Edizioni Lotta Comunista, luglio 1981
Trascritto per internet da Dario Romeo, settembre 2001
Capitolo quinto
LA DESTALINIZZAZIONE, 1956-1961
Nota introduttiva
Cronologia
Il corso dell'imperialismo nel 1955-56
La destalinizzazione: nuovo passo dell'imperialismo unitario e della socialdemocrazia
La struttura economica sovietica e i problemi della rivoluzione e dello Stato
Polonia: la spinta delle masse operaie a Poznan
Ungheria: primo bilancio della rivolta
Il rapporto Gomulka: atto d'accusa contro l'imperialismo russo
Nuovi sviluppi della politica imperialistica alla fine del 1956
Gli insegnamenti della rivolta ungherese (a proposito delle tesi di "Socialisme ou Barbarie")
La fisionomia della nuova classe dominante e la mediazione delle forze sociali in URSS
Sul capitalismo di Stato in URSS (a proposito di una tesi di B. Rizzi)
Trotsky sulla Russia
Il XXII Congresso del PCUS e le esitazioni del PCI nel processo di destalinizzazione
Il corso dell'imperialismo nel 1955-56
La lotta imperialistica per i mercati
L'imperialismo russo
Rapporti con i paesi sottosviluppati
La conquista del mercato asiatico
La nuova area economica del blocco orientale
Poznan o le ripercussioni nel blocco
Suez: esempio massimo delle contraddizioni imperialiste
Nel corso di un anno sono avvenuti molti fatti nuovi che fanno del 1956 un anno di punta, importantissimo ai fini dell'analisi sull'imperialismo. Ciò è una dimostrazione di quanto rapida sia la dinamica sociale, economica e politica e di come le nostre prospettive siano basate saldamente sulla realtà in movimento. Abbiamo davanti quattro grossi fatti che compendiano tutta la situazione: XX Congresso, destalinizzazione, Poznan e Suez. Analizzando questi in particolare, senza troppo soffermarci su altri settori, troveremo le cause, i legami e le contraddizioni dell'imperialismo unitario. Ognuno di questi fatti è un nodo dello sviluppo imperialistico e nello stesso tempo una sua manifestazione di crisi. Sezionando questi fatti potremo cogliere gli aspetti di tutta la situazione, individuare chiaramente le tendenze generali di sviluppo, formulare meglio la nostra strategia, confrontare e collaudare la nostra tattica. Prima di analizzare in particolare i quattro fatti indicati, vogliamo soffermarci su alcuni problemi d'ordine teorico generale che si pongono alla nostra teoria e alla nostra politica di partito rivoluzionario.
Quando parliamo di crisi imperialistica dobbiamo sempre tener presente che in essa sussistono tre aspetti: quello di crisi cronica, di crisi parziale e di crisi generale. Nella situazione attuale troviamo solo elementi composti e intricati delle prime due forme. A questa constatazione corrisponde la nostra conoscenza teorica, ma alcuni aspetti vanno maggiormente elaborati per offrire un orientamento scientifico alla lotta rivoluzionaria. Dobbiamo studiare più a fondo teoricamente le tendenze di sviluppo dell'imperialismo, in particolare il problema del capitalismo di Stato come fase di sviluppo del capitalismo. Abbiamo una copiosa documentazione a proposito. Dobbiamo lottare con più vigore teorico contro tutte le mistificazioni pseudoteoriche che danno caratteri arbitrari alla vera natura dello sviluppo capitalistico statale. In particolar modo dobbiamo lottare contro chi definisce questo sviluppo una marcia verso il socialismo. Affrontando concretamente questi temi diamo una maggiore concretezza al concetto di "crisi imperialistica."
La lotta imperialistica per i mercati
Di fronte a questo progetto occidentale, l'URSS ha creato un Istituto comune nucleare con le Democrazie Popolari e la Cina, cioè ha fatto il suo Euratom e, nel luglio 1956, ha rivolto una proposta agli occidentali per la creazione di un Ente Mondiale Nucleare. Altro che competizione pacifica! Questa è integrazione pacifica per la ripartizione dei mercati e del resto non pochi scrittori a servizio dell'URSS affermano che la competizione pacifica salva i paesi capitalisti dalla crisi. Non è senza significato che, in questa competizione, per la prima volta dal 1947, gli USA esportino in URSS 1,5 milioni di tonnellate di lamiere per la produzione automobilistica e che anche gli USA siano stati invitati alla creazione dell'Ente Nucleare. Nello stesso tempo l'URSS propone pure una vasta cooperazione economica agli USA e ai paesi occidentali, allo scopo di fornire aiuti alle nazioni sottosviluppate. Anche se alquanto astratta, non è poi troppo improbabile l'ipotesi sostenuta dai giornalisti MacColl e Sydney Smith. Grosso modo essi prospettano questa proiezione futura dell'assetto imperialista: la Cina tra vent'anni avrà un miliardo di abitanti, un'avanzata industrializzazione basata sull'energia atomica e sarà quindi un colosso industriale.
Stati Uniti e URSS si alleeranno e avremo un nuovo equilibrio dei due blocchi. Ciò sarà anche dovuto al fatto che la Cina dispone di una nuova classe dirigente, abile e intelligente, che vuole una pace sicura per i prossimi vent'anni. L'URSS controbilancerebbe la potenza della Cina appoggiando il neutralismo di Nehru e, tramite la coesistenza pacifica, guarderebbe "con speranza verso l'amicizia con l'America come a qualche cosa con cui controbilanciare le forze asiatiche che si risvegliano." Appare poi oggi con maggiore evidenza un'altra caratteristica delle leggi di sviluppo capitalistico, caratteristica che viene a definire più chiaramente la tendenza dell'imperialismo unitario. In un libro dell'economista borghese Angelopoulus si riconosce che l'evoluzione tecnica non può procedere "senza mezzi considerevoli, mezzi che in un tempo futuro è prevedibile che neppure le grandi imprese private saranno in grado di fornire, ma solo lo Stato." Egli porta l'esempio della prima centrale per la bomba H che costò allo Stato 1,3 miliardi di dollari, per essere poi subito superata tecnicamente. Quale impresa privata avrebbe potuto sopportare un tale onere? Da qui la necessità della pianificazione, del capitalismo di Stato, e l'autore si domanda poi se l'atomo un giorno unirà il mondo.
Avremo occasione di verificare se questo problema dell'energia atomica ha delle prospettive fondate, se ha la possibilità, non di unire il mondo in una specie di "superimperialismo", ma di giocare un ruolo preponderante negli antagonismi interimperialisti che la tendenza del capitalismo di Stato accentua con la diffusione del modo di produzione capitalistico.
Ritorniamo adesso ai fondamenti economici della distensione, rilevandone gli ulteriori sviluppi.
Accordi URSS con alcuni paesi europei: con la Norvegia, nel 1956, per 140 milioni di rubli (35 milioni di dollari); con la Finlandia, nel 1954, un prestito decennale di 40 milioni di rubli; con l'Austria, un prestito decennale, rimborsabile con merci, di 800 milioni di scellini (tutti "aiuti" a paesi che non sono né socialisti né arretrati); con la Jugoslavia, un prestito, stipulato il 3 febbraio 1956, di 30 milioni di dollari, redimibile in 10 anni al tasso del 2% annuale, più credito in merci per 54 milioni di dollari rimborsabili in 10 anni allo stesso tasso di interesse. Considerato che l'URSS aveva già offerto alla Jugoslavia un prestito di 194 milioni di dollari per l'acquisto di merci e di 35 milioni di dollari per lo sviluppo industriale, il totale dell'"aiuto" alla Jugoslavia è di 313 milioni di dollari, corrispondenti a circa 1.200 milioni di rubli o a 200 miliardi di lire; in più va considerato l'accordo per la fornitura di un reattore atomico.
È poi in atto da parte dell'URSS una consistente ripresa degli scambi con Svezia, Danimarca, Grecia, Gran Bretagna, Francia, Italia, Canada, USA e Germania Occidentale. Quest'ultima ha addirittura raddoppiato in un anno l'interscambio col blocco orientale e ciò mentre il Partito Comunista Tedesco viene messo fuorilegge.
Dopo il XX Congresso i russi auspicano "la creazione di sindacati unici e l'unità d'azione in ogni branca corporativa su scala nazionale e internazionale... perché i sindacati costituiscono la base decisiva per una mutua comprensione" (articolo di B. Ponornariov in "Voprosi Ekonomiki", giugno 1956).
Come primo risultato di questa linea, oltre al viaggio di Mollet a Mosca e l'incontro di Bulganin e Kruscev con il Partito Laburista, abbiamo in luglio la fusione tra PC Austriaco e Partito Socialista di sinistra. Significativa è la lettera del CC del PCUS al Congresso Socialdemocratico tedesco, dove si riconosce a questo partito la funzione di "guida del proletariato tedesco." Nel frattempo a Karlsruhe si prepara lo scioglimento del PC tedesco.
Rapporti con i paesi sottosviluppati
Con Ceylon l'URSS è interessata all'acquisto di gomma. All'Indonesia offre assistenza tecnica petrolifera e assistenza all'industria saccarifera in cambio di gomma e stagno.
All'Afghanistan concede un prestito di 100 milioni di dollari, redimibile in 30 anni al tasso annuo del 2%, più un altro credito di 100 milioni di dollari per forniture di attrezzature industriali nei settori dell'elettricità e dei trasporti.
All'Iran fornisce attrezzature industriali, allo Yemen assistenza tecnica e finanziaria per il petrolio e per la costruzione del porto moderno a Hodeida. La Repubblica Democratica Tedesca vi costruisce tre fabbriche.
All'Egitto offre aiuti per l'industrializzazione, con scambio di 500 mila tonnellate di petrolio per 60 mila tonnellate di cotone egiziano. Il governo sovietico ha avanzato l'offerta di un forte prestito per la diga di Assuan al tasso del 2% contro il 4% praticato dagli USA. È stato inoltre impiantato un laboratorio per l'energia atomica.
In Africa vengono fatte offerte alla Libia, alla Liberia e al Sudan.
In Asia offerte vengono fatte anche al Pakistan per assistenza atomica e forniture industriali. In America Latina, l'Argentina ha il 13% del commercio estero con l'area "socialista": gli scambi ascendono a 150 milioni di dollari, ricevendo attrezzature in cambio di pellami; è stata fondata la società mista Mocbuz-Argentina per la vendita di auto russe.
L'Uruguay riceve attrezzature in cambio di lana. Il volume degli scambi è stato di 70 milioni di dollari nel 1953, di 150 milioni nel 1954 e di 450 milioni nel 1955 (in due anni è aumentato di quasi sette volte, però va tenuto presente che gli USA hanno un volume di scambi di 3 miliardi di dollari con l'America Latina).
Alla Gran Bretagna, durante il viaggio del tandem Bulganin-Kruscev (aprile 1956), è stato proposto un aumento degli scambi con ordinazioni russe, il 50% delle quali è costituito da navi, sino a 1 miliardo di sterline (pari a 2,5 miliardi di dollari). Evidentemente una sparata!
Con la Jugoslavia, oltre ai prestiti citati, il 3 agosto 1956 è stato firmato un accordo per un credito sovietico a lungo termine di 700 milioni di rubli per lo sviluppo dell'industria dell'alluminio, con la cointeressenza della Germania Orientale. Un prestito sovietico è andato anche alla Polonia (accordo del 27 settembre 1956) del valore di 100 milioni di rubli (25 milioni di dollari), rimborsabile nel 1957 con prodotti industriali.
Questi aspetti dell'espansionismo sovietico vanno messi in relazione alla riapparizione della Germania e del Giappone come paesi esportatori. La Germania ad esempio, per l'eccesso dell'esportazione sull'importazione, ha accumulato troppa valuta estera. Schacht propone così di adoperare i dollari accumulati per impianti industriali all'estero, per finanziamenti industriali e piani di ricostruzione di altri paesi, Italia compresa, in modo da avere sbocchi sicuri per l'esportazione tedesca di fronte alla concorrenza americana che potrebbe essere minacciosa.
