava nella "distensione" ulteriori motivi di specificazione, in quanto l'ideologia post-staliniana aveva bisogno di giustificare la tesi della coesistenza e della competizione pacifica.

Un primo motivo di specificazione ci imponeva di dibattere gli aspetti qualitativi della teoria marxista dell'imperialismo, convinti che la destalinizzazione avrebbe operato un'ulteriore sterzata socialimperialista. Considerata la tendenza di sviluppo e la rete di interessi che alimentava l'ideologia del capitalismo di Stato, non solo occorreva approfondire l'analisi del capitalismo statale sovietico per demolire le mistificazioni krusceviane sulla "competizione", ma occorreva combatterne l'ideologia complessiva come fattore di corruzione della classe operaia, nella prospettiva che anche in Italia si sarebbero create le condizioni per il "bipartito" del capitalismo di Stato.

Per questa ragione, nella relazione alla Conferenza nazionale dell'organizzazione del 1957, veniva dedicato un tema specifico al capitalismo di Stato, per il cui approfondimento teorico si partiva dalla stessa pubblicistica scientifica di Marx. Contro coloro che non avevano capito il marxismo, contro coloro che si erano scandalizzati perché in Marx "l'operaio diventa una forza di lavoro, il capitalista un agente di accumulazione, o capitale personificato", dicevamo appunto che proprio così va inteso il rapporto scientificamente. "Agente di accumulazione" o "capitale personificato" sono infatti due termini che pongono la teoria marxista del capitalismo al di sopra di ogni personificazione, per cui se il capitalista privato non è niente altro, in sede di leggi economiche, che "capitale personificato", a maggior ragione la stessa definizione concettuale vale per il capitalismo di Stato e i suoi agenti.

Un altro motivo di approfondimento era non tanto l'essenza del capitalismo di Stato, quanto la sua evoluzione storica. Nel saggio che apre questo capitolo viene posto un quesito apparentemente critico verso una tesi di Lenin: "il capitalismo statale rappresenta veramente, come dice Lenin, l'anticamera del socialismo, ossia oggettivamente un passo progressivo, o non è, invece, il prodotto del caos e dell'imputridimento capitalistico-imperialistico, un forsennato tentativo di impedirne o dilazionarne la caduta, sotto il peso schiacciante dei problemi sociali che è impotente a risolvere?"

La risposta a questo quesito, giustificato dall'evoluzione negativa subita dal capitalismo statale russo, veniva data nelle conclusioni del saggio: "La cosiddetta "pianificazione sovietica" è la demagogica etichetta sovrapposta al caos capitalista. Il capitalismo di Stato è il tentativo in determinate condizioni storiche quali erano quelle della Russia, dopo che la Rivoluzione d'Ottobre rimase un glorioso episodio isolato nel mondo, di sviluppare la produzione capitalistica in un'epoca che segna già il declino, la crisi, l'imputridimento di un sistema sociale superato."

Veniva aggiunto: "In questa fase, il giovane capitalismo statale russo non poteva che nascere e formarsi viziato da tutte le malattie senili dei suoi maturi fratelli occidentali senza, tuttavia, avere attraversato la loro lunga e naturale vita."

Dunque, da una parte l'oggettività del capitalismo di Stato come ultimo stadio, dall'altra la strategia di Lenin che vincolava il "passo progressivo" al fatto che la Rivoluzione d'Ottobre non rimanesse appunto un episodio isolato, cioè un passo corrispondente all'esigenza di "non dimettersi dal potere" prima di essere in grado di sviluppare la rivoluzione internazionale. In sostanza però, ciò che veniva osservato nell'analisi del 1957 a proposito della Russia anticipava quanto si può osservare a proposito dell'Italia e delle "malattie senili" prodotte dall'egemonia del capitalismo statale italiano: la sua "competitività" declina al livello russo in quanto la sua maturazione imperialistica, risentendo del ritardo industriale che l'ha privata del processo naturale di lunga vita, cioè di una accumulazione molecolare, ha prodotto in anticipo le malattie senili, specie quella "malattia burocratica", quel modo parassitario che, come aveva visto lo stesso Lenin, più corrisponde alla forma del capitalismo di Stato.

Nelle precedenti cronologie abbiamo visto come Kruscev amasse fare il Bertoldo alla corte della diplomazia internazionale, intrattenendo i suoi interlocutori con degli apologhi. Una volta, racconta lo storico Ulam, Kruscev per spiegare la "coesistenza pacifica" si servì dell'apologo del giovanotto che sposa la donna anziana e ricca. Il fenomeno, diceva, non è raro nei paesi capitalisti e non vieta alla coppia di vivere in armonia e allo sposo, malgrado le sue impazienze per l'eredità, di essere gentile e rispettoso verso la consorte mentre questa invecchia. Però, osserva lo storico: "c'è un fatto spiacevole di cui Kruscev non tenne conto: e cioè che le statistiche dimostrano che un numero sorprendente di vecchie signore sopravvivono ai loro mariti più giovani."

Ora, a vent'anni di distanza, non si può dire che la vecchia signora ricca sia stata sopraffatta dalle prestazioni "competitive" del giovane sposo. L'atmosfera di quel periodo passava dallo sgomento per la tragedia ungherese all'euforia del primo sputnik che autorizzava Kruscev a sbracciarsi sulla superiorità del sistema sovietico.

Quell'atmosfera imponeva una lotta teorica e politica non solo capace di demistificare il mito del "paese del socialismo" e di chiarire i caratteri dell'imperialismo, ma capace anche di fugare gli errori di immediatismo, soprattutto gli errori di valutazione prodotti dall'incipiente processo di socialdemocratizzazione.

Una delle ultime scoperte dell'opportunismo per giustificare le "alleanze della classe operaia con gli altri strati" e i sofismi delle "nuove condizioni obiettive" per la pratica delle "vie democratiche" si basava appunto sulla deformazione immediatista della realtà sociale e dei rapporti tra le classi, cioè sul presunto aumento degli strati intermedi, inteso come un fatto che annullava la teoria marxista della proletarizzazione. Nella relazione del 1957 questa deformazione veniva confrontata con i dati dell'Ufficio Internazionale del Lavoro (BIT) sulla proporzione dei salariati (operai e impiegati) rispetto alla popolazione attiva. I dati BIT del 1956 davano per l'Inghilterra il 93%; per gli USA, il Canada e l'Australia l'80%; per Argentina e Cile il 70%; per la Svezia il 77% e per l'Italia il 60% (bassa percentuale che era messa in relazione al gran numero degli addetti all'agricoltura, una parte dei quali classificati come "lavoratori famigliari non remunerati"). Si poteva così rilevare che in America, in Europa e Australia i salariati costituivano in media dai due terzi ai quattro quinti della popolazione attiva, in Giappone il 40%, in Asia e in Africa un terzo e un quinto. Quindi la tendenza alla proletarizzazione poteva essere smentita soltanto dalla miopia dell'opportunismo o dalle sue mistificazioni sulla composizione di classe per togliere i "colletti bianchi" dal proletariato.

