Un episodio del marxismo

Franz Mehring (1919)


Apparso nell'Archiv für die Geschichte des Sozialismus und der Arbeiterbewegung, vol. VIII, 1919, p. 308. Edito da Carl Grünberg


Traduzione di Fausto Codino e Mario Alighiero Manacorda.

Trascrizione del sito archive.org, riprodotta per ragioni di studio (learning purposes)

Controllo ortografico di: Leonardo Maria Battisti, dicembre 2018


La biografia di Karl Marx da me pubblicata qualche mese fa, ha avuto un'accoglienza molto favorevole nel mondo dei lettori, ed anche la critica, per quel che io ne ho letto, si è dimostrata abbastanza benevola nei suoi riguardi. Per questo io non avrei il minimo motivo per un'anticritica, ma vorrei tuttavia permettermi alcuni chiarimenti circa un punto di interesse generale, che è stato messo in campo contro di me proprio da parte socialista.

Non è qui il caso di indagare a fondo se e in che misura sia in relazione con la meschinità, la povertà e la monotonia della vita tedesca, dai tempi della guerra dei Trent Anni su su fino a tutto il secolo XIX, il fatto che i tedeschi non hanno mai conquistato allori apprezzabili nel campo della biografia. Non voglio ripetere qui le lamentele da spezzate il cuore mosse dal Carlyle nella sua Storia del re Federico di Prussia sull'incapacità dei tedeschi di innalzare monumenti letterari ai loro grandi, ma perfino il Treitschke riconobbe, ancora pochi decenni fa, che la letteratura tedesca è sintomaticamente povera di buone biografie. Da allora le cose sono migliorate, tuttavia questo fiorire dell'interesse biografico è andato sostanzialmente a vantaggio di uomini d'azione, capitani, uomini politici, grandi industriali e così via; la più bella biografia tedesca è forse quella di Max Lehmann su von Scharnhorst.

Peggio di tutto stavano e stanno le cose con le biografie dei grandi pensatori tedeschi. Non che su di essi non siano apparsi e non appaiano migliaia di libri; in questo vale ancor sempre la parola di Schiller: quando i re costruiscono, c'è lavoro per i carrettieri. Ma quanto più profonda è l'indagine sulla dottrina di un famoso pensatore, tanto più lamentevole suole essere la narrazione della sua vita. L'esempio più noto di questo genere è Kant, del quale non possediamo ancora una biografia soddisfacente. Se sono bene informato, Karl Vorländer pagherà prossimamente questo debito troppo a lungo prorogato, ma tuttavia sono passati centoquindici anni dalla morte di Kant prima che fosse compiuto un dovere così ovvio. Si cerca, sì, di scusare o addirittura spiegare questa sproporzione domandando che cosa infine abbia a che fare la volgare realtà delle cose con l'alto mondo dei pensieri in cui i filosofi vissero: come se fosse mai vissuto un pensatore tanto grande che la sua attività spirituale non abbia in misura maggiore o minore subito l'influsso del mondo circostante! Se Kant soleva gloriarsi di aver potuto rispondere «Avanti!» con la coscienza tranquilla tutte le volte che qualcuno aveva bussato alla sua porta, perché egli era sempre stato sicuro che di fuori non ci fosse un creditore, non si può salutare in questa classica manifestazione di un terribile filisteismo l'espressione di una saggezza che si innalzi al di sopra di tutte le cose terrene. Se fossero usciti un paio di migliaia di volumi di meno sulla filosofia di Kant, e al loro posto fosse uscita una sua biografia, sarebbe stato un grande vantaggio per la sua gloria e per l'efficacia del suo pensiero. Similmente, per parecchi altri filosofi, dei quali Fichte accennava la giusta interpretazione quando diceva: la filosofia che uno professa dipende da quello che egli è come uomo.