Da parte sua il blocco orientale, dal 1954 al 1955, ha aumentato del 35% l'esportazione di prodotti manufatti, principalmente verso le zone arretrate. Il Rapporto del GATT dice che i paesi della zona sovietica sono "meglio piazzati che i paesi industriali dell'Occidente per rifornire beni di equipaggiamento" perché hanno una forte integrazione tecnica tra loro. Però, come l'esportazione sovietica di capitali è molto inferiore a quella americana, così anche il commercio estero sovietico è minimo a confronto di quello USA in particolare e di quello mondiale in generale. Infatti l'URSS, con un volume complessivo di scambi per 25 miliardi di rubli pari a 6,25 miliardi di dollari, rappresenta appena il 3,3% del volume mondiale di scambio che è di 200 miliardi di dollari ed è appena al sesto posto, dopo gli USA (che negli ultimi cinque anni, esattamente come l'URSS, hanno raddoppiato gli scambi), Gran Bretagna, Germania Occidentale, Francia e Canada. Considerato che prima della guerra l'URSS era al 16° posto in graduatoria, ciò dimostra che chi ha vinto economicamente il conflitto sono i due colossi americano e russo, che hanno raddoppiato il commercio, mentre gli altri paesi l'hanno aumentato solo del 60% e alla lunga saranno largamente superati nel ritmo d'incremento. In ogni modo l'URSS esercita l'imperialismo nella sua zona d'influenza: con le Democrazie Popolari e la Cina ha l'80% del commercio estero, cioè 19 miliardi di rubli sui 25 complessivi e un ammontare di prestiti per 5,25 miliardi di dollari all'interesse del 2%, rimborsabili in 10-15 anni. Inoltre l'URSS partecipa al commercio estero cinese per il 56%.
La tattica del nuovo corso sviluppata dall'URSS si dimostra molto elastica. A ulteriore conferma che gli antagonismi della lotta imperialista si svolgono principalmente nei settori coloniali, questa tattica va dalla demagogia anglofoba fatta in India da Kruscev e Bulganin a quella opposta, filo occidentale, fatta dagli stessi a Londra a consolazione di un imperialismo coloniale in sfacelo, o si rivela spregiudicata come nel viaggio fatto in giugno da Scepilov in Grecia con relative offerte di aiuto economico. Non solo si fanno visite onorifiche a paesi che hanno massacrato migliaia di proletari e si ricevono a Mosca, in pompa magna, lo Scià di Persia e consorte, i massacratori di Fatemi, ma anche su Cipro si prende una posizione ambigua, come del resto è stata presa sull'Algeria. La posizione sovietica, e dei partiti ad essa legati, sulle lotte coloniali non solo è ambigua ma somiglia stranamente a quella nordamericana: un generico riconoscimento dei sacrosanti diritti dei popoli coloniali ma poi, in pratica, la mancanza di un appoggio concreto come è dimostrato dal voto del PCF a Mofiet o dal riservato appoggio del PCI al Ministro degli Esteri italiano Martino.
Tocca a noi rivoluzionari assolvere coraggiosamente questa funzione, spiegando bene tutte le ragioni di un movimento anticolonialista da sviluppare nell'ambito metropolitano.
L'URSS, per non distinguersi dal "neocolonialismo" occidentale, alla Conferenza di Ginevra dell'OIT (8 giugno 1956) ha ripreso e riproposto il piano capitalista di Faure e Pineau per l'"aiuto" ai paesi sottosviluppati.
La conquista del mercato asiatico
L'Asia è un grande mercato che fa gola ai grandi gruppi che ne partono alla conquista. Possiamo dire che è proprio grazie all'Asia se l'imperialismo non ha prodotto la crisi generale e se non la produrrà per un certo periodo. Tra una ventina d'anni l'Asia sarà industrializzata e allora storicamente il capitalismo avrà finito la sua ascesa.
Però si può avere la crisi molto prima. Basta tener conto di alcuni dati che riguardano l'India e la Cina, le quali parallelamente stanno sviluppando il loro capitalismo di Stato, uno sviluppo che oggi richiede un forte scambio ma che domani le renderà industrialmente autosufficiente. Su queste necessità dei due grandi paesi asiatici si lanciano tutti i paesi capitalistici. La Cina riceve materiale, soggetto ad embargo che in pratica però è violato, di provenienza inglese, tedesca, francese, italiana e americana. Eden, per l'esportazione della gomma malese e per la pressione degli industriali, ha chiesto a Washington, nel febbraio 1956, la riduzione dell'embargo. Eisenhower ha ammesso che anche la General Motors premeva in questo senso, preoccupata di arrivare ultima in un mercato che, secondo "L'Espresso" del 17 giugno 1956, "sarà senza dubbio il più importante del mondo." La stessa fonte, riferendo che la Cina desidera ampliare gli scambi occidentali, prevede che nel futuro le importazioni cinesi, attualmente provenienti per l'80% dal blocco orientale, si pareggeranno sul 50% da parte occidentale. Del resto il capo delegazione italiano, Dino Gentili, nel maggio scorso ha fatto una importante intervista al "Giorno" in cui si dice: 1) che in Cina vi sono molte macchine nuove di provenienza USA; 2) che la Cina in dieci anni ha bisogno di 1,5 milioni di trattori e li acquisterà ai prezzi migliori; 3) che dunque gli italiani devono farsi sotto. Valletta, della FIAT, con il suo neogiolittismo, dimostra di averlo capito.
I trattori fanno gola a tutti. Il "Daily Worker" ci informa che la Ferguson (la prima fabbrica in Europa dove si è verificato uno sciopero contro l'automazione) ha ricevuto un'ordinazione di prova di 100 trattori. Chi pagherà i sovrapprofitti imperialistici se non gli operai cinesi?
Il 16 giugno 1956 il governo cinese ha aumentato del 14% i salari di 18,5 milioni di lavoratori. I lavoratori delle fabbriche miste hanno avuto la promessa di un aumento anche per loro entro l'anno, ma di fatto la classe operaia paga l'importazione di capitali. Nella prospettiva una cosa è certa: malgrado i contrasti che sorgeranno per delimitare la rispettiva influenza in Asia tra URSS e Cina, quest'ultima si avvia a diventare il "terzo grande." Di ciò anche gli USA hanno coscienza. "Mondo Economico" (1 settembre 1956) ha ripreso dal "New York Times" alcune notizie e giudizi sui piani economici cinesi a lunga scadenza. Abbiamo così la conferma che lo sviluppo economico asiatico, da noi calcolato in venti anni, aggraverà definitivamente la crisi dell'imperialismo unitario: "I giovani cinesi sono convinti che la Cina può divenire la più grande potenza industriale del mondo, già nel corso della loro generazione."
Tra 30-35 anni i cinesi saranno un miliardo. Entro il 1970 si prevede una produzione di acciaio di 36 milioni di tonnellate e il completamento della industrializzazione in 25 anni. Il primo Piano Quinquennale ammonta a 30 miliardi di yuan (13.366 milioni di dollari), di cui 7 miliardi vanno allo sviluppo economico e 3,5 miliardi allo sviluppo industriale. Nell'agricoltura 108 milioni di famiglie, cioè il 90%, è nelle cooperative. L'industria privata è quasi eliminata, però i capitalisti privati hanno, per decreto, un dividendo fisso del 5% sui redditi. Così ce ne sono alcuni che guadagnano, in questo modo, 700 mila dollari annui. Si dice che i capitalisti privati sono abbastanza soddisfatti e certamente si tratta di un esempio pratico di capitalismo di Stato raggiunto pacificamente! Tuttavia, malgrado che l'incidenza dell'industria privata sia passata dal 25% del 1954 all'attuale 0,4%, Ciu En-lai al recente Congresso Nazionale (vedi "l'Unità" del 2 luglio 1956) ha prospettato un "libero mercato nel quadro dell'economia pianificata", dove "all'infuori dei generi di consumo essenziali, che dovrebbero continuare ad essere commerciati in modo centralizzato dallo Stato, gli organismi commerciali potrebbero acquistare liberamente e direttamente dalla fabbrica i prodotti considerati adatti al mercato e le fabbriche potrebbero fornire le merci a credito e su commissioni agli organismi commerciali su una base di concorrenza." Come si vede siamo al capitalismo di Stato di tipo occidentale, altro che socialismo!
"l'Unità" è tutta compiaciuta di questo tipo di "socialismo" che avanza in Asia. Da una corrispondenza di F. Calamandrei (13 settembre 1956) dalla Cina orientale si apprende che a Lanchow si sta costruendo una grossa raffineria; per il 1958 essa avrà una capacità iniziale di 1 milione di tonnellate annue di petrolio grezzo che, con impianti sovietici modernissimi, renderanno 800 mila tonnellate di raffinati. Le maestranze si stanno formando con l'incentivo e guadagnano 120 yuan al mese (40 mila lire), mentre a Shanghai ne guadagnano meno. Sarà una fabbrica automatizzata con 6 mila dispositivi per catena di raffinazione, e 3.700 operai assolveranno i compiti di 10 mila. Si tratta di uno dei 211 grandi progetti del Terzo Piano Quinquennale per la cui costruzione "la Cina ha l'aiuto finanziario e tecnico dell'Unione Sovietica."
Che poi l'URSS, con questi aiuti, costruisca capitalismo è dimostrato da una precedente corrispondenza ("l'Unità", 22 agosto 1956) in cui lo stesso Calamandrei intervista un capitalista di Tientsin. Questo personaggio, sino a sei mesi fa, era proprietario di varie fabbriche che ora amministra per conto dello Stato e, invece di percepire un profitto, percepisce adesso un interesse fisso. Personalmente è soddisfatto della nuova soluzione e con questo spiega il motivo per cui ritiene che il capitalismo sia superato. A sua volta ciò spinge il corrispondente de "l'Unità" a dire che la trasformazione socialista è una via pacifica, che lo stesso XX Congresso del PCUS ha dimostrato "al movimento comunista di tutti i paesi l'erroneità del principio sull'inevitabile acuirsi della lotta di classe nel passaggio al socialismo." Conclusione: la direzione Li Li San e Wang Ming del periodo 1926-36 commise questo errore isolando la classe operaia. Mao Tse-tung, invece, dopo il 1936 lo capì e fece l'alleanza con la borghesia. Eppure in un articolo su "Rinascita" (n. 2, 1956) V. Ceprakov sostiene che in alcuni paesi dell'Asia sudorientale vige una forma di capitalismo di Stato che si differenzia dal "capitalismo monopolistico di Stato" in questo senso: in Occidente è l'espressione del capitalismo maturo, mentre in Oriente è l'unica forma di formazione capitalistica. Per cui è costretto a sostenere la tesi che l'intervento dello Stato non cambia la natura del capitalismo, anzi ne aumenta le contraddizioni. Come si vede l'opportunismo, affrontando i "problemi del capitalismo contemporaneo", si trova in contraddizione in quanto riflette gli interessi del proprio capitalismo nazionale.
Abbiamo visto quindi che con la teorizzazione che "una parte del mondo marcia verso il socialismo" e con il riconoscimento, in contrasto con la teoria di Stalin, del terzo blocco neutralista "né capitalista né socialista", l'URSS si prepara alla ripartizione (ma non alla conquista) del mercato asiatico.
La penetrazione russa in India però è minima e il mercato è tuttora aperto a chi lo sa conquistare. Le importazioni indiane provengono per il 25% dalla Gran Bretagna e per l'8% dalla Germania occidentale. Gli USA, dal 1950, hanno prestato 500 milioni di dollari, l'URSS invece ha fornito macchine e aerei per soli 2 milioni di dollari (vedi "il Giorno" del 25 agosto 1956). La Gran Bretagna e gli USA complessivamente vi hanno investito circa 800 milioni di dollari (l'80% dei quali inglesi). L'URSS, più che capitali, è disposta a fornire assistenza tecnica.
Per il Piano Quinquennale l'India ha bisogno di 1,5 miliardi di dollari e la Banca Mondiale, che ne ha già investito 200 milioni, ammonisce il nazionalismo indiano ricordandogli che "l'India non può fare a meno di tecnici stranieri né di capitali e dirigenti privati."
Il "neorevisionismo" teorico e politico, che il XX Congresso ha elevato a linea ufficiale del PCUS ma che l'imperialismo sovietico ha praticato già dal 1955, scaturisce sostanzialmente da tre fattori: 1) lotta di classe in URSS, 2) sviluppo economico come fase necessaria della competizione pacifica e 3) spinta economica per la conquista dei mercati. Degli ultimi due ci siamo già occupati quando abbiamo analizzato le tendenze e la pratica dell'imperialismo russo, il primo è l'ennesima conferma del fatto che, sotto il capitalismo, la lotta di classe è insopprimibile. Essa assume svariatissime forme, in URSS in particolare essa acquista la forma di resistenza alle "norme." La lotta contro le "norme", da Berlino a Poznan, è la lotta caratteristica del proletariato sotto il capitalismo statale. Già Lenin, in una mozione approvata dal Congresso del PCb del 1922, puntualizzava con estrema lucidità il fatto che, nell'ambito del capitalismo di Stato, la condizione operaia sempre comporta un contrasto di interessi. Diceva Lenin: "Quando, come avviene nell'Unione Sovietica, le aziende statali lavorano su base commerciale, vengono inevitabilmente a crearsi dei contrasti tra gli interessi della massa dei lavoratori e quelli dei dirigenti o degli uffici da cui dipendono le aziende statali."