La lotta teorica e politica doveva comunque tener conto di questa forma di immediatismo, coltivata dall'opportunismo per disorientare la classe operaia, in quanto l'abbaglio dei ceti medi serviva a teorizzare l’"integrazione della classe operaia", mentre la forma opposta e corrispondente di immediatismo era appunto quella massimalista, quella del crollo dell'opportunismo a breve scadenza e di una male intesa rivoluzione dietro l'angolo.

Per questo occorreva affrontare decisamente anche gli aspetti quantitativi dello sviluppo dell'imperialismo. Si rendeva perciò necessaria una ipotesi scientifica su queste prospettive di sviluppo e sul processo di industrializzazione e proletarizzazione mondiale, datandone possibilità e limiti, per rendere coscienti i quadri operai della durata della fase controrivoluzionaria e quindi del lento lavoro d'organizzazione che avrebbe condizionato lo sviluppo del partito rivoluzionario.

Queste sono le ragioni che resero necessaria la presentazione, a un Convegno della Sinistra Comunista, delle "Tesi del 1957", che abbiamo ritenuto opportuno inserire in questo capitolo unitamente alle note di risposta alle obiezioni sollevate dal dibattito, in quanto si tratta di una elaborazione omogenea al problema centrale dell'imperialismo affrontato in quel periodo.

Scorgendo gli aspetti di politica interna discussi nelle tesi potrà apparire eccessivo il timore di "lavorare per Nenni", senza una precisa demarcazione dell'opportunismo in tutte le sue componenti. Ricordiamo però che la destalinizzazione portava allora alla ribalta il problema dell'unificazione socialista, e che lo stesso travaso di intellettuali, che si sarebbe verificato vent'anni dopo verso il PCI del 20 giugno 1976, allora si verificava verso il PSI, propiziato dagli avvenimenti del 1956. Non si trattava, comunque, di sopravvalutare le capacità politiche e organizzativi del partito di Nenni (capacità che,

storicamente, il PSI non ha mai avuto), si trattava di indicare, invece, con l'ausilio di quel fenomeno di immediatismo del travaso intellettuale, un fenomeno più complesso che gli operai delusi dallo stalinismo non potevano afferrare appieno.

Infatti a chi auspicava le rovine del PCI come una catarsi del movimento operaio, veniva obiettato: "se su queste rovine si alzasse - come non è da escludersi - il grande palazzone di un partito di tipo socialdemocratico, frutto delle svariatissime confluenze e di un lungo processo di osmosi, i cui elementi potrebbero essere i giovani funzionari degli attuali partiti pseudo operai, che cosa cambierebbe?" Non avevamo poi mancato di rimarcare i limiti contingenti della crisi del PCI, subito superabile in virtù della sua superiorità organizzativa e della sua predisposizione al salto della quaglia ideologico. Infatti il palazzone eretto sulle rovine dello stalinismo è quello previsto, anche se il processo di osmosi si è verificato per vie interne al PCI e l'architrave del palazzone, di tipo interclassista, non corrisponde a quello tradizionale di un partito socialdemocratico costituito da strati salariati, ma riflette la condizione di imputridimento propria del capitalismo di Stato a base di massa piccolo borghese.

Sono inclusi nel capitolo due articoli occasionati dalla recessione americana del 1958 in cui vengono ribaditi i caratteri unitari dell'imperialismo e i motivi che impedivano a tale recessione di assumere i caratteri di una crisi profonda, seguiti poi da due articoli relativi al confronto USA-URSS e al significato della "distensione" nel quadro di una dialettica mondiale dell'imperialismo. Questa globalità, come vedremo nel capitolo successivo, è sempre stata presente nella nostra impostazione strategica contro una visione bipolare del sistema imperialista avulsa dallo sviluppo dialettico delle lotte per la ripartizione del mercato. Infine chiude il capitolo una messa a punto sulla caduta di Kruscev, la cui voce registrava i fatti e le tendenze di sviluppo della società sovietica, quei fenomeni cioè che imponevano la "coesistenza pacifica" per tentare di fare imboccare al capitalismo statale russo la via americana.

(Lorenzo Parodi)

Il corso dell'imperialismo nel 1956-57

Sviluppo capitalistico e pauperizzazione
L'imperialismo non frena lo sviluppo capitalistica
La concorrenza imperialistica favorisce lo sviluppo economico
Lo sviluppo economico in Cina e in India
Le contraddizioni dell'economia sovietica, fattore necessario dell'imperialismo unitario
La concorrenza per i mercati
Le due direttrici dell'imperialismo russo

Sviluppo capitalistico e pauperizzazione
Quando analizziamo le attuali condizioni di sviluppo capitalistico, le prospettive a lunga scadenza dell'imperialismo ed il conseguente miglioramento delle condizioni delle masse che, legate sempre più alla produttività aziendalistica, cadono nel riformismo, non dobbiamo perdere di vista per un solo istante le contraddizioni gigantesche che tale sviluppo crea. Non comprendere l'essenza di queste contraddizioni, e perciò il metodo rivoluzionario che le risolve, significa essere attratti esclusivamente dalle apparenze e cadere nel riformismo e nell'opportunismo.

Nell'opera "L'imperialismo, fase suprema del capitalismo" Lenin dice che ineguale sviluppo e pauperizzazione sono premesse dell'imperialismo e afferma, implicitamente, che l'imperialismo non eleva il tenore di vita del proletariato metropolitano: "in tal caso il capitalismo non sarebbe più tale, perché tanto la disuguaglianza di sviluppo che lo stato di semi affamamento delle masse sono essenziali e inevitabili condizioni e premesse di questo sistema della produzione."

La concezione di Lenin al riguardo, che è l'opposto di quella del Lange e di quella "equivoca" del Dobb, dovrebbe essere ormai incontrovertibile, tanto più che ai benefici del famoso "sovrapprofitto", Lenin (vedi la prefazione all'edizione francese e tedesca, scritta nel 1920) associa solo "i capi operai e lo strato superiore dell'aristocrazia operaia".

Si legga bene quindi: non tutta l'aristocrazia operaia, infima parte del proletariato, ma solo il suo "strato superiore", cioè una frazione della frazione. È logico che Lenin, coerente con tutta la sua impostazione, scrivesse questo; infatti se si ammette che il proletariato, anche di una sola nazione, possa beneficiare del processo capitalistico, non importa se espanso in estensione nell'imperialismo perché il processo di produzione è immutato, si giustifica e si ammette la sua perennità.

I neoriformisti poi vorrebbero far credere che lo sviluppo capitalistico aumenta i ceti medi; è vero invece esattamente l'opposto: esso aumenta la proletarizzazione accentrando il capitale. Questo processo è avanzatissimo nel mondo. Non importa se il proletario ha l'auto e un'ideologia piccolo borghese: è la sua condizione sociale che sarà al centro della crisi. Obiettivamente il processo lavora per noi. Un'altra delle argomentazioni su cui si basa il neoriformismo è che appoggiando lo sviluppo capitalistico, nella fattispecie del Piano Vanoni, si risolve il problema della disoccupazione. Di Vittorio si impegna ad appoggiare il Piano Vanoni poiché questo occuperebbe 400 mila nuove unità lavorative. Non solo quindi non si smonta questo sofisma, cosa facilissima, ma lo si accetta.