Scopo di ogni biografia è di restituire ai posteri — per quanto è possibile coi mezzi della rappresentazione letteraria — l'uomo che essa descrive così vivo come lo era quando ai suoi tempi si muoveva tra i suoi contemporanei. Per questo, naturalmente, occorre non soltanto la narrazione della sua attività pubblica, ma occorrono anche la conoscenza delle relazioni personali e private, tra le quali egli è vissuto, con tutte le piccolezze che possono averci a che fare. Tuttavia, limitandoci solo all'attività pubblica, le cose per Marx stanno così: egli fu contemporaneamente uomo d'azione e uomo di pensiero, e la politica e la scienza si fusero in lui così intimamente che non si può separare l'una dall'altra. Solo entro questi limiti si può dire che l'elemento primigenio del suo essere era il lottatore rivoluzionario e che la ricerca scientifica era per questo l'arma più acuta e irresistibile. Così Engels, nel suo discorso funebre sulla tomba di Marx, dice che l'uomo di scienza, per quanto grande sia quel che ha compiuto, non era stato in lui nemmeno la metà dell'uomo. Marx era stato anzitutto un rivoluzionario; e la vera destinazione della sua vita era consistita nel collaborare al rovesciamento della società capitalistica, e con ciò alla liberazione del proletariato moderno, al quale egli aveva dato per primo la coscienza della propria situazione e delle condizioni della propria emancipazione. Quando Marx poteva agire praticamente nell'interesse del proletariato, metteva volentieri da parte il suo lavoro scientifico, sì che, nonostante il gusto e la capacità senza pari per il lavoro, egli ha lasciato la sua opera scientifica soltanto allo stato di un gigantesco troncone.

Se non si tien conto della continua efficacia reciproca tra politica e scienza, ogni immagine che si dia di Marx finisce necessariamente col deformarne la figura, e il rimprovero che la Neue Zeit muove al mio libro è di aver battuto su questo punto. Anzitutto essa traccia un'immagine della edificante confusione, «della serie variopinta di strane contraddizioni», che regna su Marx «nella maggioranza del partito», un'immagine della cui esattezza non tocca a me disputare, anche se non son riuscito ad ammirarla. La Neue Zeit trova tuttavia «perfettamente comprensibile» questa situazione; essa non sarebbe altri che una prova della forza con la quale lo spirito di Marx ha agito come fermento «nelle nostre contese spirituali», di modo che noi non potremmo ancora pόrci a sufficiente distanza da lui e conquistare con ciò anche una vera prospettiva storica. E questo processo di fermentazione non sarebbe affatto chiuso; in singoli campi della teoria marxista avrebbe anzi appena cominciato a manifestarsi. Tuttavia una pronta chiarificazione sarebbe assolutamente desiderabile, anche se per il momento possa avvenire soltanto in alcuni campi particolari. Perciò si sarebbe attesa con impazienza la mia biografia, ma questa aspettativa sarebbe stata delusa.

«Mehring nella sua opera descrive soltanto la vita del nostro maestro come politico, come lottatore rivoluzionario e come giornalista. L'importanza scientifica di Marx passa del tutti in secondo piano. Si parla, sì, a più riprese di questa importanza, ma la si mostra, in certo modo, soltanto sul lontano orizzonte come una fantasmagorica stella cadente; ma non si arriva a darcene una chiara dimostrazione e motivazione».

Di fronte a questa affermazione io non posso far altro che rinviare semplicemente al fatto, di cui ogni lettore si può convincere anche soltanto sfogliando il mio libro, che ho sempre descritto l'evoluzione politica di Marx in costante relazione con la sua evoluzione scientifica, che ho discusso la tesi di laurea, gli articoli nei Deutsch-Frenzösiche Jahrbücher, la Sacra famiglia, la polemica contro Proudhon, lo scritto del 1859 altrettanto se non anche più esaurientemente degli articoli nella Rheinische Zeitung, nel Vorwärts, nella Neue Rheinische Zeitung, o della polemica contro Vogt.

