[ Indice de La Questione delle Abitazioni ]
Nel numero 10 e seguenti di Volksstaat si trova una serie di sei articoli sulla questione dell'abitazione, che merita d'essere letta attentamente per l'unica ragione che - a prescindere da certi retorciumi degli anni Quaranta, passati di moda da un pezzo - rappresenta il primo tentativo di trapiantare in Germania la scuola di Proudhon. È, in questo, un regresso così enorme rispetto a tutto il processo evolutivo del socialismo tedesco (che già venticinque anni or sono fu proprio esso a dare il colpo di grazia alle fantasie proudhoniane [7]) che vale la pena di controbattere immediatamente questo tentativo.
La cosiddetta carestia di alloggi, di cui oggigiorno si fa un così gran discorrere sulla stampa, non sta nel fatto che la classe operaia viva per lo più in abitazioni scadenti, strapiene e malsane. Questa carestia non è qualcosa che sia peculiare del presente; non è neppure una delle pene che siano peculiari del proletariato moderno e lo distinguono da tutte le classi oppresse d'altri tempi: al contrario, ha colpito in misura abbastanza uniforme tutte le classi oppresse d'ogni tempo. Per mettere fine a questa penuria di abitazioni, non vi è che un mezzo: eliminare lo sfruttamento e l'oppressione della classe lavoratrice da parte della classe dominante. Quel che oggi s'intende per crisi degli alloggi non è che un particolare acutizzarsi delle già cattive condizioni abitative dei lavoratori, provocato dall'improvviso afflusso demografico verso le grandi città: un enorme aumento dei canoni d'affitto, un ancor più pronunciato pigiarsi di inquilini in ogni singolo caseggiato, e per taluni l'impossibilità di trovare un alloggio qualsiasi. E questa penuria di abitazioni fa parlare tanto di sé per la sola ragione che non è limitata alla classe operaia, ma colpisce altresì la piccola borghesia.
La scarsezza di alloggi di cui soffrono i lavoratori e una parte dei piccoli borghesi delle nostre città moderne è uno degli inconvenienti minori, secondari, che derivano dall'odierno modo di produzione capitalistico. Non è affatto una conseguenza diretta dello sfruttamento del lavoratore in quanto lavoratore da parte dei capitalisti. Questo sfruttamento è il male radicale, che la rivoluzione sociale intende eliminare eliminando il sistema capitalistico di produzione. Ma la pietra angolare di quest'ultimo è il fatto per cui il nostro attuale ordinamento sociale mette i capitalisti in condizione di comperare la forza lavoro dell'operaio al suo valore, e di ricavarne però più del suo valore, facendo lavorare l'operaio più a lungo di quanto non sia necessario per riprodurre il prezzo pagato per la forza lavoro. Il plusvalore prodotto in tal modo viene ripartito nell'ambito dell'intera classe dei capitalisti e dei proprietari, è inoltre tra i loro servi prezzolati, dal Papa e dall'imperatore fino all'ultima guardia notturna e più in giù ancora. Come si effettui questa ripartizione non ci interessa in questa sede; una cosa è certa: tutti coloro che non lavorano possono vivere, appunto, solo dei ritagli di questo plusvalore, che affluisce loro in un modo o nell'altro. (cfr. Marx, Il Capitale, la dove si parla di questo per là prima volta).
Il plusvalore prodotto dalla classe lavoratrice viene tolto a quest'ultima senza che le sia pagato e viene ripartito fra le classi che non lavorano, e questa ripartizione si effettua tra litigi assai edificanti e imbrogli reciproci; svolgendosi essa per via di compravendita, uno dei suoi precipui punti di forza è l'abbindolamento dei compratori da parte del venditore, e nel commercio al minuto, soprattutto nelle grandi città, questo è diventato attualmente una vera e propria condizione di vita per i rivenditori. Ma quando il lavoratore viene imbrogliato dal suo bottegaio o dal suo fornaio sul prezzo o sulla bontà della merce, ciò gli capita non per la sua specifica qualità di lavoratore. Al contrario, non appena una certa misura media di turlupinatura diviene la regola sociale in un dato luogo, a lungo andare dovrà trovare necessariamente la sua compensazione in un corrispondente aumento di salario. Il lavoratore si pone di fronte al merciaio come compratore, cioè come un possessore di denaro o di credito, e quindi per niente affatto nella sua qualità di lavoratore, cioè come venditore di forza lavoro. La turlupinatura può colpirlo, come in generale colpisce la classe più povera, più duramente di quanto non faccia con le classi sociali più ricche, ma non è un male che lo colpisca in esclusiva, che sia peculiare della sua classe.