Colin Clark ha dimostrato come fra l'ultimo quinquennio anteguerra e il 1953, pur aumentando il reddito nazionale di 1/3, la popolazione occupata sia diminuita di 200 mila unità. P. Sylos Labini, da parte sua, dimostra che fra il 1947 e il 1954, contro un aumento della produzione industriale del 126%, l'occupazione industriale è diminuita del 2%. La FIAT, che ha triplicato la produzione tra il 1948 e il 1954, ha aumentato l'occupazione solo dell'8%. La Montecatini, raddoppiando la produzione fra il 1949 e il 1954, ha diminuito l'occupazione del 4%. L'Italcementi ha aumentato la produzione di 2,5 volte fra il 1950 e il 1954 ma ha occupato solo 800 nuove unità lavorative. Più il settore è monopolizzato più questa legge agisce.

M. Lena su "Critica Economica" n. 1, 1956 (in un articolo da cui abbiamo tratto i dati succitati), dimostra così che aumentando la produzione non aumenta l'occupazione. Ciò, diciamo noi, sarà ancora più vero nel futuro. Lena poi sostiene con dati che l'aumento della produzione industriale è dato dalla intensificazione dei ritmi di lavoro e che lo stesso principio vale anche per la diminuzione dei costi di produzione.

Certamente questo fattore è presente, ma non è quello dominante.

L'aumento della produttività è dato dal maggior investimento di capitale costante, altrimenti i dati di Lena verrebbero smontati da quelli succitati. Un'altra conseguenza dello sviluppo capitalistico, frutto di una legge oggettiva, è la pauperizzazione assoluta e relativa non smentita, anzi confermata dai fatti.

L'alta composizione organica del capitale, che varia il rapporto tra capitale e forza lavoro-salari, la produttività, che prolunga la giornata lavorativa non retribuita (plusvalore relativo), l'esercito industriale di riserva, la diminuzione del valore della forza lavoro, per cui occorrono più salari per lo stesso nucleo familiare, la ininterrotta flessione dell'incidenza dei salari sul reddito nazionale (logica necessità per l'aumento sfrenato degli investimenti), l'intensificazione del lavoro (altra forma di plusvalore relativo), l'aumento della produttività del lavoro che diminuisce il valore della forza lavoro, in quanto abbassa il valore dei mezzi di consumo necessari al suo mantenimento e crea la necessità di nuove merci d'uso: ecco alcuni esempi di pauperizzazione relativa. Relativamente cresce la massa del capitale e cresce la massa della miseria relativa.

Abbiamo qui il nodo cui inevitabilmente la produzione capitalistica deve approdare: la crisi di sottoconsumo. In nessun modo vi può essere altra soluzione. Certamente i consumi possono crescere di molto, ma il capitale variabile (salari) sarà sempre meno in confronto a quello costante. La capacità di consumo, sempre più pauperizzata sul reddito nazionale, non assorbirà mai tutta la produzione. La creazione di nuovi consumi e la rateizzazione possono attenuare questo divario. L'esportazione imperialista di capitali può frenarlo, ma più il progresso tecnico, con la produttività, aggraverà questo contrasto insanabile tra legge del profitto e necessità del consumo, più le basi economiche del socialismo matureranno nel grembo di questa società, più la crisi sarà inevitabile con il suo intervento rivoluzionario atto a far vivere una società socialista, di consumo, che è già nelle condizioni.

La tendenza all'aumento della composizione organica del capitale è confermata anche dal gran parlare che si fa oggi a proposito dell'automazione. La rivista "Liaisons Sociales" ha dedicato all'automazione un intero fascicolo. In uno degli studi pubblicati, il problema viene affrontato nei suoi sviluppi internazionali: ciò che avviene all'interno di ogni paese, cioè la morte delle piccole industrie e una sempre più grande concentrazione industriale, dovrà per forza accadere su scala internazionale.

L'imperialismo non frena lo sviluppo capitalistica
A coloro che hanno elaborato la teoria del ristagno e della mutilazione del capitalismo si potrebbe chiedere come mai le forze materiali produttive del capitalismo si sono sviluppate durante il periodo della crisi generale del 1929, cioè nel periodo più acuto di quella fase che Lenin chiama del "capitalismo in putrefazione".

La risposta ce la dà lo stesso Lenin: "Sarebbe erroneo credere che tale tendenza alla putrescenza escluda il rapido incremento del capitalismo: tutt'altro. Nell'età dell'imperialismo i singoli rami dell'industria, i singoli strati della borghesia, i singoli paesi, palesano, con forza maggiore o minore, ora l'una ora l'altra di quelle tendenze. In complesso il capitalismo cresce assai più rapidamente di prima, sennonché tale incremento non solo diviene in generale più sperequato, ma tale sperequazione si manifesta particolarmente nell'imputridimento dei paesi capitalisticamente più forti (Inghilterra)" (Lenin, "L'imperialismo, fase suprema del capitalismo").

Lenin non accetta la teoria del "cartello generale" di Hilferding o quella del "capitalismo organizzato" di Bucharin; per lui l'imperialismo non è che la sovrastruttura del capitalismo, non vi è "imperialismo puro", ma capitalismo che permane con le sue leggi. La concorrenza, ad esempio, permane malgrado i monopoli. Ovviamente è da intendersi concorrenza su scala internazionale e non tra artigiano e monopoli.

In sostanza si può dire che il rapporto capitalismo-imperialismo implica un processo qualitativo-quantitativo e non un salto qualitativo. Così del capitalismo di Stato si può dire che rappresenta la massima espressione del processo e non la nuova forma di un salto qualitativo che non può realizzarsi che col socialismo.

V. Vitello nella sua recensione (vedi "Società" n. 3, 1957) all'opera di Paul Baran "The political economy of growth" dice che le conclusioni cui l'autore perviene sul problema delle prospettive di sviluppo dei paesi arretrati sono che per essi la rivoluzione sociale si presenta come la sola alternativa possibile e ragionevole alla disperata prospettiva del perpetuarsi dell'attuale stagnazione. Baran, dice sempre Vitello, ritiene infatti che il ritmo di accumulazione indiano è inadeguato ai compiti di trasformazione. Noi non conosciamo l'opera di Baran e non sappiamo perciò se le conclusioni sui paesi arretrati, così come Vitello le espone, siano esatte. Se sì, allora esse divergono sostanzialmente dalle nostre. Anche per i paesi industrialmente sviluppati, secondo Baran, l'unica alternativa alla crisi, che a lungo andare porterà alla decadenza economica e alla disgregazione sociale, è rappresentata dal superamento del sistema capitalistico da parte delle forze interessate al suo abbattimento. In questi paesi i gruppi dominanti vedono il ricorso alla guerra come la via d'uscita dalle attuali difficoltà del capitalismo.