Ma devo avere anche già ammesso per conto mio, se non ho sognato, che «sostanzialmente» mi sono limitato alla vita politica di Marx. Nella prefazione ho chiesto l'indulgenza del lettore perché, dati i limiti posti al mio libro, avrei potuto diffondermi molto meno di quanto avrebbe corrisposto ai miei desideri, e che di questi limiti imposti dal di fuori avrebbe sofferto soprattutto l'analisi degli scritti scientifici. Ed io credevo di aver accennato con chiarezza sufficiente, per degli specialisti, che cosa io intendessi con questo, cioè quei problemi quali perlopiù sono emersi dagli scritti postumi di Marx: la polemica con Rodbertus sulla rendita fondiaria, l'esame delle «raffinatissime» ricerche di Ricardo e dei ricardiani sul plusvalore, e altre cose del genere. Non misconosco l'interesse e l'importanza di questi problemi, né contesto la necessità di discuterli in una biografia di due o quattro volumi destinata ai dotti, ma, nella cornice relativamente ristretta di una narrazione destinata in prima linea ad ambienti operai, essi dovevano passare in seconda linea rispetto alla narrazione dell'attività, storicamente determinante, svolta da Marx per l'internazionale.

Quello che la Neue Zeit pretende da me, è il ritorno al vecchio e cattivo metodo di trattare i grandi pensatori, che io ho testé cercato di caratterizzare, e a cui Fichte una volta accenna dicendo che il lettore tedesco, prima di leggere un libro, vuole leggere un libro su questo libro. Quello che Marx ha detto chiaro e spiccio nel suo stile concreto, il biografo lo deve stemperare in noiose disquisizioni. Così, Marx ha spesso negato di avere scoperto la teoria della lotta di classe; quello che egli rivendicava come sua proprietà spirituale in questa teoria, era soltanto la dimostrazione che l'esistenza delle classi è legata a determinate lotte storiche di sviluppo della produzione, che la lotta di classe porta necessariamente alla dittatura del proletariato, che questa stessa dittatura costituisce soltanto il passaggio all'abolizione di tutte le classi e a una società senza classi. Queste cose io le cito testualmente, ma mi si rimprovera di aver sbrigato la teoria marxista della lotta di classe con una mezza paginetta; io avrei dovuto mostrare come la teoria della lotta di classe sia stata sviluppata da David Hume, Adam Ferguson, e Dio sa chi. Ma a che scopo queste dotte e niente affatto peregrine dissertazioni in una biografia di Marx, quando Marx in persona dichiara di aver accolto la teoria così come essa è stata elaborata dagli storici francesi del quinto decennio del secolo, ed enuncia poi in maniera esauriente il suo contributo personale ad essa?

Un rimprovero anche più aspro lo subisco per il «fatto davvero singolare per uno storico socialista» che avrei toccato solo «di sfuggita» la concezione materialistica della storia: proprio tanto «di sfuggita» a quanto lo stesso Marx, le cui delucidazioni sull'argomento io ho, anch'esse, trascritte parola per parola, e in particolare — per quanto sia già stato spesso ristampato — anche il classico passo della prefazione allo scritto del 1859. Il mio delitto consiste nel fatto che io non ci ho aggiunti nulla di mio. Come se ci volesse una bravura particolare a scombiccherare qualche pagina o anche qualche foglio di stampa di osservazioni più o meno intelligenti sul materialismo storico. Sono ormai trent anni che io ho fatto le mie prove in questo campo, in uno studio che fu proclamato un modello da due famose autorità: da Friedrich Engels, che mi confermò che io intendevo la cosa così come la avevano pensata Marx e lui stesso, e dal signor Werner Sombart, che assicurò solennemente che io avevo dimostrato in maniera classica come non si dovesse concepire il materialismo storico. Da allora mi annovero fra quelle persone che tentano di applicare nei loro scritti la concezione del materialismo storico, ma non fra quelle che non si stancano mai di oracoleggiare in propositi per tutta l'eternità. In questo seguo l'esempio datoci da Mari, e sono certo di agire nello spirito di lui.