Che vi sia la base commerciale ancora oggi e che il contrasto persista, come ha denunciato Mikoyan al XX Congresso, è la prova della validità di questa tesi e la conferma che la natura sociale dell'URSS è, come allora, quella di capitalismo statale. Se facessimo uno spoglio accurato dei discorsi e dei giornali sia di parte sovietica che dei paesi satelliti, troveremmo una impressionante documentazione, non esplicita s'intende, su questo problema.
Oltre al problema dei salari (nell'inchiesta di Luciano Barca su "l'Unità" si legge che incontrarono in URSS un trattorista che disse loro che salarialmente si stava meglio nel 1930), delle pensioni e degli alloggi, vi è quello del lavoro. Il 13 luglio 1956 viene pubblicato a Mosca un rapporto sul bacino carbonifero del Don: in una miniera, in un mese, di fronte a 134 unità assunte se ne sono andate 156; in un'altra, durante il 1955, su 977 nuovi minatori se ne sono andati 900. Vengono promessi, ma in realtà non mantenuti, salari di 3.000-5.000 rubli, i dormitori sono ancora tipo 1913 e perciò il minatore tende ad andarsene, dato che a volte deve lavorare più di 8 ore per raggiungere la norma.
Ammissioni di questo genere sono contenute nel discorso di Bulganin nel dibattito sulle pensioni al Soviet Supremo del 14 luglio 1956.
Altri oratori avevano denunciato (vedi "l'Unità" del 14 luglio 1956) "l'incuria di molte officine per le condizioni igieniche sul lavoro", "il ritardo del compimento del Piano nel bacino del Donez."
In questo Soviet Supremo viene approvata la legge sulle pensioni che "interessa milioni di lavoratori": alcune pensioni vengono raddoppiate, altre triplicate, ma si viene a sapere che vi erano pensioni di 150 rubli e alcune "erano rimaste ferme alle cifre del 1930" ("l'Unità" del 12 luglio 1956). L'onere per lo Stato è di 13 miliardi di rubli all'anno; le pensioni altissime e privilegiate di alcuni funzionari vengono ridotte e viene fissato un massimo di 1.200 rubli, mentre quelle basse vengono aumentate fissando un limite minimo di 300 rubli.
Accanto a questi provvedimenti che, mano a mano che i sovrapprofitti imperialistici lo permetteranno, saranno sempre più estesi sino a raggiungere quello che è ora lo standard americano, vi è stata la liberalizzazione del codice del lavoro, vero e proprio regolamento oppressivo, retaggio dell'epoca, oggi superata, dell'edificazione del capitalismo statale, edificazione che comportava la compressione violenta della forza lavoro e della lotta di classe.
Un decreto del Consiglio dei Ministri del 10 settembre porta i minimi salariali a 350 rubli e per la prima volta viene fissato per legge il principio del "minimo salariale." Prima infatti il salario era basato unicamente sulla "norma." Il minimo salariale si aggirava di fatto sui 300 rubli in città e i 270 in campagna. Del decreto sul minimo beneficeranno ben 8 milioni di lavoratori (tra operai e impiegati), circa il 16% del totale che, per il 1956, è valutato in 49 milioni. Ciò costerà allo Stato 8 miliardi in più (1.000 rubli annui per 8 milioni di persone).
Se consideriamo i prezzi attuali dei prodotti che costituiscono l'alimentazione fondamentale di un russo, ci rendiamo subito conto che per i lavoratori a 300 rubli mensili il costo della vita è altissimo, mentre per la maggior parte degli altri, a 800 rubli mensili, esso è medio. Il prezzo del pane va da 1 a 2,50 rubli il chilogrammo, quello delle patate da 2,50 a 3,50, quello della carne di maiale da 16 a 17; un paio di scarpe dell'ultima qualità costa 150 rubli, un vestito 600 rubli, l'affitto di una camera 10 rubli mensili. Bisogna tener conto però che funzionano molte mense a 2, 3 rubli al pasto e che l'abitazione, nella stragrande maggioranza dei casi, è costituita da una semplice camera.
La nuova area economica del blocco orientale
A nuova economia quindi, nuova politica.
Ma cosa c'è di nuovo nella struttura economica o, per meglio dire, che forme nuove assume questa struttura? Se possiamo fare paragoni in termini di capitalismo occidentale, si potrebbe dire che assistiamo ad una fase di passaggio da una specie di Piano Marshall ad una specie di gigantesca CECA. Sino ad ieri l'URSS aveva seguito, nei confronti dei paesi satelliti, una politica di sfruttamento economico ai fini di potenziare la sua industrializzazione. Anche l'industrializzazione delle Democrazie Popolari, comportante uno sfruttamento intensissimo delle masse lavoratrici, era fatta in modo da aiutare lo sviluppo industriale sovietico. L'imperialismo sovietico si esercitava in una specie di colonialismo e a tale scopo cercava di integrare la produzione dei paesi satelliti alle necessità di un proprio sviluppo produttivo. In questo senso la politica economica sovietica aveva già determinato una specie di divisione in branche produttive, ma gli effetti di tale politica tendevano soprattutto a colmare le lacune della struttura sovietica con un'opera di spoliazione e di sfruttamento dei paesi sottomessi. In questa tendenza generale la suddivisione verticale delle branche produttive era ancora limitata.
Con l'evoluzione dell'economia sovietica aiutata dallo sfruttamento delle economie dei paesi sottomessi (sfruttamento esercitato in mille modi: dalle compagnie miste alla monopolizzazione del commercio estero, dalle correnti di esportazione e di importazione praticate sulla base dei prezzi sovietici al rifornimento diretto dei beni strumentali e all'accaparramento delle materie prime), anche i rapporti economici tra l'URSS e le Democrazie Popolari si sono modificati. Sulla scia di questa modifica si modificheranno anche i rapporti politici nelle forme che oggi vengono chiamate "vie nazionali del socialismo."
L'economia sovietica è entrata nella fase imperialista dell'esportazione di capitali e della conquista dei mercati dei paesi sottosviluppati. Sorge quindi la necessità non di creare delle economie supplementari che aiutino lo sviluppo della centrale imperialista, ma di organizzare un'area produttiva che costituisca una grande potenza economica per l'esportazione dei capitali e la conquista dei mercati coloniali e semicoloniali. Perciò le Democrazie Popolari devono diventare quest'area.
Vi è da considerare un fattore importante e cioè che l'URSS inizia appena adesso questa fase di espansionismo economico e, quindi, non ha capitali sufficienti a reggere la concorrenza con gli Stati Uniti. Capitali supplementari possono essere aggiunti solo da uno sviluppo capitalistico dei paesi sottomessi, sviluppo che ovviamente deve essere organizzato su nuove basi che lo garantiscano. In altre parole, le Democrazie Popolari debbono raggiungere il livello di capitalizzazione dell'URSS ed integrarsi a tale livello in una economia unica. Le "vie nazionali" non sono quindi opera della destalinizzazione, né rappresentano una concessione di libertà, sono invece l'espressione di nuove necessità economiche.
Questa situazione del resto è stata determinata dalle contraddizioni dell'imperialismo. Nel dopoguerra l'URSS incrementò la produzione industriale nei paesi satelliti, costringendoli a subordinare la produzione di beni di consumo con tutte le conseguenze che ne sono derivate per il tenore di vita dei lavoratori, perché questa produzione era necessaria ad accelerare il suo sviluppo. Se non avesse fatto così, se avesse applicato i metodi del colonialismo tradizionale, l'URSS sarebbe rimasta indietro di almeno cinque anni e le Democrazie Popolari sarebbero ancora rimaste, in buona parte, ad uno stadio più arretrato. Ovviamente l'URSS, capitalismo giovane in ascesa, non poteva applicare i metodi propri del capitalismo maturo. Di conseguenza ha permesso la formazione di strutture che oggi possono ancora integrarsi ma che domani, saturato il mercato, tenderanno a scindersi. Lo stesso capiterà in Asia con la Cina o l'India.
Le leggi dell'economia capitalista però, sia essa privata o statale, non agiscono per il futuro ma unicamente nel movimento economico del presente.
Poznan o le ripercussioni nel blocco
In Polonia, dopo la prima fase repressiva, il Partito Comunista cerca di ripiegare su una soluzione che tenga conto della frattura verificatasi così violentemente tra la classe operaia e la classe dominante. La nuova politica perseguita conferma a posteriori l'analisi da noi enunciata sul carattere eminentemente classista della rivolta di Poznan e condanna ancora una volta chi, come Togliatti, volle qualificare tale rivolta come una macchinazione di alcuni agenti provocatori.
Nel rapporto presentato il 18 luglio al CC, il segretario del Partito Operaio Polacco Edwar Ochab ha dichiarato tra l'altro: "già molto tempo prima degli avvenimenti di Poznan, il Comitato Centrale si era occupato delle misure da adottare per migliorare il basso livello di vita della classe lavoratrice, ma i miglioramenti sono risultati insufficienti... La Polonia vive male e ciò dipende dalla situazione generale della nostra economia, dalle difficoltà della situazione internazionale e dai numerosi problemi collegati alla ricostruzione di un paese depresso e distrutto dalla guerra. Il governo non ha fatto ancora tutto il possibile per venire in aiuto dei lavoratori, e la massa, che sperava in un miglioramento attraverso l'applicazione del Piano Sessennale, ha invece veduto che in pratica nulla è cambiato." Le prospettive per la classe operaia non sono perciò molto allegre.
Lo stesso Ochab infatti, parlando il 2 settembre 1956, ha detto che il programma del Piano Quinquennale prevede un aumento per la produzione industriale del 50%, per l'agricoltura del 25% e per i salari reali degli operai e dei contadini del 30%: "... l'aumento del 30% del tenore di vita nel corso del quinquennio iniziato il 1° gennaio di quest'anno è il massimo economicamente prevedibile... È impossibile aumentare le condizioni di vita dei lavoratori senza aumentare il rendimento del lavoro, senza rafforzare la disciplina cosciente degli operai e dei cittadini."
Prima, continua Ochab, vi era una doppia verità sui Piani che procurava un distacco con le masse: "la media dei salari è oggi di 1.100-1.200 zloty, una cifra indubbiamente bassa in confronto al costo della vita..."
Alcuni hanno chiesto un aumento immediato dei salari, ma, dice Ochab, ciò sarebbe un inganno agli operai perché porterebbe l'inflazione.
La destalinizzazione economica però va avanti. Oskar Lange, della Commissione Piano, prevede nel suo Piano che gli addetti delle imprese private saliranno nel 1960 da 130 a 500 mila unità (cioè il 18% della popolazione non agricola) e il numero massimo degli addetti a imprese private, ora fissato a 4 unità, sarà accresciuto. Come misura immediata il governo lascia riaprire negozi ad artigiani e bottegai.
In Ungheria una delle ultime risoluzioni del CC del Partito dei Lavoratori Ungheresi ha riabilitato 474 persone, tra le quali figurano Gyergi Pallfy, coimputato di Rajk, e Arpad Szakasits, socialdemocratico ex Presidente della Repubblica. Insieme alla clamorosa riabilitazione di Rajk, questo provvedimento viene a confermare come si stia cercando di cancellare gli effetti di una passata lotta di resistenza all'egemonia economica. Nella prima fase della dominazione sovietica, tesa a spogliare economicamente i paesi satelliti, si era sviluppata una corrente di opposizione alla pressione russa, corrente che dopo il caso Tito fu denominata "titoismo." Ad essa facevano capo parecchi esponenti dei partiti al potere ed ha avuto un seguito non indifferente che possiamo valutare solo oggi con i numerosi provvedimenti di riabilitazione.
In una corrispondenza su "l'Unità" del 4 settembre 1956, Orfeo Evangelista parla del circolo Petofi. Il XX, Congresso del PCUS, egli scrive, ha risvegliato la necessità della democrazia socialista. "Nacque allora tra i membri del partito uno stato di insoddisfazione e da esso il travaglio di questi ultimi mesi (che si espresse anche nei dibattiti al circolo Petofí), la coraggiosa denuncia degli errori commessi, lo sfogo stesso, talvolta eccessivo e appassionato." Si discutevano problemi che non era stato possibile discutere con Rakosi; venne anche organizzato dai giovani comunisti un incontro coi perseguitati cui partecipò la vedova di Rajk.