Per noi l'imperialismo, invece, ha una enorme capacità d'investimento nelle zone arretrate. Si pensi all'enorme investimento USA negli armamenti: esso è fatto per una produzione a vuoto ma mantiene in piedi l'imperialismo. Potrebbe cessare e allora gli USA avrebbero una grande capacità d'investimento. Infatti, malgrado l'investimento bellico, gli USA in otto anni, dal 1945 al 1953, hanno speso ben 39 miliardi di dollari sotto la voce "aiuti all'estero" (Piano Marshall, NATO, SEATO, ecc.). Nel 1954 gli aiuti USA all'estero sono stati 3 miliardi di dollari, di cui 1 all'Europa e 1,4 all'Asia. Già nel 1953, secondo i dati del Dipartimento del Commercio, gli investimenti USA all'estero erano di 40 miliardi di dollari, di cui il 60% privati e il 40% statali.

G. Keith Funston, presidente della Borsa di New York, dice che, per mantenere l'attuale ritmo di incremento della produzione pro capite, i paesi del mondo libero hanno bisogno, nei prossimi cinque anni, di 90 miliardi di dollari di investimenti e che gli USA sono disposti e capaci a ciò.

"Sotto lo stimolo delle attività all'estero delle aziende americane, i nostri investimenti privati all'estero sono quasi raddoppiati tra il 1946 e il 1954, fino a toccare i 26,5 miliardi di dollari. Nel solo 1954 essi hanno registrato un aumento record di 2,5 miliardi di dollari. Dal 1920 non si assisteva ad una così vasta propensione ad esportare i capitali, sia investendoli in imprese americane impegnate oltre mare, sia investendoli direttamente in imprese straniere. Se affronteremo questo sforzo (cioè quello di fornire 90 miliardi all'estero), potremo attenderci di assistere nei prossimi 25 anni ad uno sviluppo dei paesi economicamente arretrati di entità e ritmo quali fino ad oggi il mondo non ha mai conosciuto."

Le dichiarazioni ora citate corredano le tesi da noi sostenute: a) la fase imperialista durerà ancora per 20 anni; b) la crisi sarà allora inevitabile; c) l'URSS non può ancora competere con gli USA (ma di ciò ci occuperemo più avanti).

L'imperialismo si sta espandendo, altro che crisi! Nella sola America Latina gli investimenti USA sono passati da 7,7 miliardi di dollari nel 1955 a 9 miliardi nel 1957. Negli ultimi tre anni i profitti derivanti da tali investimenti sono stati di 2.174 milioni di dollari, in media 700 milioni all'anno, che su un capitale di 7 miliardi dà un profitto del 10%. Ciò documenta anche la caduta del saggio del profitto e quindi la necessità di aumentare l'investimento per mantenere costante la massa del profitto.

Una delle tesi più caldeggiate dall'imperialismo russo è quella per cui una parte dei paesi sottosviluppati - viene indicata preferibilmente l'India - non compirebbe uno sviluppo capitalistico ma uno strano sviluppo economico, che non è né capitalista né socialista ma si avvicina al socialismo. Ciò sarebbe possibile perché le leggi economiche di sviluppo capitalistico sarebbero state modificate dall'azione delle "condizioni soggettive" rappresentate dalla presenza del socialismo e dalla creazione dei due mercati di famigerata memoria staliniana, in altre parole dalla presenza dell'URSS, dalla sua competizione con il capitalismo, dai suoi aiuti.

Quello che esce dalla porta però, rientra dalla finestra; infatti alla prossima Conferenza del Cairo uno dei protagonisti più attivi, presente con una numerosa delegazione, sarà, a quanto si dice, il Giappone, che è proprio un modello tipico di capitalismo monopolistico con le sette famiglie che regolano la sua economia.

Il fatto è che a garantire lo sviluppo economico dei paesi arretrati, sviluppo che è e non può che essere capitalistico, come mai ci stancheremo di ripetere, non è la presenza dell'URSS ma la concorrenza imperialistica di cui l'URSS non è che una componente.

In effetti il XX Congresso ha costituito una tappa di una nuova teorizzazione a carattere riformista e controrivoluzionario che ormai ci troviamo e ci troveremo sempre più ad affrontare nella nostra lotta. Analizzandone gli aspetti fondamentali vedremo che proprio questi ci aiutano a caratterizzare l'imperialismo.

Dietro tutte queste teorie (evitabilità delle guerre, vie pacifiche e parlamentari, ecc.), troviamo una nuova base d'analisi enunciata in tre principi: a) il campo del socialismo si è allargato; b) esiste un nuovo gruppo di paesi che si avvicinerà al socialismo; c) non è vero che il capitalismo sia stagnante ma si sviluppa.

Un "nuovo corso" quindi, una competizione pacifica per modificare ancora di più queste nuove condizioni a proprio favore.

In realtà le "nuove condizioni" dimostrano una cosa sola: che il capitalismo si sviluppa sempre più ampiamente nella sua ultima forma statale. Lo stesso Ceprakov, che cerca di teorizzare sulla distinzione tra capitalismo monopolistico statale e capitalismo statale (per noi invece la prima forma non è che la prima fase della seconda per i paesi dove esistono forti monopoli privati), al XX Congresso ha portato cifre che interessavano anche gli Stati Uniti.

Sono importantissime per vedere quanto sia vasto il capitalismo statale negli USA. Qui infatti gli azionisti di aziende private hanno un dividendo annuo di 10 miliardi di dollari e i possessori di obbligazioni dei prestiti statali percepiscono un reddito annuo di 6,5 miliardi di dollari, pagati dallo Stato. Gli investimenti all'estero poi sono 42 miliardi di dollari, di cui 16 statali.

Il fenomeno è ancora più accentuato e dominante nei paesi sottosviluppati. Qui il capitalismo di Stato è l'unica forma di sviluppo economico.

"L'investimento pubblico e lo sviluppo del settore nazionalizzato, indispensabili al processo di una economia sottosviluppata, possono quindi inaugurare tanto lo sviluppo del capitalismo di Stato, quanto uno sviluppo in direzione socialista... La differenza tra il settore nazionalizzato monopolistico dell'economia nazionale e il settore nazionalizzato che agisce come punto di partenza dello sviluppo verso il socialismo, è dato perciò dai fini cui viene fatto servire il settore nazionalizzato" scrive Oskar Lange, il pianificatore "socialista" dei Piani Quinquennali indiano e polacco (vedi "Critica Economica" n. 3, 1956).

Prima aveva detto che lo sviluppo dei paesi sottosviluppati presuppone un'accumulazione di capitali che è possibile solo con lo Stato, l'utilizzazione di tutta la forza lavoro non utilizzata, l'aumento della produttività e il rafforzamento costante del settore nazionalizzato che guida, subordina e aiuta tutti gli altri settori al proprio indirizzo economico.