Se avessi un motivo plausibile di sospettare che la critica della Neue Zeit sia dettata da malevolenza personale, non spenderei una parola sulla inconsistenza di fatto dei suoi addebiti. Ma un motivo del genere non sussiste: la Neue Zeit loda anche alcune cose del mio libro. La tendenza di questa rivista a rappresentare il marxismo come un mare ondeggiante di nebbia dal quale emergono riconoscibili appena le cime dei monti, è assolutamente onesta e ha i suoi motivi particolari. Rοbert Wilbrandt la definisce acutamente come l'accantonamento del marxismo sul binario morto dell'economia politica teorica1.

Lo scritto del Wilbrandt è uscito quasi contemporaneamente alla mia biografia, e in un certo senso risponde a quelle aspettative di cui la Neue Zeit mi rimprovera di non aver tenuto conto. Delle sue centotrentacinque pagine, solo undici sono dedicate alla vita di Marx, mentre sedici sono dedicate al suo materialismo storico, venticinque alla sua teoria della lotta di classe, e così via. Ma fortunatamente il Wilbrandt non è un astruso e profondo arzigogolatore di concetti, ma uno scrittore di vena, quale non si trova troppo spesso tra i dottori tedeschi; scrive in modo così vivo e fresco che lo si segue volentieri, anche quando e in quanto lo si debba contraddire. Ε obiezioni un marxista deve muovergliene abbastanza spesso, come si capisce già dalla diversità delle posizioni di partenza. Il Wilbrandt vuoi render comprensibile al mondo dei lettori borghesi la imponente grandezza dell'uomo, ma nonostante tutta la sincerità e l'onestà di questo tentativo, a proposito della quale non è davvero consentito di dubitare, egli resta sempre sul, terreno della società borghese, e deve perciò avanzare le sue determinate riserve nei riguardi di Marx.

In particolare, egli gli rimprovera di non aver dato alla classe operaia nessun sistema pratico del socialismo. La colpa di ciò egli la vede nella teoria della lotta di classe, che Marx avrebbe formulata e che il Wilbrandt d'altra parte, nonostante le sue venticinque pagine non riesce affatto a render chiara. Con la lotta di classe del proletariato, Marx avrebbe reso più ristretta e più limitata l'idea del socialismo, e precisamente per tre aspetti. Anzitutto, nell'impresa di trasformare con le sue sole forze la società borghese in quella socialista, il proletariato si è accollato un peso eccessivo per le sue spalle; prima o poi verrà il momento in cui esso dovrà guardarsi intorno in cerca di alleanze con altri partiti o col governo (revisionismo) e rinuncerà quindi ai puri principi. A ciò è legata la «mancanza di patriottismo» che ha alienato molti cuori alla classe operaia, e che in fin dei conti non rientra affatto nella sua natura, come ha dimostrato lo scoppio della guerra mondiale. Infine, la lotta di classe lega il socialismo alla politica e contamina il lavoro pratico di costruzione, per il quale il Wilbrandt si richiama soprattutto all'esempio inglese (cooperative edilizie operaie, città giardino, associazioni di mestiere, e anche i «Pionieri di Rochdale» di antica memoria e simili).