Esattamente lo stesso avviene per la penuria di abitazioni. In certe zone, specie in quelle site al centro, l'estendersi delle grandi città moderne conferisce alla proprietà fondiaria un valore artificiale, che spesso aumenta sino a livelli vertiginosi; gli edifici che vi sono costruiti sopra, invece di elevare tale valore, lo abbassano, giacché non corrispondono più alle mutate condizioni; li si demolisce e li si sostituisce con altri. Ciò avviene soprattutto nelle abitazioni di operai site nel centro urbano, il cui affitto, nemmeno in condizioni di massimo sovraffollamento, può superare un certo massimale, o lo supera solo con estrema lentezza. Le si demolisce e al loro posto si costruiscono negozi, depositi di merci, edifici di interesse pubblico. Per mezzo del sul Haussmann di Parigi, il bonapartismo ha sfruttato al massimo questa tendenza a favore della speculazione e dell'arricchimento privati; ma lo spirito di Haussmann è passato anche per Londra, Manchester e Liverpool, e sembra sentirsi a casa sua anche a Berlino e a Vienna. Ne risulta che dal centro delle città gli operai sono scacciati verso la periferia, che le abitazioni per operai, o comunque piccole, si fanno rare e care e spesso addirittura introvabili; in condizioni del genere, infatti, l'industria edilizia, a cui abitazioni più care offrono un campo di speculazione di gran lunga migliore, costituirà solo per eccezione case per i lavoratori.
È indubbio, quindi, che la crisi dei fitti colpisce i lavoratori più duramente di qualsiasi classe più agiata; ma né più né meno degli imbrogli del merciaio, essa costituisce un male che non opprime esclusivamente la classe operaia e, per quanto riguarda quest'ultima, a certe condizioni di intensità e durata, deve trovare una certa quale compensazione economica.
È di queste pene comuni alla classe operaia e alle altre, e segnatamente alla piccola borghesia, che si occupa di preferenza il socialismo piccolo-borghese, al quale appartiene anche Proudhon. Non è quindi un caso che il nostro proudhoniano tedesco si sia impadronito soprattutto della questione della casa che, come s'è visto, non è affatto esclusiva degli operai, e che, al contrario, egli la dichiari per una vera ed esclusiva questione operaia.
"Quel che l'operaio salariato è di fronte al capitalista, lo è il locatario di fronte al padrone di casa".
È completamente falso.
Nella questione delle abitazioni abbiamo due parti che si fronteggiano: il locatario ed il locatore (o proprietario della casa). Il primo intende acquistare dall'altro il temporaneo uso di un'abitazione; egli ha denaro o credito, anche se questo credito deve acquistarlo a prezzo d'usura dal proprietario stesso dell'immobile con un aumento d'affitto. Si tratta di una semplice vendita di merce; non è un negozio tra proletario e borghese, fra lavoratore e capitalista; il locatario, anche se lavoratore, si presenta come persona dotata di mezzi, uno che deve aver già venduto la sua propria merce, cioè la forza lavoro, per potersi presentare, con il ricavato di questa, quale compratore dell'usufrutto di un'abitazione, oppure deve poter offrire garanzie dell'imminente vendita della sua forza lavoro. Qui mancano del tutto i risultati peculiari che la vendita della forza lavoro ha sui capitalisti. Il capitalista fa produrre in primo luogo il valore della forza lavoro acquistata, ma in secondo anche un plusvalore, che resta provvisoriamente nelle sue mani, con la riserva di essere ripartito fra la classe dei capitalisti. Qui, dunque, si produce un valore eccedente, per cui viene aumentato il totale complessivo del valore a disposizione. Tutt'altro avviene nel negozio di locazione. Quale che sia l'entità della truffa che il locatore voglia compiere ai danni del locatario, si ha pur sempre un trasferimento di valore già esistente, prodotto in precedenza, e il totale del valore in possesso comune del locatario e del locatore resta lo stesso di prima. Il lavoratore, gli paghi il capitalista del lavoro compiuto al di sotto, al di sopra o al giusto prezzo del suo valore, viene sempre truffato di una parte del prodotto del suo lavoro; il locatario, invece lo è solo se deve pagare l'abitazione al di sopra del suo valore reale. Significa, quindi, stravolgere totalmente il rapporto fra locatario e locatore il pretendere di equipararlo a quello tra lavoratori e capitalisti. Al contrario, abbiamo a che fare con un negozio di mercato del tutto comune fra due cittadini, e questo negozio si svolge secondo le leggi economiche che regolano in generale la vendita di merci, e in specie la vendita di quella merce che è la proprietà fondiaria. Nel computo entrano in primo luogo i costi di costruzione e di manutenzione della casa o della parte di essa in questione; viene in secondo luogo il valore del suolo, condizionato dalla posizione più o meno vantaggiosa dell'edificio; a decidere in modo definitivo è lo stato attuale del rapporto fra domanda e offerta. Nella testa del nostro proudhoniano questo semplice rapporto economico si esprime come segue:
"Una volta costruita, la casa serve come titolo perenne di diritto a una determinata frazione del lavoro sociale, anche qualora già da tempo in valore reale della casa sia pagato in misura più che sufficiente al proprietario sotto forma di canone d'affitto. Avviene quindi che una casa, fabbricata ad esempio cinquant'anni fa, durante questo tempo abbia coperto con i proventi delle sue pigioni il prezzo di costo originario due, tre, cinque, dieci volte".