Al come si possa avere il cambio qualitativo, il passaggio di indirizzo della struttura raggiunta quantitativamente, tutte le teorie di Lange e C., malgrado tutti i sofismi e la pseudoscienza, non rispondono che con astratti, idealistici, morali, "fini". Come se il "fine" politico potesse capovolgere le leggi economiche obiettive!

La concorrenza imperialistica favorisce lo sviluppo economico
E. Staley, nella sua opera "La rivoluzione dei paesi arretrati", dice che Roosevelt nel 1942: "a coloro che temevano che l'America potesse ricevere un danno economico in seguito all'aumento della concorrenza straniera, ricordò che l'ascesa economica del Sud vi aveva determinato a suo tempo un aumento della capacità di acquistare merci prodotte nel Nord. "Ciò che fu fatto per il Sud - insistette Roosevelt - si potrebbe farlo per le nazioni arretrate e gioverebbe a loro e a noi"." Più avanti lo stesso autore cita una dichiarazione nazionale degli industriali nel 1949 in cui si dice: "Un sano progresso economico non solo fa degli altri paesi dei vicini migliori, ma li rende anche migliori clienti e migliori fornitori. Coll'aumentare della loro produttività, crescerà anche la loro capacità di fornirci i prodotti e le materie prime di cui abbiamo bisogno. Coll'elevarsi del loro tenore di vita e coll'aumentare della capacità di acquisto dei vari paesi e dei rispettivi cittadini, quei paesi rappresenteranno dei mercati più vasti per le merci che vogliamo vendere. In questo modo si rafforzeranno l'economia del mondo e quella degli Stati Uniti."

Al contrario dell'imperialismo russo, col suo codazzo di ideologi e pianificatori, l'imperialismo americano, forte della sua egemonia, non ha bisogno di ricorrere a fini astratti e idealistici per esprimere la sua pratica di mercante.

Leggiamo su "Mondo Economico" del 30 marzo 1957, in un articolo per la Quinta Relazione annuale sul Piano di Colombo: "l'obiettivo occidentale è che un blocco, il cui peso demografico equivale a quello del blocco cinese, non "cresca" spostando definitivamente a sfavore dell'Occidente l'equilibrio politico mondiale. Questo obiettivo non bisogna mai dimenticarlo, tanto più che, nonostante tutto, non sembra affatto irrealizzabile."

Non lo è infatti, ma le leggi economiche operano soltanto nel presente per cui l'unico obiettivo che l'imperialismo può porsi è quello di esportare capitali: le risultanti di questo processo saranno solo la concorrenza imperialistica e le leggi di sviluppo capitalistico a determinarle.

Il Piano di Colombo di cooperazione nel Sud e nel Sud Est asiatico è stato fondato nel 1950 da Canada, Australia, Ceylon, India, Nuova Zelanda, Pakistan e Gran Bretagna. Gli investimenti di base nel settore pubblico sono stati nel periodo 1951-1957 di 1 miliardo e 868 milioni di sterline. La partecipazione USA nel periodo 1950-52 è stata di 500 milioni di dollari in aiuti e prestiti.

Dal 1951 al 1953 hanno aderito la Cambogia, il Laos, il Vietnam, la Birmania, il Nepal, l'Indonesia, la Tailandia e le Filippine. Il Giappone vi partecipa come donatore.

Durante la guerra di Corea la lievitazione dei prezzi delle materie prime ha permesso ai paesi asiatici di avere un surplus monetario che hanno utilizzato in programmi di sviluppo. Nel 1955-56 è stato portato a termine il Primo Piano Quinquennale indiano: il reddito nazionale è aumentato del 18%, il reddito pro capite dell'11% e i consumi del 9%.

Gli investimenti sono ora il 7,3% del reddito nazionale, contro il 4,9% all'inizio del Piano. In tutta la zona del Sud e Sud Est asiatico, tra il 1953 e il 1956, gli investimenti pubblici sono aumentati del 25% e il ritmo di incremento del reddito è stato superiore all'incremento demografico, mentre nel dopoguerra era in diminuzione. Nessun progresso si è avuto invece nell'agricoltura; l'industria tessile però è aumentata del 10% e la produzione industriale è aumentata del 23% nel Pakistan e dell'8% in India. Le importazioni, specie quelle di beni strumentali, sono aumentate. Come sempre gli aiuti esteri sono la condizione essenziale per la realizzazione dei Piani poliennali. Questi aiuti consistono in prestiti intergovernativi rimborsabili in valuta estera o locale, in prestiti della BIRS e dell'Eximbank. Non vi sono dati sufficienti per valutare l'ammontare preciso dell'affluenza di aiuti esteri nella zona. Per quanto riguarda i prestiti e le donazioni da governo a governo, essi sono stati nel periodo 1955-56 di 975 milioni di dollari mentre la BIRS ha contribuito con 125 milioni. Negli anni 1950-56 sono stati utilizzati 2.370 milioni di dollari, 2,9 milioni stanziati dagli USA, dalla Gran Bretagna, dal Giappone, dall'Australia, ecc. e 356 milioni di prestiti BIRS.

Come portata il Piano di Colombo è inferiore solo al Piano Marshall ma si palesano alcune incertezze per quanto riguarda le sue prospettive di sviluppo. Un elemento di incertezza, dice il succitato articolo di "Mondo Economico", "è dato dalle fluttuazioni dei prezzi internazionali delle materie prime su cui si fonda il loro commercio di esportazione. Si pensi agli alti e ai bassi subiti dai prezzi di stagno, gomma, cotone, ecc. a partire dalla guerra di Corea."

Il Giappone non interviene imperialisticamente solo attraverso il Piano di Colombo. Il mese prossimo, nel corso del suo secondo viaggio nell'Asia sudorientale, il Primo Ministro giapponese Nobusuke Kishi riproporrà il suo Piano per lo sviluppo economico dell'Asia Sudorientale. Questo Piano non ha avuto accoglienze entusiastiche nei paesi visitati (il Vietnam meridionale, la Cambogia, il Laos, la Malesia, l'Indonesia, le Filippine, l'Australia e la Nuova Zelanda). Anche Nehru, durante il suo recente viaggio a Tokyo, ha manifestato la sua diffidenza per il Piano Kishi e gli USA non lo incoraggiano di certo perché ne temono la concorrenza imperialistica. Ciò che temono in effetti è che esso si risolva alla fin fine in una riedizione del vecchio Piano Tojo per una "grande sfera di coprosperità asiatica".

Non sappiamo esattamente in cosa consista il Piano, si parla però di grossi stanziamenti. Intanto qualche risultato è stato raggiunto: a) nel Vietnam meridionale è stato risolto con un compromesso il problema delle riparazioni; b) in Cambogia è stato concordato un contributo giapponese per 2 miliardi di yen ma non si è ancora giunti all'accordo sulle modalità del prestito; c) all'Indonesia sono stati accordati 200 milioni di dollari per riparazioni di guerra; d) nella Federazione malese si sono costituite due compagnie miste níppo-malesi.