"La discussione fu molto vivace ed in certi momenti addirittura drammatica, arroventata..." Vi si inserirono anche elementi reazionari, precisa il corrispondente de "l'Unità" e continua dicendo che, ora che è ritornata la democrazia nel partito, anche le insufficienze che hanno determinato l'attività del circolo Petofí sono state riparate. Perciò se esso ieri era necessario, oggi è superfluo. Quest'ultima precisazione è evidentemente un omaggio alla prima decantata necessità della democrazia socialista!
Anche qui però la destalinizzazione economica fa i suoi progressi. Una risoluzione del CC del Partito dei Lavoratori (vedi "l'Unità" del 24 luglio 1956) annuncia misure per favorire l'uso delle macchine da parte dei piccoli proprietari e l'accentramento economico e amministrativo "mediante l'accrescimento delle responsabilità e dell'autonomia dei dirigenti, da quelli ministeriali fino ai direttori d'azienda."
Suez: esempio massimo delle contraddizioni imperialiste
via di seguito. Poi si calmano. Mollet intanto ha già preparato le truppe e Pineau, il distensivo caro ai vari PC e all'URSS, tuona fuoco.
La "Frankfò rter Allgemeine Zeitung", organo della grande industria tedesca, protesta invece contro l'invio di truppe francesi a Cipro e così le contraddizioni dell'imperialismo fanno sì che i "nazisti" di Bonn, che hanno enormi investimenti nel Medio Oriente, siano più "progressisti" dei socialisti di Parigi. Pineau da parte sua teme di non essere poi tanto appoggiato da Eden, che non ha il problema algerino, mentre gli USA tendono sempre a fare i mediatori e Nasser, fallita la mediazione dei Cinque, chiede indirettamente la mediazione americana dato che l'URSS, presa da interessi distensivi tra europei e arabi, frena gli egiziani.
Il "Giorno" del 31 agosto 1956 dice che Nasser sa quanto impopolare sarebbe l'intervento di forza inglese e francese senza l'appoggio americano. Esso minaccerebbe i loro interessi nel Medio Oriente e rafforzerebbe "la posizione economica del loro più forte concorrente, la Germania Federale." Sempre sul "Giorno", in un editoriale del 18 settembre 1956, si consiglia al governo italiano di non aderire alla Associazione Utenti del canale di Suez e si sottolinea il fatto che gli USA stanno manovrando per non regalare la loro attività anticolonialista in Medio Oriente all'URSS. Gli arabi infatti non sono filosovietici ma accettano appoggio da qualunque parte arrivi.
Alla Conferenza di Londra, che si è chiusa il 21 agosto, 17 Stati accettano il Piano Dulles, cioè una soluzione di compromesso. È chiaro così che gli USA hanno fatto sentire il loro peso economico.
L'Italia, col Ministro degli Esteri Martino, porta avanti una linea moderatrice (Martino dice di aver invitato Dulles a finanziare la diga di Assuan) che è sostanzialmente appoggiata da Riccardo Lombardi e da Paietta. Anche il Vaticano, che smentisce di avere azioni nel canale, propugna una soluzione di compromesso.
In pratica però Dulles ha preso in mano tutta la questione. Tiene a bada Francia e Gran Bretagna, per impedire un atto di forza che comprometterebbe tutto, promettendo 500 milioni di dollari per aiuti ai trasporti e l'acquisto di petrolio dal Venezuela. L'URSS manovra anch'essa senza appoggiare appieno Nasser e senza attaccare in pieno Eden, Mollet e Pineau. Il fatto è che, come dice la "Stampa" del 18 settembre 1956, le sanzioni economiche all'Egitto sarebbero pagate anche dagli occidentali con l'aumento dei prezzi e conseguenti lotte sociali. Chi vince perciò sono ancora una volta gli USA.
La questione della diga di Assuan non è che un'altra conferma di questo fatto. Gli USA che avevano già visto come l'URSS cercasse di penetrare nel Medio Oriente, in Asia e in America Latina, hanno accettato la sfida sull'Egitto: ritirandosi hanno lasciato Nasser libero di rivolgersi all'URSS. Scepdov però ha risposto, in luglio, che l'Egitto doveva cercare l'industrializzazione prima che la diga di Assuan. In sostanza quindi l'URSS non ha finanziato e gli USA, che avevano calcolato la mossa, si sono rafforzati. Infatti, ai primi di ottobre, proprio mentre la polemica anglo-francese-statunitense è al colmo (a base di "colonialista" e "razzista") e la Gran Bretagna cerca di fare lo sgambetto agli americani proponendo un mercato comune ad Adenauer (la Francia da parte sua, negli stessi giorni, si accorda sulla Saar e sui trust comuni per l'armamento), Nasser propone ai grossi trust petroliferi americani la manutenzione del canale di Suez. Il "Times" ed altri giornali inglesi e francesi rivelano che gli USA stanno giocando un'altra operazione "Abadan", cercano cioè di spodestare Gran Bretagna e Francia nel Medio Oriente per impiantare, come hanno fatto nell'Iran, nuove compagnie petrolifere a maggioranza azionaria statunitense.
Questo gioco si può dire sia iniziato sulla complessa questione del finanziamento della diga di Assuan, al momento in cui USA e Gran Bretagna non vollero più finanziare perché, come riconosce la rivista italiana "L'Osservatore" del settembre 1956 "... gli occidentali erano stati informati che la Russia non era in grado di sostituire le grosse offerte ritirate dall'Occidente. Il rublo non è ancora in grado di affrontare, fuori confine, quelle imprese, per quanto colossali, che invece può affrontare il dollaro."
La "Pravda" del 29 luglio 1956 aveva scritto: "Il governo dell'URSS è disposto a studiare con simpatia le richieste concrete dell'Egitto per un'assistenza nella sua opera di industrializzazione e di sviluppo della sua economia rurale."
Le ragioni vere del perché questo finanziamento non sia avvenuto non è ancora dato sapere. Può darsi che l'URSS non disponesse dei capitali come pure che non si fidasse della politica di Nasser.
Vi è comunque un altro fatto da prendere in considerazione: nel 1955 URSS e Cecoslovacchia hanno acquistato circa il 21% del cotone egiziano, ma quest'anno il loro acquisto è stato molto esiguo dato che l'URSS ha allargato parecchio la sua coltivazione di cotone e lino. Ciò indubbiamente rappresenta un indebolimento economico per l'Egitto in quanto il cotone rappresenta l'85% dell'export egiziano.
L'Egitto non è sviluppato, ha solo qualche industria tessile e alimentare ma con poche grandi aziende. Le piccole imprese artigianali, predominanti, occupano qualche operaio e il capitale straniero ha un ruolo considerevole anche nel finanziamento della monocoltura, cioè del cotone.
Nonostante ciò, però, dal 1954 al 1955 il reddito nazionale è aumentato del 16%, l'estrazione di minerali del 17%, la produzione di gasolio del 29%, quella petrolifera del 14% e la produzione di profilati di acciaio del 16%. Questi modesti passi avanti hanno affrettato l'iniziativa politica della borghesia nazionale che ha bisogno dell'industrializzazione per rafforzarsi. Di qui il progetto di Assuan, che costerà 1,7 miliardi di dollari e richiederà 16 anni. Alta 100 metri sul letto del fiume, la diga avrà il più grande bacino artificiale del mondo e allargherà, lungo 600 km, il corso del Nilo sino a penetrare per 200 km nel Sudan. Produrrebbe 10 miliardi di kWh all'anno, servirebbe tutto l'Egitto di energia e irrigherebbe 600 mila ettari di zone sterili, un sesto dell'attuale arca coltivata. L'Egitto aveva chiesto l'aiuto della Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo e un gruppo franco-anglo-tedesco aveva assicurato l'appoggio. L'Egitto avrebbe investito 900 milioni di dollari, e gli altri 800 sarebbero stati prestati dalla BIRS e dai governi USA e inglese. La BIRS doveva anticipare la prima rata di 200 milioni ma non lo ha fatto.
Con la nazionalizzazione l'Egitto potrebbe avere i profitti del canale (96 milioni di dollari nel 1955) che sarebbero però sempre insufficienti. Il corso mondiale dell'imperialismo, mentre si prospetta l'industrializzazione dell'Asia nei prossimi decenni, trova ora nell'Europa Orientale, con le misure economiche che determinano la destalinizzazione politica, e nell'Egitto due punti importanti e dinamici.
(Relazione alla VI Conferenza Nazionale dei GAAP
Milano, 13-15 ottobre 1956; inedito)
La destalinizzazione: nuovo passo dell'imperialismo
unitario e della socialdemocrazia
(a proposito dell'intervista di P. Togliatti a "Nuovi Argomenti")
"Il problema principale che gli avvenimenti attuali pongono a tutto il proletariato ed a tutti i sinceri rivoluzionari, che sono dentro e fuori del Partito Comunista Italiano, è quello di sapere dare un'interpretazione rigorosa dei movimenti economici, sociali e politici che agitano la società sovietica. Solo non fermandoci allo Stalin ed all'anti-Stalin saremo in grado di conoscere quali sono i veri termini della nuova svolta sovietica. Solo ricercando tutti i caratteri che contraddistinguono la natura sociale dell'Unione Sovietica e le sue spinte imperialistiche sapremo porre la polemica attuale su un piano reale e concreto. Questo gravoso compito, Togliatti non lo assolverà mai."
Così scrivevamo nell'editoriale dell'"Impulso" del marzo scorso, prima che Kruscev facesse conoscere al mondo ed a tutti i comunisti le sue rivelazioni su Stalin tramite l'enorme apparato pubblicitario del Dipartimento di Stato americano. Togliatti, infatti, ha risposto, spinto dallo sbandamento che il rapporto segreto ha provocato, con l'intervista a "Nuovi Argomenti" e con la relazione al Comitato Centrale, ma il compito da noi indicato non lo ha assolto. Si è impegnato, come sempre e con tutte le risorse che le sue capacità intellettuali gli permettono, ad assumere il ruolo di difensore dell'imperialismo sovietico. Non poteva fare altrimenti, poiché analizzare conseguentemente, alla luce del materialismo storico, il caso Stalin denunciato dal documento di Kruscev significa penetrare nella struttura economica che tale caso ha prodotto, significa legare saldamente la figura di Stalin alle caratteristiche dell'economia sovietica, significa scoprire il nesso interdipendente fra i movimenti della politica staliniana, con tutti gli aspetti aberranti che ne derivano, e le leggi obiettive del movimento economico. Togliatti non può fare e non farà mai questo, anche se a parole adopera tutti i sofismi per far passare come un alto prodotto dell'applicazione marxista la sua analisi, mentre, in pratica, dà un chiaro esempio di mistificazione idealista, di antimarxismo appunto. Tra le svolte dell'analisi togliattiana, però, questa nostra considerazione iniziale prende corpo, si dimostra da sé.
Sarebbe per noi facile soffermarci sugli aspetti marginali del caso Stalin per trovare una conferma a quanto abbiamo sopra denunciato, per elencare tutta una serie di argomenti validissimi, di fronte agli stalinisti di ieri, per ritorcere le accuse che i burocrati ci scagliavano addosso quando noi, attenendoci esclusivamente ai fatti, dicevamo quello che loro ammettono oggi. Eppure bastava un minimo di spirito critico per sapere, da anni, tutto quello che Kruscev rivela nel suo rapporto segreto: una infinità di testimonianze, dirette ed indirette, fra cui quella validissima di Trotsky, potevano servire allo scopo. Il fatto che gli stalinisti non giungessero neppure a questo minimo di conoscenza, ma anzi rifiutassero e stroncassero, con i metodi più infami, ogni via che a tale conoscenza conducesse, dimostra chiaramente quale grado di degenerazione politica fosse alla base del fenomeno stalinista. Il fatto più grave di questa degenerazione non è il culto della personalità in sé, ma le conseguenze che ne sono derivate e che ormai sono congenite al fenomeno, cioè la paralisi ideologica in seno al movimento operaio che progressivamente è diventata involucro di una sostanziale involuzione, l'impossibilità di avanzare in una analisi obiettiva, senza che fossero simultaneamente lanciate accuse ed epiteti ("fascista", "reazionario", "pagato dal nemico"); la subordinazione, quindi, delle istanze ideologiche e politiche della classe operaia ad un corpo teorico e politico ad essa estraneo.