Se si vuole accettare questo modo di impostare il problema — ma la lotta di classe appartiene al proletariato moderno come l'anima al corpo; è esistita da quando c'è un siffatto proletariato e non ci vuole la capacità d'un profeta per predire che dopo la guerra mondiale esploderà con una violenza mai vista — il Wilbrandt vede nella «terza forte limitazione» il «punto debole» del sistema, soltanto perché egli stesso si occupa prevalentemente di questo campo. È universalmente noto come la lotta di classe proletaria abbia costantemente favorito tutti i tentativi pratici di alleviare le piaghe della società borghese, anche quando esse non colpiscono esclusivamente le classi lavoratrici. Altrettanto poco è vero che la lotta di classe proletaria sia mai fallita di fronte ai periodici attacchi di «revisionismo». Per il secondo punto il Wilbrandt può certo appellarsi al crollo dell'internazionale allo scoppio della guerra mondiale, ma qui, dove la sua posizione è relativamente più forte, la sua dimostrazione è più debole. Egli mette in campo citazioni stantie come Ans Vaterland, dar teure, schliess' dich an2 e così via, e non disdegna nemmeno le storie avventurose del signor Spargo, secondo cui durante la Comune di Parigi Marx sarebbe stato informato da Lothar Bucher sui piani di Bismarck e li avrebbe comunicati caldi caldi ai comunardi per spingerli alla guerra contro la Prussia. Ε quando poi il Wilbrandt, per giustificare Marx, concede che questi, a quanto dicono, sarebbe stato un infiammato sostenitore dell'idea dell'unità tedesca, ebbene, Marx ha espresso abbastanza spesso e con assoluta chiarezza la sua posizione di fronte a questo problema, di modo che non si è costretti a ricorrere a voci in proposito. E per il resto, allo scoppio della guerra mondiale l'internazionale è crollata non per la prima, ma per la seconda volta; ma se dopo la sua prima scomparsa ci vollero diciassette anni per riedificarla, questa volta ce ne sono voluti appena quattro perché nella rivoluzione russa risorgesse la sua avanguardia, più possente e più gigantesca di quanto fosse mai stata.

Nondimeno, il Wilbrandt non afferma che Marx sia «politicamente» del tutto superato. «Politicamente Marx è in declino. Scientificamente ed umanamente egli è in ascesa». Come educatore egli sarebbe sulla via per passare dal proletariato alla cattedra, alla professione cui era originariamente destinato.

«Dopo la morte, professore per professori e — si inorridisca! — anche per studenti, anche attraverso questa lunga via avrà una efficacia politica, e magari un successo anche maggiore. Poiché, chi, tra i nostri uomini politici, ha compreso la questione operaia? Chi la socialdemocrazia? Lo studio del nocciolo di queste questioni nel Capitale condurrà anche a quello della personalità e rivelerà: un uomo! Il suo esempio, l'audacia rivoluzionaria, quale si ritrova solo in alcuni uomini tutti d'un pezzo, non guasterà una nuova virtù. Di uomini siffatti abbiamo bisogno».

Al che ci sarebbe soltanto da osservare: vedi la legge Arons!

Ma il Wilbrandt ha ragione nel fatto che ai marxisti che misconoscono il Marx pratico e non vogliono buttare subito in soffitta tutto «vecchio maestro», non resta altro che spingere il marxismo sul binario morto dell'economia politica teorica. Il Wilbrandt si appella in particolare a questa «acuta osservazione» di Max Adler:

«Ciò che contraddistingue oggi in modo evidente ogni politico marxista, è che egli si sente in prima linea un teorico, che la sua posizione di principio verso i compiti della politica consiste soprattutto in questa critica teorica».

Soltanto, il Wilbrandt non dovrebbe estendere questa «acuta osservazione» agli «altri marxisti». Essa non vale nemmeno per la piccola cerchia dei «Giovani-marxisti di Vienna», come il Wilbrandt li chiama; Gustav Eckstein, che apparteneva a loro, nel suo ultimo scritto apparso dopo la sua morte si è occupato assai poco di teoria; la sua ultima parola è anzi: lotta di classe del proletariato. Soltanto nella «maggioranza del partito tedesco» e, a quanto pare, anche nella socialdemocrazia austriaca, compare il fenomeno «evidente» di Max Adler; «gli altri marxisti» si tengono saldamente a Marx tutto intero, che è per l'appunto più vivo che mai, dal capo ai piedi, con la teoria come con la pratica, nella rivoluzione russa.

Ma può esser sufficiente segnalare di sfuggita questo episodio del marxismo. Esso non ha un futuro, né può averlo. Vale soltanto la pena di esserne informati per ovviare alla confusione che in realtà esso può provocare.


Note

1. R. Wilbrandt, Karl Marx, Versuche einer Einführung, Lipsia-Berlino, Teubner, 1918 (N. d. Α.).

2. «Tienti stretto alla patria, alla patria cara», Schiller, Wilhelm Tell, atto II, scena I.



Ultima modifica 2021.04.10