Lo sviluppo economico in Cina e in India
Il Secondo Piano Quinquennale indiano (1956-1961) prevede investimenti pubblici per 38 miliardi di rupie di cui 11 da risorse esterne (aiuti e prestiti) e 12 ricorrendo al deficit financing. Gli investimenti privati sono previsti in 24 miliardi di rupie e i servizi sociali statali in 10 miliardi. L'obiettivo è di aumentare il reddito nazionale del 25%, quello pro capite del 18% e i consumi del 21%. Con l'aumento del deficit, però, e la diminuzione delle riserve estere la realizzazione del Secondo Piano Quinquennale è in pericolo, dice "Relazioni Internazionali" del 21 settembre 1957.

Nel progetto originario si contava su 1,6 miliardi di dollari di aiuti stranieri, cioè il 16% circa della spesa del Piano nel settore statale. Per l'aggravarsi delle difficoltà economiche, dovuto all'aumento dei prezzi internazionali e al fabbisogno superiore al previsto di macchinario straniero, la necessità di aiuti stranieri è salita a 2,2 miliardi di dollari. Senza questa somma l'esito del Piano, ridotto del resto in certi investimenti siderurgici, è compromesso. Finora l'India ha ricevuto aiuti USA per 60 milioni di dollari annui, un prestito sovietico di 500 milioni di rubli e un totale di 1,2 miliardi di dollari in sussidi dal Fondo Monetario Internazionale. Manca 1 miliardo di dollari per coprire le necessità. Nehru ha chiesto agli USA un prestito di 600 milioni di dollari e Dulles ha risposto affermativamente. Il resto l'India spera di ottenerlo dalla Gran Bretagna.

I risultati del Piano cinese per il 1956, quali sono enunciati dal comunicato governativo pubblicato su "Relazioni Internazionali" del 31 agosto 1957, vedono un 31% di aumento sul 1955 della produzione industriale lorda, con un 41% realizzato dai mezzi di produzione e un 22% da quelli di consumo.

Per le singole voci si hanno i dati riportati nella tabella (vedi alla pagina seguente).

Cina: principali produzioni industriali (1955-1956)

Prodotto

Unità

Produzione
1956

Incremento %
rispetto al 1955

Elettricità

milioni kWh

16.590

+ 24

Carbone

1.000 tonnellate

105.922

+ 13

Petrolio

" "

1.163

+ 20

Ghisa

" "

4.777

+ 26

Acciaio

" "

4.465

+ 57

Cemento

" "

6.393

+ 42

Zucchero

" "

518

+ 26

Macchine utensili

1.000 unità

26.000

+ 89

Camion

" "

1.654

non prodotti

Cotonate

milioni mq

4.600

+ 32

Come si vede il ritmo di incremento è abbastanza alto ma non proporzionale. Infatti basti pensare che: a) alcuni paesi capitalistici hanno toccato nel 1956 i ritmi cinesi; b) nel totale - vedi acciaio - la produzione italiana è superiore a quella cinese; c) le produzioni alimentari - vedi zucchero - sono nettamente inferiori a quella italiana (mezzo milione di tonnellate in Cina contro 4 milioni in Italia). Ciò ovviamente denota il bassissimo tenore di vita cinese. Assistiamo indubbiamente ad una lenta accumulazione di capitale e ad un lento investimento di capitali, dovuto più a scarsezza assoluta che ad assorbimento da parte dei consumi che sono molto bassi, come vedremo poi analizzando la produzione agricola. Ne emerge quindi la necessità assoluta di capitali esteri che, in gran parte, solo gli USA potrebbero dare, dato che l'URSS, come tutta l'evidenza sta ormai a dimostrare, non ne è in grado.

Il basso grado di produttività cinese è documentato dal fatto che i costi di produzione sono diminuiti in media dell'8,4% nelle imprese statali.

Per quanto riguarda l'agricoltura, i piani di produzione per il 1956 relativi ad un certo numero di beni sono rimasti irrealizzati.

Cina: superficie agricola e principali produzioni

Produzione

 

1956

Incremento %
rispetto al 1955

Area produttiva

milioni di ha

159,0

+ 5,4

Area coltivata

" "

112,0

+ 1,5

Cereali alimentari

milioni di tonnellate

182,5

+ 4,4

Cotone

" "

1,4

- 5,0

Semi di soia

" "

10,2

+ 12,0

A proposito di questi dati è importante rilevare che l'area coltivata è minore di quella sovietica e di quella americana e lo stesso si può dire per la produzione dei cereali alimentari, tenendo presente che la popolazione è tre volte quella russa e circa cinque volte quella americana.

Le sovvenzioni dello Stato ai contadini sono state di 3 miliardi di yuan, mentre il totale degli investimenti per il 1956 è stato di 14 miliardi di yuan per tutti i settori della vita sociale. C'è da pensare quindi che

ben pochi siano andati all'industria.

Le contraddizioni dell'economia sovietica, fattore necessario dell'imperialismo unitario
Lo sviluppo e perciò la vita economica di un determinato paese sono necessariamente in relazione con lo sviluppo economico mondiale. È questo un dato di fatto che, come vedremo, rafforza la nostra tesi dell'imperialismo unitario. Infatti l'URSS, come qualsiasi altro paese, entra in relazioni economiche con il resto del mondo e anche se lo volesse non potrebbe farne a meno. In effetti l'URSS ha bisogno, vuole e promuove il commercio con l'Europa e con gli USA, ma nel commercio mondiale agisce la legge, descritta dalla teoria marxista, del saggio medio di profitto internazionale, legge che favorisce le nazioni economicamente più forti. Ammettendo che l'URSS sia un paese socialista, essa commerciando con paesi capitalistici li favorisce, ne rafforza il più forte (per la succitata legge del saggio medio di profitto), evita le loro crisi, prolunga il sistema, indebolisce il movimento rivoluzionario, favorisce la formazione del monopolio e quindi dell'imperialismo, favorisce la concentrazione mondiale nel paese più forte, in definitiva incrementa l'imperialismo.

Ed ecco la contraddizione, spiegata con il concetto dell'imperialismo unitario: l'URSS per costruire il socialismo rafforza l'imperialismo.

Dice M. Dobb nella sua opera "Economia politica e capitalismo": "L'investimento e la produzione al fine di elevare il tenore di vita all'interno costituirebbe certamente, in una economia socialista, un'alternativa alla conquista coloniale. Per una economia motivata da scopi sociali, l'investimento estero può anzi apparire un ostacolo piuttosto che un aiuto, in quanto distrae risorse di capitale dall'urgente lavoro di sviluppo in patria. Ma ne deriverà soltanto confusione se si trasferirà questa analogia ad una economia capitalistica, che di fatto è motivata non da scopi sociali, ma dal profitto di una limitata sezione della società." Conclude poi citando Lenin: "Fino a che il capitalismo rimane capitalismo, il capitale in eccesso non sarà usato allo scopo di elevare il tenore di vita delle masse, poiché ciò significherebbe una diminuzione nei profitti per i capitalisti; sarà usato invece per accrescere i profitti, attraverso l'esportazione di capitale verso i paesi arretrati."