Tutto il movimento operaio, e pure le minoranze rivoluzionarie che ne sono parte integrante, ha risentito e risente della influenza nefasta che, da trent'anni, esercita il fenomeno stalinista. Appunto perché questo è un fenomeno, e non solo una personalità, il problema, con tutta la sua influenza, esiste tuttora, anche se gli aspetti caduchi sono stati sfrondati dal rapporto Kruscev. Il fenomeno persiste perché dallo "Stalin" si è passati all'"anti-Stalin." Il modo in cui si è svolto questo sviluppo politico, che ha visto la classe dirigente, che aveva creato il mito Stalin, abbatterlo violentemente e nei termini più paradossali, è già una dimostrazione di come le cause obiettive che avevano prodotto il fenomeno stalinista siano ancora le forze motrici del sommovimento verificatosi alla superficie della politica sovietica e dei partiti da questa espressi.
Anche per questa ragione, non ci fermiamo a facilissime recriminazioni ma proseguiamo, come abbiamo sempre fatto, nel nostro ruolo di partito rivoluzionario, nella analisi e nella critica obiettiva di un sistema sociale che ha prodotto Stalin, Kruscev e Togliatti, ed oggi detta loro le requisitorie e le difese della più grande mistificazione che la storia delle lotte di classe ricordi.
"Lo stalinismo è quel regime che forza la industrializzazione in un paese agricolo e primitivo. La causa dello stalinismo non è quindi da attribuirsi alle particolari qualità di un uomo o ad incidenti militari, come una guerra vittoriosa, o a montature propagandistiche che possono far popolarissimo un uomo che non lo merita. La causa dello stalinismo è economica e va ricercata fra le necessità delle masse e gli interessi delle classi." Abbiamo voluto citare questo giudizio del giornalista borghese Walter Lippman per far risaltare quanto più ispirata ai criteri del materialismo storico sia l'opinione di un difensore dell'imperialismo americano che quella di un presunto maestro del marxismo quale si picca di essere l'on. Togliatti. Fra le decine di colonne dell'analisi di Togliatti, in mezzo a tutti i sofismi e le tortuosità, non troveremo un concetto che, seppur approssimativamente, si riferisca alla base economica dello stalinismo. Lippman, portavoce di un capitalismo maturo e potente, si concede il lusso di essere spregiudicato. Togliatti, invece, ha ancora qualcosa da difendere e da nascondere. Il grado di sviluppo del capitalismo di Stato, che lui difende e propugna, non gli permette ancora la spregiudicatezza e lo costringe a destreggiarsi in un limbo di idee che la realtà viene mano a mano spezzando con la sua formidabile presenza.
La stessa impostazione data da Kruscev alla demolizione del mito di Stalin ha sollevato una infinità di quesiti tanto determinati storicamente che più Kruscev, Togliatti o Nenni cercano di risolverli, più si presentano irrisolvibili sul piano della spiegazione formale. La grande forza di questi quesiti non è data dal disorientamento che li ha provocati, o dalla voce singola o collettiva che li reclama fermamente, ma dal legame stretto che hanno con la realtà. Esprimono, appunto, una realtà, fino ad ieri nascosta dalla propaganda, e per rispondere ad essi bisogna penetrare a fondo la realtà, spiegarla tutta intera, farne l'anatomia.
"Le radici del culto della personalità", "come è potuto sorgere il culto della personalità", in generale; "cosa fecero gli attuali dirigenti nei confronti del culto della personalità", "perché non abbatterono il mito di Stalin", in particolare: ecco alcune delle forme con cui i problemi di fondo si presentano alla mente ed alla superficie di un movimento operaio da anni ormai impreparato ad alimentare una problematica di fondo, una problematica economico-sociale.
A più riprese Togliatti e Kruscev cercano di spiegare come il culto di Stalin fu derivato dal corso della lotta, dai successi stessi della lotta, che concentrava in un'unica volontà simbolica individuale la volontà collettiva di tutto il popolo sovietico. I termini cronologici di questo processo, quasi a significare la serietà della tesi, variano di documento in documento, e sono destinati, date le esigenze politiche contingenti dello Stato sovietico, a variare per molto tempo ancora. Comunque, per Kruscev ad un determinato momento sorse il culto della personalità che provocò molti danni ma che non intaccò lo sviluppo economico e politico del sistema sovietico; anzi, il sistema si rafforzò ulteriormente, sì da esprimere un "nucleo dirigente di leninisti", che demolirono il mito di Stalin a pochi anni dalla sua morte. Questi "leninisti" non potevano abbattere prima Stalin, non perché mancassero di coraggio, ma perché il popolo, che dovrebbe essere la base di un sistema che si è sempre mantenuto sano rafforzandosi, li avrebbe considerati come nemici.
Togliatti, che non ha voluto essere così grossolano, ha azzardato una tesi che riprende, in forma maldestra e disonesta, la critica di Trotsky: "la meno arbitraria delle generalizzazioni è quella che vede negli errori di Stalin il progressivo sovrapporsi di un potere personale alle istanze collettive di origine e natura democratica e, come conseguenza di questo, l'accumularsi di fenomeni di burocratizzazione, di violazione della legalità, di stagnazione ed anche, parzialmente, di degenerazione in differenti punti dell'organismo sociale."
Forse è per questo suo avanzare una tesi che aveva sempre condannata come reazionaria e fascista quando Trotsky l'aveva enunciata nel suo libro "La rivoluzione tradita", che Togliatti ha incontrato il rifiuto polemico di Kruscev. Senza tanti preamboli, questi gli ha risposto che il sistema sovietico non ha mai subito degenerazioni. Infatti, anche per noi, di degenerazione poteva parlare ancora Lenin, quando, sulla questione del ruolo dei sindacati nel periodo della NEP, rispondeva a Trotsky: "Il compagno Trotsky parla di Stato operaio. Scusate, questa è un'astrazione. Da noi, lo Stato in realtà non è operaio, ma operaio-contadino. Non solo. Dal nostro programma di Partito, risulta evidente che il nostro Stato è uno Stato operaio con deformazioni burocratiche." Allora, mentre la rivoluzione attraversava la fase iniziale, si poteva parlare di degenerazione e Lenin, che mai si sarebbe sognato di definire socialista una società che non lo era, spregiudicatamente ne parlava. Oggi non di degenerazione si tratta, ma di evoluzione economica del capitalismo di Stato. La teoria della degenerazione sovietica era un'arma spuntata ancor prima che l'adoperasse, per la prima volta, Togliatti. Non si può applicare un termine politico ed arbitrario, dal punto di vista dell'analisi economica, nei confronti dello sviluppo economico di un sistema sociale. L'avvento del capitalismo sulla società feudale fu un progresso e non una degenerazione, anche se, nella concezione puramente idealista, Napoleone fu la degenerazione della Rivoluzione francese. Così lo sviluppo della società feudale russa verso l'economia del capitalismo di Stato è un progresso e non una degenerazione. Degenerati sono, caso mai, se proprio vogliamo adoperare questo termine, coloro che, in dispregio alla retta concezione marxista delle leggi obiettive dello sviluppo economico, vogliono far credere che l'URSS sia una società socialista e, in nome del socialismo, teorizzano su fenomeni, come il mito di Stalin, che nulla hanno a che fare con la società socialista in cui è impossibile possano prodursi, dato che sono naturali e propri del sistema capitalista.
L'interpretazione avanzata da Kruscev e Togliatti per scoprire le radici del culto della personalità dimostra, infatti, il carattere idealistico che la promuove. Tale interpretazione accumula tutta una serie di fatti politici, sovrastrutturali, "eventi" della vita politica. Si tratta, in effetti, di una interpretazione sulle "radici della sovrastruttura" che non solo non tenta la ricerca sulle "radici della struttura", ma neppure avanza dei tentativi per cercare di stabilire un rapporto fra la struttura e la sovrastruttura della società sovietica e della fase storica mondiale che ha espresso l'uomo Stalin. Altro che Marx! Nemmeno dei criteri interpretativi dello storicismo idealista borghese si tratta: è puro e semplice "manicheismo" di scolastica e medievale memoria! Anche un pallido richiamo al materialismo storico dovrebbe suggerire di partire dai rapporti fra economia e politica per studiare la figura storica di Stalin.
La concentrazione del potere politico in Russia corrispose, in un determinato momento, a una inderogabile necessità economica. Fallita la rivoluzione proletaria nei paesi industrialmente più avanzati, cioè quella rivoluzione internazionale di cui la rivoluzione russa, secondo la precisa concezione strategica leninista, non era che l'inizio, la Russia si trovò a dover fronteggiare da sola una situazione economica disastrosa. Per sopperire alle elementari necessità degli operai e dei contadini, la Russia non aveva altra soluzione che sviluppare la produzione di beni strumentali e di consumo. Siccome non poteva ritornare all'economia feudale, dovette procedere inevitabilmente verso il sistema economico superiore alla fase feudale: il capitalismo. Nacque la NEP e Lenin disse chiaro e tondo che si doveva costruire del capitalismo per non morire di fame, in attesa che altri sommovimenti rivoluzionari venissero a sciogliere la Russia dal nodo economico in cui era stretta. Nemmeno Stalin si sognava di dire, in quel momento, che si stava edificando il socialismo.
La soluzione della NEP, se aveva riportato il pane nel mercato libero, non risolveva però il problema fondamentale dello sviluppo economico. Nei paesi industrialmente arretrati, data l'enorme concentrazione di capitali necessaria nella fase moderna del progresso tecnico e dell'imperialismo, lo sviluppo economico non può più essere sostenuto dai gruppi capitalistici privati, ma deve essere necessariamente compiuto dallo Stato. Da qui l'identificazione dell'accentramento di tutti i poteri economici e politici nell'organismo statale. A questa legge economica, che corrisponde in termini marxisti al "ritmo di accumulazione e di rotazione del capitale", non poteva sottrarsi né la società sovietica né volontà d'uomo, si chiamasse questi Stalin o Trotsky o Lenin o Kruscev o Togliatti, come oggi non vi si possono sottrarre i paesi ex coloniali che iniziano il loro sviluppo industriale, si chiamino essi "Cina comunista" di Mao Tse-tungo "India democratica" di Nehru o "Egitto nazionalista" di Nasser. Proprio dallo sviluppo economico di questi paesi, che si richiamano a diverse ideologie ma che sviluppano, in perfetta analogia, la loro economia nella forma del capitalismo di Stato, possiamo avere una prova pratica di quello che è stato lo sviluppo economico sovietico. Con maggior tempo e spazio, porteremo, in sede di analisi, questa prova obiettiva.
Dato quindi lo sviluppo economico del capitalismo di Stato, che in Russia veniva a compiere quello che la impotente e stagnante economia semiprivativistica della NEP mai sarebbe stata capace di fare, ne derivava un enorme rafforzamento dell'apparato statale burocratico, tendente a comprimere le masse lavoratrici, togliendo loro ogni libertà di lotta di classe. Solo in questo modo totalitario lo Stato capitalista poteva mantenere salari bassissimi, ed estrarre il massimo di plusvalore necessario a predisporre il massimo di profitti per l'investimento. Solo in questo modo lo sviluppo della produzione industriale diventava intensissimo, quasi favoloso. Se sorpresa vi può essere deve essere rivolta a constatare ciò che il capitalismo di Stato è stato capace di fare in soli trent'anni.
Tutte quelle forze politiche e sociali che cercarono di opporsi alla marcia del capitalismo di Stato vennero inesorabilmente stritolate, non dalla malvagità di Stalin, ma dalla ferrea logica di un apparato preposto a difendere con tutti i mezzi gli interessi economici che rappresentava.
Caddero i "nepman" ed i kulaki, ultimi e miopi difensori di un superato capitalismo privato, caddero tutti quei rivoluzionari e tutti quei comunisti che, di fronte alla nuova classe dominante, consapevolmente o inconsapevolmente esprimevano gli interessi e le istanze di un proletariato sfruttato ed oppresso. Quasi l'intero Partito bolscevico, dai massimi dirigenti ai più oscuri militanti, fu sterminato. Le cifre fornite dallo stesso Kruscev sono impressionanti. Non erano gruppi o correnti che, come allude Togliatti con tono misterioso alla Edgard Wallace, potevano anche usare i metodi del terrorismo e del complotto i soli ad essere eliminati: era tutta una formazione politica del movimento operaio che scompariva nella repressione sistematica e non già perché i suoi singoli componenti avessero delle opinioni contrastanti con Stalin ed i suoi seguaci, ma perché nella sua totalità rappresentava, seppur degenerata e sfinita, una classe nemica del capitalismo.