Qui abbiamo subito davanti Proudhon tutto intero. In primo luogo si dimentica che la pigione deve non solo ammortizzare i costi di costruzione dell'edificio, bensì anche coprire le spese di riparazione, l'importo di pesanti debiti, di affitti non pagati, come pure l'eventuale onere dell'appartamento sfitto, e infine scontare a rate annuali un capitale di costruzione impiegato in un edificio che deperisce e col tempo diviene inabitabile e privo di valore. Si dimentica, in secondo luogo, che la pigione deve indennizzare altresì l'aumento del valore dell'area su cui sorge l'edificio, e quindi una parte di essa consiste in rendita fondiaria. È pur vero che il nostro proudhoniano dichiara subito che, verificandosi senza concorso del proprietario dell'area, quest'aumento di valore spetta per diritto non a lui, bensì alla società; ma egli non si rende conto che in tal modo postula in realtà l'abolizione della proprietà terriera: un punto sul quale non possiamo entrare in merito ora, perché il farlo ci porterebbe troppo lontano. Non si rende conto, infine, che in tutto il negozio non si tratta minimamente di acquistare la casa, bensì solo l'usufrutto di essa per un tempo determinato. Proudhon, il quale non si è mai curato delle condizioni reali, effettive, in cui si svolge un qualsiasi fenomeno economico, è naturale che non sappia spiegarsi come in certi casi il prezzo di costo originario di una casa sia pagato, sotto forma di pigione, dieci volte nel giro di cinquant'anni. Anziché studiare la questione, tutt'altro che difficile, sul piano economico e accertare se essa sia realmente, e come, in contraddizione con le leggi economiche, se la cava con un audace salto dall'economia alla giurisprudenza: "una volta costruita, la casa serve come titolo perenne di diritto" a un determinato pagamento annuo. Sul come ciò avvenga, come la casa diventi un titolo giuridico, Proudhon tace completamente. Ed è invece proprio ciò che avrebbe dovuto spiegare. Se avesse studiato la questione, egli avrebbe trovato che tutti i titoli giuridici di questo mondo, per perenni che vogliano essere, non conferiscono ad una casa la capacità di ricevere, come pagamenti di pigione, dieci volte superiori il suo prezzo di costo nel giro di cinquant'anni, ma che sono capaci di tanto solo condizioni puramente economiche (che possono essere socialmente riconosciute sotto forma di titoli giuridici). Ed ecco, quindi, che egli è tanto lontano dalla soluzione quanto lo era all'inizio.
Tutta la dottrina proudhoniana poggia su questo salto dalla realtà economica alle frasette giuridiche. Ogni qual volta al buon Proudhon scappa di mano il contesto economico - e ciò gli capita in ogni questione di una certa serietà - egli si rifugia nel campo del diritto e si appella alla giustizia eterna.
"Il Proudhon inizia con l'attingere il suo ideale della giustizia, la justice éternelle, dai rapporti giuridici corrispondenti alla produzione delle merci, con il che, sia detto di passata, vien fornita anche la dimostrazione, così consolante per tutti i borghesucci, che la forma della produzione delle merci è eterna come la giustizia. Poi, viceversa, vuole rimodellare la produzione reale delle merci e il diritto reale ad essa corrispondente in conformità di quell'ideale. Che cosa si penserebbe di un chimico che, invece di studiare le leggi reali del ricambio organico e di risolvere determinati problemi sulla base di esse, volesse rimodellare il ricambio organico per mezzo delle "idee eterne" della naturalité e della affinité? Quando si dice che l'usura contraddice alla justice éternelle e ad altre vérités éternelles, si dà forse su di essa qualcosa in più di quel che ne sapessero i Padri della Chiesa, quando dicevano che essa contraddiceva alla grace éternelle, alla foi éternelle, alla volonté éternelle de Dieu?" (Marx, Il Capitale, [libro I, capitolo I, sezione II, nota]).