Con la stessa definizione del Dobb, possiamo giudicare la recente esportazione sovietica di capitali come una manifestazione confessa della sua natura capitalistica e non socialista. Sempre con la stessa definizione potremmo dire che tale esportazione è più "un ostacolo che un aiuto"; ma ciò sarebbe vero se l'URSS fosse socialista. Dato che non lo è, possiamo dire, in linea generale, che attualmente l'esportazione dei capitali è "più un aiuto che un ostacolo" per la formazione delle basi materiali del socialismo? La questione è controversa. Potremmo dire che è un "ostacolo" se accettassimo la tesi di coloro che vedono solo il carattere "parassitario" dell'imperialismo russo, senza vederne l'aspetto dell'esportazione di merci e capitali. L'esiguità delle esportazioni, però, potrebbe dimostrare che non si è ancora raggiunto lo stadio "parassitario". Con la definizione del Dobb e, principalmente, di Lenin possiamo dire che: a) lo sviluppo del capitalismo statale russo è giunto al punto contraddittorio per cui è necessaria l'esportazione; b) esso non può sviluppare, senza negare se stesso, l'agricoltura e il tenore di vita e quindi esporta le sue contraddizioni; c) se fosse capace di annullare queste sue contraddizioni non esporterebbe capitale e si dimostrerebbe "regime di transizione" verso il socialismo, secondo la teoria trotskista; d) il capitale in eccesso, come l'esportazione di capitale, "non sarà usato allo scopo di elevare il tenore di vita delle masse", anche se apparentemente i benefici del sovrapprofitto russo potrebbero sembrare favorire alcuni strati operai privilegiati; e) si aggiunga a ciò l'enorme pressione egemonica ideologico-politica, che la fase imperialista può esercitare sulle masse ai fini di svirilizzarne l'energia e il potenziale di lotta di classe.

La concorrenza per i mercati
Il volume totale degli scambi Est-Ovest oscilla sui 5 miliardi di dollari annui e tende, per il 1960, a giungere sui 10 miliardi (cioè il 5% del volume totale del commercio mondiale). Dal 1945 al 1956 esso è passato da 3,4 a 5,2 miliardi di dollari. In particolare, dal 1951 al 1955, registriamo questo aumento nel commercio con l'Est: la Germania Occidentale passa da 103 milioni di dollari di esportazioni e 131 milioni di importazioni rispettivamente a 148 e 173, la Gran Bretagna da 119 a 164 per l'export e da 287 a 329 per l'import, il Giappone infine da 5,8 a 39 e da 23,1 a 89.

Germania e Gran Bretagna sono in lotta di concorrenza per i mercati. La partecipazione tedesca agli scambi mondiali di prodotti industriali è passata, dal 1948 al 1955, dal 13 al 15%, mentre quella inglese è diminuita dal 21 al 20%. Nel 1953 la Gran Bretagna esportava per 7,2 miliardi di dollari e la Germania per 4,4. Nel 1955 il distacco era diminuito: 8,1 miliardi di dollari la prima e 6,1 miliardi di dollari la seconda.

Di fronte a queste cifre, inquadrate in un commercio mondiale sui 200 miliardi di dollari annui, risaltano altri due elementi stabili: 1) sono ancora gli Stati Uniti a monopolizzare il mercato; 2) l'esiguità del commercio sovietico, anche se aggiunto all'attività di investimento (calcolato da noi sui 5 miliardi di dollari), dimostra che l'URSS è ben lungi dal fare una temibile concorrenza agli USA. In pratica il problema della capacità concorrenziale non risiede nel volume della produzione, neppure di quella pro capite (l'URSS è seconda nella produzione assoluta ma ottava nella produzione pro capite), ma nei costi di produzione, cioè nella più alta produttività. In definitiva cioè nel saggio e nel volume di profitto. Lo sforzo del Sesto Piano Quinquennale è appunto teso a ravvicinare effettivamente l'URSS agli USA su questo terreno. Se questo obiettivo verrà raggiunto, allora effettivamente l'URSS avrà enormi capitali a disposizione.

Stanislav Gustavovic Strumilin (vedi "Il Contemporaneo" del 12 ottobre 1957), nella sua relazione all'Accademia delle Scienze di Mosca del 15-20 ottobre 1956, dice che l'URSS è arretrata in confronto agli USA. "Nel settore della lavorazione dei metalli, le macchine più moderne, automatiche e semiautomatiche, rappresentavano nel 1955 il 33,4% del parco macchine sovietico, mentre negli Stati Uniti già nel 1953 esse rappresentavano il 44,2%. Nelle centrali elettriche si avevano in URSS, nel 1955, 9 operai ogni 1.000 kWh di potenza installata, contro 3 degli Stati Uniti. Gli investimenti destinati all'automazione in settori fondamentali quali le industrie chimiche e del petrolio e la metallurgia non superavano il 3-4%, mentre negli Stati Uniti raggiungevano il 15-25%."

Secondo S. G. Strumilin nell'URSS si è giunti alla fine della prima fase della meccanizzazione ma non ancora alla meccanizzazione totale. Traccia quindi le prospettive di sviluppo, nel quadro del Sesto Piano Quinquennale, per cui l'introduzione dell'automazione libererà 2 milioni di operai soltanto nei settori tecnologici fondamentali e circa 350-400 mila impiegati negli uffici. Verrebbe inoltre liberato il 70-80% degli operai dei settori di scarico e trasporto (cioè parecchi milioni grosso modo) e un altro milione, sui 4 milioni di operai del settore alimentazione e dell'industria leggera, subirebbe la stessa sorte.

Allo stato attuale delle cose, comunque, l'espansione del commercio sovietico è ancora troppo lenta e non regge il ritmo con gli altri paesi concorrenti.

Analizzando le esportazioni mondiali del 1955 vediamo che, al totale di 92,5 miliardi di dollari, gli USA e il Canada hanno contribuito per 20 miliardi, l'URSS, la Cina e i paesi satelliti per 9,5 miliardi, l'OECE (17 paesi) per 33 miliardi e l'area della sterlina per 12 miliardi.

Dei 9,5 miliardi esportati dall'URSS, dalla Cina e dai paesi satelliti, 7,5 rientrano nella propria area, mentre il rimanente, 1,2 miliardi, va nell'area OECE e solo 260 milioni nell'area della sterlina.

Vi è perciò pochissima espansione imperialistica, cioè l'imperialismo russo è esercitato soprattutto sui suoi satelliti. Il grosso del commercio russo favorisce i paesi capitalistici europei.

La situazione mediorientale intanto ha assunto forme originali data la nuova politica di penetrazione sovietica. Al centro della questione mediorientale vi è attualmente la Siria. Infatti, a seguito della fornitura di armi a quest'ultima, l'URSS le ha concesso un prestito a lungo termine di 130 milioni di sterline all'interesse del 2,5%.