A Togliatti, che oggi giustifica il suo plauso ufficiale ai processi di Mosca con la scusa che il PCI non conosceva tutto il retroscena e quindi aveva fiducia in Stalin, potremmo ribattere che lui tutte queste cose le conosceva meglio di Kruscev poiché, mentre questi era ancora un oscuro funzionario, il segretario del PCI era già nel Komintern a Mosca, dove rimaneva per venti anni, osannando alla linea di Stalin e rinnegando via via gli oppositori, ben noti per le loro teorie ad ogni dirigente; a Togliatti, ripetiamo, potremmo dire che la sua è una delle più sfacciate dichiarazioni di malafede. Ma non è questo che ci interessa. Togliatti, che conosce benissimo la natura sociale dell'URSS, difendeva Stalin perché difendeva il capitalismo di Stato. Difendeva e propugnava ardentemente il culto di Stalin, non perché gli fosse più o meno simpatico Stalin, ma perché Stalin, per coincidenze puramente casuali, rappresentava il fenomeno caratteristico che accompagna sempre il rafforzamento dell'apparato statale burocratico, cioè il culto del capo dello Stato, come personificazione dello Stato stesso.
Di fronte alla classe dominata e sfruttata, colui che impersona l'autorità statale è mostrato in un alone di attributi soprannaturali. Alla base del culto della personalità, cioè di una idolatria personale, sta il culto e l'idolatria dello Stato. In questo senso individuiamo le radici del culto della personalità non strettamente nella struttura, ma nel rapporto dialettico struttura-sovrastruttura. L'idolatria può essere quindi diretta verso Stalin, come verso "il Partito", "il Comitato Centrale", "la direzione collegiale", ecc. Lo sfruttamento capitalista, oltre all'esercizio della coercizione materiale, crea feticismi che, in sostanza, sono feticismi sullo Stato. Ciò avviene maggiormente nei capitalismi nuovi, mentre in quelli più maturi il feticismo sullo Stato prende il nome di "democrazia." Ma, in ambedue i casi, come ricorda Marx, all'origine di ogni feticismo vi è il feticismo della "merce", del "denaro", della "produzione", del "lavoro" stesso, cioè, in essenza, della produzione capitalista che appare non nella sua nuda realtà, ma nelle sue misteriose espressioni. L'uomo è quello che è, non quello che pensa di se stesso, dice appunto Marx. I feticismi, nella misura in cui si determinano e sono determinati, servono per impedire al proletariato di acquisire una coscienza, una conoscenza, una concezione scientifica della sua reale situazione sociale. Il feticismo, quindi anche il culto di Stalin, è lo strumento di difesa dello sfruttamento capitalista, che ha impedito al proletariato russo e di tutto il mondo la conoscenza della situazione obiettiva. Gli credi di Stalin, creando altri feticismi più adatti al grado di sviluppo dell'imperialismo sovietico, cioè "destalinizzazione", "competizione pacifica", "democrazia", "vie nuove parlamentari", "comunismo policentrico", non fanno altro che continuare la funzione organica che aveva il mito di Stalin.
Giustamente Lenin, nella prefazione alla prima edizione di "Stato e rivoluzione", capisce il ruolo controrivoluzionario del feticismo e scrive: "la lotta per liberare le masse lavoratrici dall'influenza della borghesia, in generale, della borghesia imperialistica in particolare, è impossibile senza una lotta contro i pregiudizi opportunistici a proposito dello Stato."
Come Kruscev, Togliatti e Nenni non si sognino neppur lontanamente di liberare le masse dai pregiudizi opportunistici sullo Stato, ma approfittino delle discussioni sulla "destalinizzazione" per ribadire e fomentare ulteriori pregiudizi, che in fondo vanno a vantaggio del capitalismo di Stato che essi rappresentano, è dimostrato chiaramente dal modo con cui affrontano il problema della dittatura del proletariato. È questo il fatto più grave portato dal "caso Stalin", poiché il contrabbando ideologico di Togliatti e Nenni si insinua in un disorientamento e in uno sbandamento generali, tanto più gravi quanto più vasta è l'impreparazione politica di un partito che da anni ha perso ogni connotato teorico per vivere di espedienti tattici.
È naturale che la discussione nel PCI si trovi "davanti ad una specie di sfogo indistinto" e a "fenomeni negativi di un revisionismo generico" sollevati in un clima che scende "al livello dei pettegolezzi e di recriminazioni prive di qualsiasi valore", come annota Togliatti nella sua relazione al CC (vedi "l'Unità"). Ma quello è il partito burocratico che lui ha voluto, forgiato lentamente per assolvere una determinata politica legata agli interessi dell'imperialismo sovietico. Quello non è più un partito rivoluzionario, dinamico e vivo ideologicamente, anche se in esso sono racchiuse tutte le potenzialità rivoluzionarie della classe operaia. Se fosse un partito rivoluzionario, o almeno un partito riformista tradizionale dove tuttavia può sorgere un fermento ideologico che si esprime, come nel primo dopoguerra, con il fenomeno comunista in determinate correnti rivoluzionarie, se non fosse un enorme apparato a carattere burocratico-conformista, il PCI non potrebbe tollerare un Togliatti che approfitta del basso livello ideologico per assumere la parte del dottrinario e per elaborare un nuovo revisionismo, di marca assolutamente inedita.
Possiamo capire Nenni quando scrive ("Avanti!") che "a un secolo di distanza il concetto di dittatura del proletariato è da ripensare e da riconsiderare in rapporto a una società dove l'influenza e il peso del proletariato e dei lavoratori in generale sono divenuti determinanti nella vita pubblica e dove lo Stato riflette, nei paesi democraticamente più avanzati, un rapporto di classe in continua evoluzione." Nenni continua conseguentemente la sua ideologia socialdemocratica, cioè di collaborazione di classe, che mai aveva abbandonato anche se l'aveva messa al servizio di una determinata politica staliniana. Per Togliatti il discorso è più complesso. Il partito che rappresenta sorse storicamente dalla rottura politica e ideologica con la socialdemocrazia tradizionale, rottura che aveva proprio al centro il problema della dittatura del proletariato. In secondo luogo il PCI non ha una tradizione socialdemocratica, anche se nella sua involuzione ha enucleato tutti gli aspetti deteriori della politica e della ideologia socialdemocratica; ma li ha enucleati non per maturazione interna, come può essere del riformismo tradizionale che è legato con interessi contingenti alla propria borghesia, ma per una politica funzionale nel quadro della strategia sovietica. Sino ad ieri il PCI poteva essere il partito del riformismo più sfacciato come il partito dei colpi di Stato e dei metodi acuti di lotta. Sia l'una che l'altra politica non erano, ovviamente, né riformismo né rivoluzione ma attiravano, nella critica dell'ortodossia, i sinceri riformisti ed i sinceri rivoluzionari.
Lo sviluppo economico sovietico, con la maturità e la forza che gli permette una politica imperialista di espansionismo economico, modificando il ruolo dell'URSS da Stato guida a leadership tipo USA, modifica lentamente la natura politica del PCI. Per questa ragione Togliatti trova le condizioni obiettive, con la maggiore autonomia che ne deriva, per ritornare anche ideologicamente sulle vecchie posizioni socialdemocratiche, per compiere con un abile trasformismo una trasposizione teorica culminante in un nuovo riformismo modernizzato secondo le esigenze della fase imperialista e del capitalismo di Stato.
Così come per il XX Congresso la critica a Stalin ha significato la rottura con tutto il passato rivoluzionario e proletario la cui ombra emergeva ancora qua e là in certe posizioni teoriche staliniane (vedi l'ultima opera "Problemi economici e politici del socialismo"), per Togliatti la "destalinizzazione" rappresenta l'occasione storica per depurare il PCI dalle ultime scorie del passato rivoluzionario del Congresso di Livorno, per mettere in dubbio certi concetti rivoluzionari che, malgrado tutte le deformazioni, circolano ancora nel partito, per intraprendere, infine, l'elaborazione di una teoria che, mentre si riallaccia al vecchio riformismo socialdemocratico, costituisce un ponte con tutto un periodo di esperienze ideologiche, politiche ed economiche del capitalismo di Stato. Così come la politica e l'ideologia stalinista erano l'espressione di un capitalismo di Stato che lottava disperatamente, con tutte le astuzie del riformismo e con tutti gli insegnamenti pratici del passato rivoluzionario, per affermarsi, la neosocialdemocrazia di Togliatti è l'espressione di un capitalismo di Stato consolidatosi e forte abbastanza per svolgere non più una politica di coercizione, ma una politica di dominio economico e che può fare delle concessioni anche su molti aspetti formali.
Certo, l'evoluzione di Togliatti richiederà un certo periodo di tempo, ma non potrà essere troppo lenta dato che la socialdemocrazia tradizionale (con Nenni in testa) cerca di sfruttare la situazione. D'altro canto, molte istanze rivoluzionarie di un partito di massa qual è il PCI costringono Togliatti a dire che la scelta di Livorno "rimane valida pienamente" e a non fare affermazioni precise sulla "via parlamentare", adoperando mezze misure.
Sul terreno teorico, però, l'attacco di Togliatti è più massiccio: "Ma questo non è tutto ciò che vi è nella dottrina della dittatura del proletariato. Prima Marx ed Engels e in seguito Lenin nello sviluppare questa teoria affermano che l'apparato dello Stato borghese non può servire per costruire una società socialista. Questo apparato deve essere dalla classe operaia spezzato e distrutto, sostituito dall'apparato dello Stato proletario, cioè dallo Stato diretto dalla classe operaia stessa. Questa non era la posizione originaria di Marx e Engels. Fu la posizione cui essi giunsero dopo l'esperienza della Comune di Parigi, e fu particolarmente sviluppata da Lenin. Questa posizione rimane pienamente valida, oggi? Ecco un tema di discussione. Quando noi, infatti, affermiamo che è possibile una via di avanzata verso il socialismo non solo sul terreno democratico, ma anche utilizzando le forme parlamentari, è evidente che correggiamo qualche cosa in questa posizione, tenendo conto delle trasformazioni che hanno avuto luogo e che si stanno ancora compiendo nel mondo." Togliatti riprende il concetto di Nenni e lo sviluppa trasformisticamente. Ragioniamoci sopra e vedremo che il peggiore revisionismo condannato da Lenin è quello espresso da Togliatti, il quale non solo introduce la tesi della "via parlamentare" ma falsifica pure l'essenza della teoria di Marx e di Lenin che non risiede tanto nelle forme particolari e sovrastrutturali con cui viene esercitata la dittatura del proletariato quanto sull'impostazione rivoluzionaria del cambiamento radicale della struttura capitalista. Espropriazione degli espropriatori condotta dalla violenza organizzata dal proletariato: ecco l'essenza della dittatura del proletariato nel pensiero di Marx il quale indicava come modello la Comune di Parigi.
Engels, nella lettera ad August Bebel del 18 marzo 1875, precisa ulteriormente: "Finché il proletariato ha ancora bisogno dello Stato, ne ha bisogno non nell'interesse della libertà, ma nell'interesse dello schiacciamento dei suoi avversari, e quando diventa possibile parlare di libertà, allora lo Stato come tale cessa di esistere. Noi proporremmo quindi di mettere ovunque invece della parola "Stato" la parola "Comune" una vecchia eccellente parola tedesca, che corrisponde alla parola francese "Commune"" Anche Lenin suggerisce il termine Stato-Comune, per accentuare di fronte al momento repressivo, anche nella terminologia, l'aspetto della costruzione della società nuova.
Quindi, se secondo il giudizio di Nenni e Togliatti i rapporti di forza nel contrasto di classe sono divenuti oggi più favorevoli per il proletariato, ne deriverebbe che il proletariato avrebbe meno bisogno dello Stato per lo schiacciamento dei suoi avversari e più conseguibile sarebbe l'interesse della libertà, cioè del non-Stato. La rivoluzione proletaria, di conseguenza, come fase storica di espropriazione economica, non solo sarebbe più che necessaria ma conterrebbe in sé meno bisogno dell'esercizio coercitivo (forza-Stato) e potrebbe sviluppare al massimo la libertà del consenso, dell'egemonia, dell'autogoverno. Sarebbe più "Comune" che "Stato", appunto come diceva Engels.