Al nostro proudhoniano le cose non vanno meglio che al suo maestro:
"Il contratto di pigione è uno di quei mille scambi che nella vita della società moderna sono tanto necessari quanto la circolazione del sangue nel corpo degli animali. Sarebbe naturalmente nell'interesse di questa società che tutti questi scambi fossero pervasi da un'idea di diritto, cioè che venissero attuati ovunque secondo le esigenze della giustizia. In una parola, la vita economica della società deve, come dice Proudhon, assurgere alle altezze di un diritto economico. In realtà, come è noto, avviene esattamente il contrario".
Si dovrà credere che, cinque anni dopo che Marx ha tratteggiato con sì felice e convincente brevità il proudhonismo, e proprio sotto questo aspetto decisivo, sia possibile fare stampare in tedesco cose confusionarie come queste? Che vogliono mai dire simili sciocchezze? Nulla, se non che gli effetti pratici delle leggi economiche, che regolano la società moderna, fanno a pugni col senso di giustizia dell'autore, e questi nutre il pio desiderio che le cose si possano aggiustare in modo da rimediare agli inconvenienti. Già, se i rospi avessero la coda, non sarebbero più rospi! E il modo capitalistico di produzione non è forse "pervaso da un'idea di diritto", vale a dire dal proprio diritto di sfruttare i lavoratori? Il nostro autore ci dice che tale non è la sua idea di diritto; ebbene, siamo forse andati di un passo avanti?
Ma torniamo alla questione delle abitazioni. Il nostro proudhoniano lascia ora libero corso alla sua "idea del diritto" e snocciola la seguente commovente declamazione:
"Non esitiamo minimamente ad affermare che per l'intera civiltà del nostro celebrato secolo non si dà dileggio più terribile del fatto che nelle grandi città il novanta per cento della popolazione e oltre non abbia un luogo che possa chiamare proprio. Il vero punto nodale dell'esistenza morale e familiare, la casa e il focolare, viene travolto dal turbine sociale... A questo riguardo noi siamo di gran lunga inferiori ai selvaggi. Il troglodita ha la sua caverna, l'australiano ha la sua capanna d'argilla, l'indiano il suo proprio focolare - il proletario moderno è, di fatto, all'aria aperta" ecc.
In questa geremiade abbiamo il proudhonismo in tutta la sua forma reazionaria. Per creare la moderna classe rivoluzionaria del proletariato era assolutamente necessario che fosse tagliato il cordone ombelicale che teneva ancora legati i lavoratori del passato al terreno. Il tessitore manuale che, oltre al suo telaio, possedeva la sua casetta, il suo giardinetto e il suo campicello, al di là di ogni miseria e di ogni oppressione politica, era un uomo tranquillo e contenuto "in tutta santità e decoro"; si levava il cappello davanti ai ricchi, ai pievani e agli impiegati statali, e nell'intimo era in tutto e per tutto uno schiavo. La grande industria moderna, che del lavoratore incatenato al terreno ha fatto un proletario del tutto nullatenente, libero da tutte le catene sociali e davvero libero come un uccello, è proprio questa rivoluzione economica ad aver creato le condizioni uniche e sole che rendano possibile, insomma, l'abolizione dello sfruttamento della classe operaia nella sua forma ultima, la produzione capitalistica. Ed ecco che ora questo lacrimoso proudhoniano se ne viene a deprecare come un gran regresso il fatto che i lavoratori siano scacciati da casa e focolare, un fatto che per l'appunto costituisce la condizione primissima della loro emancipazione intellettuale.
Ventisette anni fa (cfr. La situazione della classe operaia in Inghilterra) ho descritto appunto, nelle sue linee principali, questo processo di espulsione dei lavoratori da casa e focolare, quale si verifico nel XVIII secolo in Inghilterra. In quelle pagine sono descritte come meritano le infamie di cui si resero colpevoli in quell'occasione i proprietari terrieri e gli industriali, gli effetti materialmente e moralmente dannosi che quell'espulsione sortì necessariamente sui lavoratori che ne furono vittime. Ma mi poteva mai venire in mente di scorgere in quel processo evolutivo necessario sul piano storico, un regresso "al di sotto dei selvaggi"? Certo che no. Il proletariato inglese del 1872 è ad un livello infinitamente più alto del tessitore rurale del 1772 "con casa e focolare". E il troglodita con la sua caverna, l'australiano con la sua capanna d'argilla, l'indiano con il suo proprio focolare avrebbero mai potuto compiere una sommossa di giugno [8] e una Comune di Parigi?