È significativo che l'URSS non abbia accordato alla Polonia un prestito dello stesso ammontare e che essa si sia rivolta agli Stati Uniti. La dura presa di posizione americana (vedi il discorso di Dulles in cui si ammonisce la Russia contro ogni atto di aggressione) ha spinto Kruscev a consigliare alla Polonia di non accettare gli aiuti economici americani. Il governo americano però, dopo lunghe esitazioni, "è pronto ora a concedere ai polacchi aiuti economici fino a 100-125 milioni di dollari, sui 300 richiesti" ("La Stampa" del 23 aprile 1957). Ciò in base alla proposta Dulles di costituire un fondo di 750 milioni di dollari per concedere crediti a lunga scadenza ai paesi richiedenti. Il discorso di Dulles, cui prima accennavamo, contiene però alcuni punti interessanti. Infatti egli ha dichiarato che gli Stati Uniti cercano di ottenere "la liberazione delle nazioni in cattività, senza tuttavia incitarle ad una violenta rivolta". Viene esclusa perentoriamente ogni azione nei paesi satelliti e si dice ancora che gli USA mirano solo a servirsi "di quelle misure che possano incoraggiare la evoluzione verso la libertà".

Le due direttrici dell'imperialismo russo
Anche quest'anno l'analisi della società sovietica e delle sue tendenze imperialistiche, da noi intrapresa attraverso le nostre Conferenze, ha trovato ulteriori dati di conferma. Come sempre abbiamo rivolto la nostra analisi in due direzioni: all'interno del paese, alla ricerca dell'individuazione delle classi sociali e dei loro rapporti e all'esterno, alla ricerca dei fenomeni che contraddistinguono l'imperialismo.

Per noi la definizione di imperialismo si basa rigorosamente sulla teoria di Lenin e perciò per imperialismo definiamo principalmente quei fenomeni economici da lui indicati: in primo luogo l'esportazione di capitali e la conquista dei mercati. Secondo questa teoria, più che mai valida, l'URSS è una potenza imperialista. Non lo poteva essere ieri, quando non aveva sviluppato il capitalismo di Stato; oggi però con la formulazione della "competizione pacifica" abbiamo una conferma. Dietro questa parola infatti c'è l'esigenza di esportare capitali e di partecipare alla conquista e alla ripartizione dei mercati. Questa tendenza la verifichiamo particolarmente in Asia e in secondo luogo nel Medio Oriente. In linea generale riteniamo che l'esportazione di capitali sovietici sia molto limitata, data l'impossibilità materiale dell'economia sovietica a produrre una forte eccedenza di capitali. Gli investimenti, tramite prestiti al 2%, possono essere valutati grosso modo in 6 miliardi di dollari. Gli accordi e i prestiti a paesi arretrati sono meno di quanto si crede. Infatti la maggior parte degli accordi commerciali e dei prestiti sono stati conclusi con paesi avanzati. Ad esempio, il più grosso prestito che si conosca fatto ai paesi arretrati, esclusi naturalmente quelli alla Germania Orientale e alla Polonia, è quello fatto nel 1954 alla Cina per 520 milioni di rubli. Prestiti di uguale grandezza sono stati fatti alla Corea e all'Indocina.

In sostanza l'esportazione di capitali sovietici, come tutta la politica economica tendente alla conquista del mercato, va considerata più come una politica economica per il realizzo del plusvalore per l'accumulazione (secondo la nota teoria dell' "accumulazione" della Luxemburg) che come un prodotto dell'eccedenza di capitali.

In ogni modo l'imperialismo economico sovietico si è svolto in due direzioni: nell'egemonia sull'area costituita dai propri paesi satelliti e verso i paesi arretrati.

Per quanto riguarda la prima direttrice bisogna distinguere vari gradi di subordinazione, sino alle formali condizioni di parità con la Cina. Dato poi che l'imperialismo è più un fenomeno economico che politico, dobbiamo, prescindendo da ogni fattore di subordinazione politica, distinguere nel blocco orientale le zone industrializzate da quelle non industrializzate. L'imperialismo sovietico quindi ha caratteri ben diversi a seconda che esso operi in Cina, in Cecoslovacchia o in Bulgaria ad esempio. L'egemonia sulla propria area viene esercitata in vari modi: con riparazioni di guerra, scambi forzosi, monopolio del commercio estero, società miste, pagamenti forzosi, forme queste che mano a mano vanno sparendo, dati i contrasti inevitabili che provocano (vedi il fenomeno titoista riabilitato), per dar luogo ad altre forme quali i prestiti con interesse e il vantaggio nello scambio basato, oltre che sulla disparità dei prezzi, sulla ineguaglianza produttivistica e quindi sull'ineguale ripartizione del profitto derivato dallo scambio.

Una forma particolare è la formazione di un blocco unico produttivo con branche monoindustriali nazionali. In questo quadro rientrano gli accordi con la Germania Orientale del luglio 1956 i quali prevedono: la riduzione delle spese di occupazione da 1.600 a 800 milioni di marchi, prestiti di valuta per acquisti tedeschi sul mercato mondiale, fornitura di macchinari sovietici per il Piano Quinquennale e prestiti per acquisti sul mercato sovietico. Si cerca in questo modo di avvantaggiare la RDT nel gravissimo squilibrio economico che questa ha con Bonn. In pratica abbiamo un modesto investimento di capitale che vorrebbe, ma non può, controbilanciare quello fortissimo americano nella Germania Occidentale.

Nei paesi arretrati lo sfruttamento imperialistico sovietico opera attraverso lo scambio, grazie all'ineguaglianza produttivistica, e i prestiti con interesse.

I cosiddetti "aiuti" che parzialmente si sono verificati nella prima o nella seconda area, sono equivalenti, nella sostanza ma non nella quantità, a quelli fatti dagli USA. Come quelli, oltre che da motivi politici, sono originati dal proposito di costruire condizioni di mercato. A prescindere dalla documentazione statistica del fenomeno, facilmente se non proprio completamente ottenibile, si possono già tracciare alcune conclusioni.

In generale, nell'arca satellite l'URSS è ancora costretta ad usare vecchi metodi colonialisti o semicolonialisti e non è in grado di fare una politica economica tipo USA. Malgrado la penetrazione nell'area arretrata, la capacità dell'URSS è molto limitata, come è dimostrato dal volume totale degli scambi e dei prestiti e dai casi India e Cina, ed ha più uno sfondo propagandistico che una effettiva incidenza economica. Per ora quindi, e per parecchio tempo ancora, il divario con la capacità statunitense è e sarà molto grande e giocherà tutto a beneficio di quest'ultima.

Concludendo la nostra relazione sul corso mondiale dell'imperialismo si può, quindi, dire che l'imperialismo USA si troverà ad essere ancora avvantaggiato nel prossimo avvenire e che non può temere la concorrenza di quello russo.

(Relazione al I Convegno Nazionale della Sinistra Comunista,
Livorno, 3-4 novembre 1957, inedito)

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Ultima modifica 10.09.2001