Invece Togliatti giunge alle conseguenze opposte. Rivede la teoria della dittatura del proletariato proprio negli aspetti meno dialettici e più meccanici, già individuati dalla Luxemburg, e da Lenin stesso elaborati affrettatamente nel fuoco di una realtà incalzante. Lenin, infatti, si proponeva di continuare "Stato e Rivoluzione", lasciato interrotto; continuazione e correzione si può ritenere la sua critica al fenomeno burocratico, la concezione che esprime nel suo discorso sull'imposta in natura, il ruolo che affida ai sindacati e agli Ispettorati operai e contadini, da lui istituti e da Stalin soppressi, certe sue considerazioni sul potere dei Soviet, cioè su di un maggiore autogoverno economico e politico dei lavoratori. Togliatti non rivede la teoria della dittatura del proletariato dal punto di vista "sovietista", cioè dal filone di autogoverno delle masse che è al centro della ricerca "ordinovista" di Gramsci, non cerca di illuminare alla luce di tutta l'esperienza una prospettiva nuova per la classe operaia, ma inforca gli occhiali della deformazione riformista-socialdemocratica.
La questione dello Stato, cioè dell'abbattimento dello Stato capitalista e dei mezzi per costruire una società senza classi e senza Stato, è fondamentale per la classe operaia nel suo salto storico. Su tale questione si sono sempre prodotte divisioni nel movimento operaio. Su tale questione, invece, deve essere raggiunta l'unità rivoluzionaria. Lo studio marxista deve indicare, appunto, in che termini si pongono i due momenti di necessità e di libertà nella fase rivoluzionaria che le condizioni attuali determineranno e dallo studio obiettivo sorgeranno, in sede teorica, le forme organizzative-politiche dell'avvento rivoluzionario.
In questi termini va posto il problema della dittatura del proletariato che non è una formula meccanica ma un concetto dialettico che si basa, nel momento di organizzarsi e di esplicarsi, sulle contingenti condizioni oggettive e soggettive.
Togliatti, che dice di non essersi dimenticato "Stato e Rivoluzione", non vuole che il problema dello Stato sia posto al movimento operaio, il solo ed unico interessato a risolverlo, col metodo dialettico e, quindi, cerca di speculare adoperando un gretto formalismo riformista. Non avrà dimenticato "Stato e Rivoluzione", ma non vuole che lo ricordano i militanti poiché nel concetto di Stato-Comune di Lenin, vi sono i presupposti della forma transitoria che distrugge lo Stato borghese e crea uno Stato-che-non-è-più-uno-Stato; presupposti che oggi andrebbero sviluppati e che erano basati sull'armamento di tutto il proletariato con l'abolizione del militarismo e sull'abolizione della burocrazia e il condizionamento dei nuovi funzionari alla revocabilità delle cariche e agli stipendi uguali agli stipendi operai. Proprio per questa concezione che non era ancora socialismo, ma periodo transitorio, antitetica a quella socialdemocratica, si formò il movimento comunista e la solidarietà di tutto il proletariato che vi trovava la sua aspirazione libertaria e egualitaria.
Ma è proprio questa concezione che Togliatti nasconde poiché farebbe vedere che la realtà sovietica è praticamente il contrario di quanto Lenin aveva posto come condizione dei primi passi verso il socialismo.
Perciò Togliatti scopre le nuove condizioni che si sono prodotte nel mondo, cioè elabora una nuova teoria che serva a deviare il movimento operaio dalla riflessione critica dei problemi di fondo per accertare, in forme più aggiornate, una controrivoluzionaria coincidenza con gli interessi della politica e della economia sovietica.
Quali sono le nuove condizioni? Togliatti parte dalla considerazione che la struttura ed i rapporti internazionali sono radicalmente cambiati. Da questa considerazione esce il nuovo corso del XX Congresso sulla "coesistenza", la "competizione pacifica", le "nuove vie pacifiche e parlamentari", non senza aver criticato l'impostazione teorica-politica di Stalin la quale non vedeva il nuovo movimento mondiale, il terzo blocco pacifista, ecc. Infatti la teoria di Stalin prevedeva la divisione di due mercati e l'attesa della crisi nel mercato mondiale. I nuovi dirigenti sovietici, invece, hanno demolito questa teoria dell'immobilismo imperialista ed elaborato la nuova teoria della "competizione" per definire la loro espansione alla conquista dei mercati asiatici. Questa è una delle novità prodotte dallo sviluppo economico sovietico e dalla sua necessità di esportare merce e capitali. L'immobilismo teorizzato da Stalin conduceva in pratica all'impossibilità di contenere le contraddizioni interne che l'economia sovietica, nella sua ascesa, produceva: una di queste contraddizioni è rappresentata dallo squilibrio tra produzione industriale e produzione agricola, denunciato già dal 1953. Partendo dalla tesi staliniana del carattere socialista dell'economia sovietica ci si potrebbe chiedere perché tutto il capitale, in merce o in prestiti, che l'URSS esporta non viene investito nel settore agricolo deficitario come produzione. Se il settore industriale producesse per l'agricoltura e se i capitali che vanno all'estero venissero impiegati, oltre che nell'industria leggera, per incrementare la produzione agricola, certamente la crisi agricola, che determina una bassa disponibilità pro capite, sarebbe risolta ed il tenore di vita delle masse si alzerebbe. Ovviamente questa considerazione non tiene conto delle leggi economiche del capitalismo. L'URSS, invece, deve tenerne conto in quanto la legge del profitto capitalistico regge la sua economia, non può agire altrimenti di come agisce.
I suoi capitali da investire o da esportare derivano dallo sfruttamento della forza lavoro, cioè sono i profitti determinati dal ciclo produttivo. Come l'economia politica marxista insegna, il saggio più alto del profitto si ottiene nell'industria dato che in questo settore la forza lavoro dà il massimo di plusvalore assoluto e relativo. Quindi è naturale che l'URSS invece che impiegare l'eccedenza di capitale nell'agricoltura, dove renderebbe poco e rallenterebbe l'accumulazione di capitali con conseguente rallentamento dell'investimento e della produzione industriale, sia costretta ad esportarlo per ricavarne un superprofitto. Data questa legge di esportazione imperialista, che cerca nell'aumento globale del profitto di contrastare la caduta tendenziale del saggio di profitto, la produzione industriale viene spinta al massimo per le esigenze derivate dall'espansione del mercato interno ed esterno.
Con i sovrapprofitti, naturalmente pagati dal proletariato e dai contadini poveri dei paesi industrialmente meno avanzati dell'URSS, il governo sovietico può sostenere, sul modello americano, una propria politica agricola (investimento per incrementare la produzione, creazione di sovcholz, sostegno di prezzi agricoli, ecc.).
Ma mentre l'immobilismo di Stalin preservava l'economia sovietica dalle ondate cicliche della crisi dei paesi industriali, l'espansionismo di Kruscev e Scepilov crea i canali economici attraverso i quali una futura crisi del mondo occidentale investirà anche la struttura russa. Forse è anche per questo che i dirigenti sovietici, e Togliatti che fa loro coro, hanno smantellato la teoria di Stalin sulla crisi occidentale ed hanno teorizzato l'evitabilità delle guerre, rinnegando la validità di una precisa tesi marxista. Le loro declamazioni somigliano alle esercitazioni dello struzzo che nasconde la testa nella sabbia. L'espansionismo sovietico creerà inevitabilmente una stretta interdipendenza economica tra i vari settori di un mercato mondiale unificato; interdipendenza valida tanto per i periodi di prosperità che per i periodi di crisi. Finché il mercato mondiale potrà assorbire la produzione dei due colossi Russia e America e degli altri piccoli e grandi che stanno loro a ruota, la lotta per i vari settori sarà appunto una competizione pacifica. Ma quando i paesi coloniali, semicoloniali o ex coloniali, quando Cina ed India ad esempio, avanzati nella industrializzazione nazionale, rifiuteranno capitali e merci perché ne avranno da esportare, allora le fondamenta di tutto l'imperialismo unitario avranno il sussulto della crisi: guerra o rivoluzione proletaria sarà il nuovo bivio storico. Se si pensa quanto rapida sia l'industrializzazione, nell'era dell'energia atomica e dell'automazione, se ne deduce che tale prospettiva non è poi troppo lontana.
Ma vi è di più. La crisi del capitalismo, specie di quello più maturo, si è verificata a volte in forma improvvisa e localizzata, appunto perché molto deboli erano i legami tra i vari paesi. Nel 1929, invece, la crisi USA si generalizzò, risparmiando alcuni paesi, tra i quali l'Unione Sovietica, chiusa nell'inizio del suo Piano Quinquennale. Un'altra crisi che partisse dagli Stati Uniti toccherebbe, questa volta, anche la Russia. Ad esempio: gli Stati Uniti esportano in molti paesi, come Cina, India od Egitto, dove pure l'Unione Sovietica esporta. Una crisi statunitense metterebbe in crisi il capitale americano impiegato in un paese dove potrebbe essere impiegato capitale sovietico che inevitabilmente ne risentirebbe, come ne risentirebbe la produzione sovietica che sul capitale investito all'estero si basa.
In definitiva, la politica di Stalin attendeva la crisi per salvarsi: quella della "competizione pacifica" dei suoi eredi, determinata da una economia che non poteva più rimanere chiusa, tende a scongiurarla ed è pronta a fronteggiarla assieme agli Stati Uniti nel tentativo del salvataggio comune. Le condizioni nuove sono, anche se Togliatti non lo dice, gli interessi comuni dell'imperialismo unitario.
(" L'Impulso " n. 6, 7, 9; 15 luglio, 25 agosto, 25 settembre 1956)
La struttura economica sovietica
e i problemi della rivoluzione e dello Stato
(a proposito di una tesi di L. Basso)
I temi emersi al XX Congresso del PCUS e la pubblicazione del rapporto segreto di Kruscev su Stalin hanno provocato anche in Italia una vasta discussione non del tutto inutile. Sotto la spinta di questa improvvisa ondata di discussioni sono apparsi alcuni scritti che forse per la loro serietà hanno avuto meno pubblicità di quanta è andata ad articoli e saggi aventi il solo merito di dimostrare quale ignoranza del marxismo si nasconde dietro i nomi di politici ed intellettuale famosi. Avremo il tempo di ritornare su questo fenomeno tipico della vita politica e culturale italiana e sulla qualità dei dibattiti in cui detto fenomeno si è espresso nel corso della "destalinizzazione." Comunque, in parecchie direzioni si sono avuti contributi importanti ai fini della definizione di alcuni dei più scottanti problemi d'ordine teorico e politico che impegnano tutto il movimento operaio internazionale. Tra questi, due dei più importanti, che riguardano la via rivoluzionaria e la via cosiddetta "democratica" del socialismo e la natura dello Stato sovietico, hanno trovato una sensibile trattazione in due saggi di Lelio Basso e di Liliano Faenza, apparsi sulla rivista "Mondo operaio" nei numeri di maggio e luglio 1956.
In "La pluralità delle vie del socialismo nel pensiero di Marx e Engels" Lelio Basso passa in rassegna le varie formulazioni che, nel corso della loro opera, furono enunciate dai fondatori del marxismo sulla strategia dell'avvento socialista. Il saggio, ricco di citazioni alcune delle quali poco note, parte dalla premessa che negli scritti di Marx "non esiste una trattazione organica sul modo e le forme del passaggio dalla società borghese alla società socialista", dato che per il marxismo le lotte politiche sono strettamente condizionate dai rapporti di classe e dallo sviluppo delle forze e dei rapporti di produzione. La pluralità delle vie enunciate nella strategia della rivoluzione proletaria non è, quindi, una contraddizione del pensiero marxista ma, come dimostra il Basso, l'espressione teorica di questo pensiero applicato a situazioni e condizioni storiche diverse. La dimostrazione di questa tesi interpretativa è costruita rigorosamente sui testi di Marx ed Engels. Da questi risalta con forza la teoria della "rivoluzione permanente", elaborata nel corso di una epoca storica che vedeva una borghesia rivoluzionaria in lotta contro le forze feudali. Trasformare la futura rivoluzione borghese in rivoluzione proletaria è, appunto, il compito strategico di un proletariato che può formarsi solo con lo sviluppo capitalistico. Appoggio strategico, quindi, alle rivoluzioni democratico-borghesi. Noi aggiungiamo che questa teoria, integrata dalla concezione leninista per cui la lotta coloniale antifeudale nell'epoca imperialista è condizionata dalla lotta proletaria e rivoluzionaria nei paesi capitalisti, rimane validissima. In effetti la rivoluzione cinese ha caratteri che richiedono l'applicazione della "rivoluzione permanente." La mancanza di direzione rivoluzionaria nei paesi imperialistici e l'influenza del capitalismo di Stato sovietico fanno sì che in Cina manchi un partito operaio che sviluppi la rivoluzione permanente e - segno della degenerazione e della mistificazione dell'ideologia staliniana - che si contrabbandi lo sviluppo capitalistico cinese come marcia verso il socialismo.
Importante è seguire come Marx ed Engels arricchirono la prima elaborazione della teoria della "rivoluzione permanente" e come alla prima formulazione del "Manifesto" abbiano aggiunto una maggiore sensibilità scientifica per quanto riguarda il movimento della struttura. In "Il 1848 in Germania e in Francia" Engels scrive già: "Una nuova rivoluzione non è possibile se non in seguito a una nuova crisi. L'una è però altrettanto sicura quanto l'altra."
Ciò può valere anche per togliere alla teoria della rivoluzione permanente quel carattere "arbitrario" che alcuni pretesero di trovare in essa. Ma soprattutto deve servire ad indicare come il pensiero marxista concepisca la rivoluzione proletaria vittoriosa solo in quei paesi dove la società capitalista ha compiuto la sua parabola, cioè dove si "siano sviluppate tutte le forze produttive che essa è sufficiente a contenere e nuovi e superiori rapporti di produzione non la sostituiscono prima che le loro condizioni materiali di esistenza siano maturate nel grembo della vecchia società" (prefazione alla "Introduzione a Per la critica dell'economia politica").
Non vi è dubbio che tale concetto costituisca un caposaldo fondamentale della strategia rivoluzionaria. Da esso deriva il problema centrale di questa strategia: il grado e le forme di sviluppo della crisi nei paesi capitalistici più avanzati. Da esso, nello stesso tempo, è esclusa ogni minima concessione alla tesi della "edificazione del socialismo." Lo studio di Marx ed Engels sulla società socialista è il risultato dei "nuovi e superiori rapporti di produzione." determinati dallo sviluppo di tutte le forze produttive che il sistema capitalista non riesce più a contenere. È una economia nuova, già formata in seno a quella vecchia, che attende, come in una brillante allegoria diceva Marx, il taglio cesareo della rivoluzione. Non può essere, quindi, una economia da "edificare", poiché questo significherebbe che sono da edificare forze produttive che lo sviluppo capitalistico non aveva ancora edificato e perciò mancano ancora determinati presupposti economici. Siccome l'economia socialista è una economia di consumo sociale contrapposta ad una economia di profitto, siccome l'economia socialista è basata sull'abbondanza e sul soddisfacimento dei bisogni collettivi ed individuali e non è un'utopistica distribuzione egualitaria fatta su di un insufficiente prodotto che materialmente impedisce il soddisfacimento collettivo e ricrea la ineguaglianza sociale, edificare il socialismo vuol dire solo preparare le basi economiche che esso non ha ancora. In definitiva, significa edificare le forze produttive comuni alla società capitalista che, dato il loro livello, esprimono i rapporti di produzione prettamente capitalistici. In breve, significa edificare il capitalismo.
A questa conclusione, anche se si avvicinano come vedremo, non vogliono giungere né il Basso né il Faenza, anche se quest'ultimo praticamente la riflette nel suo scritto. Porsi il problema di analizzare la natura dello Stato sovietico senza usare come strumento d'analisi la teoria dello sviluppo capitalistico, vuol dire perdersi nelle nebbie dell'idealismo. Nel caso specifico della rivoluzione russa le parole di Marx hanno un suono profetico: "la sola risposta possibile è questa: se la rivoluzione russa servirà di segnale a una rivoluzione operaia in occidente, in modo che entrambe si completino, allora l'odierna proprietà comune russa potrà servire da punto di partenza per una evoluzione comunista" (prefazione del 1882 alla edizione russa del "Capitale").
Il Basso commenta questo ed altri passi dicendo che "nel 1917 il capitalismo russo risultava ormai arretrato rispetto alle possibilità che la tecnica capitalistica poneva a disposizione di una direzione storicamente più matura, quale quella appunto della classe operaia..."
Ci risiamo. O in Russia il capitalismo aveva già sviluppato tutte le forze produttive e allora il proletariato poteva porsi il compito di sviluppare queste forze, ormai frenate, in una direzione sociale, o il capitalismo non aveva compiuto tutto il suo sviluppo e allora il proletariato poteva porsi il compito di accelerarlo. Evidentemente si tratta del secondo caso. La prima rivoluzione del 1917 è appunto, nella concezione leninista, una rivoluzione democratico-borghese, cioè antifeudale e capitalista. Perché abbiamo la rivoluzione d'Ottobre a carattere proletario? Perché, nella geniale concezione leninista della "rivoluzione doppia", gli obiettivi raggiunti dalla prima rivoluzione, data la particolare situazione russa, possono essere mantenuti solo dalla rivoluzione proletaria, in attesa che la rivoluzione internazionale nei paesi capitalistici più avanzati (vedi Germania) permetta lo sviluppo materiale dei fattori socialistici già predisposti politicamente. Senza l'aiuto della rivoluzione internazionale nelle economie già mature, per il socialismo non rimane altro che fare un passo indietro politicamente e un passo avanti economicamente.
Questo, nella Russia del 1921, significò la NEP e la marcia del capitalismo di Stato. Del resto lo stesso Basso riconosce che non si può assumere lo Stato sovietico a modello della dittatura del proletariato in quanto non ne ha alcun carattere essenziale. Se tale affermazione può essere un atto di difesa storica di fronte ad attacchi facili, che in definitiva tendono a snaturare il concetto stesso della dittatura del proletariato nella sua originale teorizzazione, provenienti dalle posizioni liberali o liberaloidi, ciò nonostante rimane una affermazione monca ed equivoca. Non analizzare a fondo la natura dello Stato sovietico equivale ad un tentativo di seminare nuova confusione.
Occorre, perciò, ritornare al concetto di "edificazione" per dimostrare che proprio in ciò sta la divergenza con la teoria marxista. L'aiuto dato, ad esempio, da una Germania socialista alla rivoluzione russa non sarebbe stato una variante di "edificazione", "una edificazione importata"? Anche in questo caso riteniamo che non si possa parlare di edificazione ma, piuttosto, di sviluppo delle forze produttive a carattere socialista che, rotti i rapporti di produzione capitalistici in cui erano costrette in Germania si espandono laddove, come era il caso della Russia, le condizioni politiche avevano preparato loro il terreno. Non "edificazione" su scala internazionale, quindi, ma espansione delle forze produttive socialiste espresse, o straripate, per meglio dire, dai settori capitalisti più maturi. È forse questo l'aspetto più internazionale del socialismo. Basti pensare, in via ipotetica, a cosa rappresenterebbe per tutto il mondo una rivoluzione socialista negli Stati Uniti.
Crediamo che solo dopo aver assimilato la base stessa della strategia rivoluzionaria marxista, base che poggia saldamente sull'analisi dialettica dello sviluppo economico della società, si possano affrontare le formulazioni di Marx sulle cosiddette "vie pacifiche." In nessun modo le teorizzazioni di Marx possono costituire un dogma. Né per quanto riguarda la soluzione violenta né per quanto riguarda la soluzione pacifica della strategia rivoluzionaria. Possiamo aggiungere che nemmeno alcune affermazioni di Marx che indicano chiaramente la soluzione violenta, spesso usate dal marxismo rivoluzionario e da Lenin particolarmente, possano essere sufficienti a definire la strategia rivoluzionaria. Perciò la polemica fatta a bordate di citazioni può essere un aspetto, anche importante, della lotta ideologica ma non la esaurisce. L'essenziale della strategia rivoluzionaria risiede nella concezione dialettica dello sviluppo sociale. Marx poteva prevedere che in alcuni paesi altamente capitalistici, come l'Inghilterra, la trasformazione sociale potesse essere svolta in forme pacifiche qualora non vi fossero state alcune istituzioni classiche dello Stato (militarismo, polizia e burocrazia) ad impedirlo. A parte la constatazione che nessun paese della terra è sprovvisto di dette istituzioni, e quindi sparisce la eccezione prevista da Marx, rimane il fatto che Marx non a caso poneva la questione nei paesi capitalisti più maturi. Appunto in questi paesi la "quantità" economica preparava il salto "qualitativo." Se gli eventi politici, determinati anche dal grado di resistenza della borghesia, avrebbero avuto forme più o meno violente, questa era e rimane una questione secondaria. L'essenziale era e rimane il salto "qualitativo" nella struttura, salto che di per se stesso è la rivoluzione, cioè la rottura radicale col passato e la trasformazione "violenta" dell'ordinamento sociale ed economico.
La concezione dialettica del salto rivoluzionario è l'antitesi della concezione evoluzionista. Principalmente in ciò vi è un abisso tra i rivoluzionari e i riformisti, dato che non due tattiche e due metodi ma due concezioni generali del mondo e della vita si scontrano da posizioni diametralmente opposte .
Sotto molti aspetti, l'intervento di Liliano Faenza nel dibattito sulla natura dello Stato sovietico costituisce quanto di più vicino alle nostre posizioni è stato scritto sui giornali e sulle riviste del PSI o del PCI. Anche se scorgiamo nel Faenza, come già nel Basso, una tendenza, forse dettata da motivi politici, a non voler concludere teoricamente certe affermazioni e l'uso di concetti teorici equivoci e superati (ci riferiamo alla nota tesi trotskista, ripresa parzialmente, sul carattere socialista della produzione pianificata sovietica e sul carattere presocialista della ripartizione dei prodotti in base ai valori di scambio), non possiamo che incoraggiare uno studio che rientra nella nostra problematica.
"È esatto parlare di uno Stato socialista? I socialisti possono avere una determinata concezione dello Stato come strumento di coercizione in periodo di dittatura rivoluzionaria. Ma non possono concepire lo Stato e il socialismo altrimenti che come termini che si escludono a vicenda. La società socialista è una società senza classi e quindi senza Stato, senza istituzioni coercitive." È una precisazione utilissima dopo tanta mistificazione sullo "Stato socialista", "fase socialista" e "fase comunista", ecc.
"Ma lo Stato sovietico è socialista? Può fornire un sostegno concreto alla nostra rappresentazione della società socialista? A mio parere no." Il Faenza cerca di spiegare il perché e nella sua risposta troviamo due elementi ben distinti, l'uno negativo e l'altro positivo. "Nelle condizioni di arretratezza economico-culturale in cui lo Stato sovietico si irrobustì dopo la Rivoluzione, la pianificazione della produzione, che non esclude antagonismi nel settore della distribuzione, è un metodo socialista applicato ad un compito presocialista... Ma nonostante la contradditorietà tra forma e contenuto, tra metodo socialista e compito presocialista, la pianificazione statale ha assicurato, ad un tipo di società in profondo ritardo, uno sviluppo enormemente accelerato..."
Se per compito presocialista va inteso, come riteniamo, sviluppo economico necessario per le basi del socialismo, cioè sviluppo di una economia capitalista (altrimenti non sappiamo proprio che economia sia quella che non è né capitalista né socialista), troviamo un capovolgimento della tesi trotskista, in un altro passo accettata.
Il Faenza dovrebbe stare più attento perché sta usando delle formule prettamente revisioniste. In nessun modo il marxismo giustifica la definizione della pianificazione come metodo socialista. Quindi la sua tesi andrebbe corretta in questo modo: metodo capitalista per un compito presocialista. In questo senso, che parte dalla constatazione scientifica del capitalismo di Stato in Russia, possiamo dire che questa forma di sviluppo economico era l'unica forma storicamente possibile che potesse imprimere un ritmo enormemente accelerato ad un tipo di società feudale profondamente in ritardo.
Con questa maggiore chiarezza teorica, del resto richiesta dalla mancata definizione della società sovietica che si riscontra nel saggio (ancora una volta ripetiamo con Marx: una economia è capitalista o è socialista), molte altre acute osservazioni del Faenza sui contrasti di classe, i rapporti proletariato-Stato, i problemi della libertà, ecc. avrebbero trovato un quadro generale in cui inserirsi invece di rimanere concetti staccati e inutilizzabili.
Tanto più pensiamo che un maggiore approfondimento teorico, un maggiore coraggio, vorremmo dire senza presunzione, necessiterà al Faenza il giorno che vorrà scrivere di nuovo su questo tema. Così a questo vorremmo collegasse le affermazioni conclusive del suo saggio: "Si può sostenere che lo Stato conserva la struttura democratica e parlamentare fino a quando la classe operaia non attenta seriamente al suo contenuto classista cercando di rovesciarlo" e "le vie che avvicinano al socialismo possono essere molteplici, ma quella che conduce al suo ingresso è, a mio parere, solamente rivoluzionaria"; posizioni interessanti se poste a confronto con lo squallido panorama offerto dal dibattito precongressuale del PCI.
(" L'Impulso " n. l0, 10 ottobre 1956)
Ultima modifica 09.09.2001