Che, da quando la produzione capitalistica ha cominciato a svolgersi su larga scala, la condizione degli operai sia divenuta in complesso peggiore dal punto di vista materiale, non lo mette in dubbio solo il borghese. Ma per questo forse dobbiamo guardare bramosamente indietro alle (peraltro assai magre) pentole d'Egitto [9], cioè alla piccola industria rurale, che produceva solo anime di schiavi, oppure ai "selvaggi"? Al contrario. Soltanto il proletariato creato dall'industria moderna, liberato da tutte le catene ereditarie, anche da quelle che lo inchiodano alla terra, solo il proletariato pigiato nelle grandi città è in grado di compiere la grande trasformazione sociale che metterà fine ad ogni sfruttamento di classe e ad ogni dominio di classe. I tessitori campagnoli di un tempo, con casa e focolare, non sarebbero mai stati in grado di farlo, non avrebbero potuto concepirne nemmeno il pensiero, e ancor meno attuarlo.
Per Proudhon, invece, tutta la rivoluzione industriale degli ultimi cent'anni, il vapore, la produzione su larga scala, che sostituisce il lavoro manuale con le macchine e moltiplica la capacità produttiva del lavoro, è un evento quant'altro mai increscioso, qualcosa che non avrebbe dovuto mai accadere. Il piccolo borghese Proudhon vuole un mondo in cui ciascuno porti a compimento un prodotto tutto suo, autonomo, che sia immediatamente adoperabile e scambiabile; solo se in tal modo ciascuno recupera il pieno valore del suo lavoro in un altro prodotto, si sarà soddisfatto all'"eterna giustizia" e realizzato il migliore dei mondi. Ma questo mondo migliore proudhoniano è già stato schiacciato in boccio dal piede del progressivo sviluppo industriale, che da tempo ha abolito il lavoro singolo in tutti rami maggiori della grande industria e va abolendolo giorno per giorno anche nei minori e minimi; al suo posto mette il lavoro sociale, sostenuto da macchinari e da forze della natura assoggettate, un lavoro il cui prodotto, immediatamente scambiabile o adoperabile, è l'opera comune di più singoli, per le mani dei quali esso ha dovuto passare. Ed è proprio grazie a questa rivoluzione industriale che la capacità produttiva del lavoro umano ha raggiunto un simile apogeo, che - per la prima volta da quando esistono uomini - è data la possibilità, con una intelligente ripartizione di lavoro fra tutti, non solo di produrre a sufficienza per il lavoro abbondante di tutti i membri della società e per un cospicuo fondo di riserva, ma altresì di lasciare ad ogni singolo sufficiente tempo libero perché si conservi quanto vale realmente la pena di conservare di ciò che costituisce la cultura storicamente tradizionale (scienza, arte, rapporti umani ecc.), e non solo di conservarlo, ma di trasformarlo da un monopolio della classe dominante in un bene comune della società intera, e di accrescerlo. E qui sta il punto decisivo. Non appena la capacità produttiva del lavoro umano si sviluppa fino a questo apogeo, sparisce ogni pretesto per l'esistenza di una classe dominante. La ragione con cui si sosteneva la differenza di classe, infatti, è stata sempre questa, in fondo: deve sempre esservi una classe che non sia costretta a tormentarsi per la produzione del proprio mantenimento quotidiano, per avere tempo di curare il lavoro intellettuale della società. A questa fanfaluca, che finora ha avuto una sua grande giustificazione storica, ha tagliato le radici una volta per tutte la rivoluzione industriale degli ultimi cent'anni. L'esistenza di una classe dominante diviene ogni giorno di più un ostacolo allo sviluppo delle forze produttive industriali e, non meno, a quello della scienza, dell'arte, e segnatamente di ben ordinari rapporti umani. Difficoltà più grosse e imbrogliate di quelle costituite dai nostri borghesi odierni non se ne sono mai avute.
Tutto questo non tocca minimamente l'amico Proudhon. Egli vuole la "giustizia eterna", e niente altro. Scambiando il suo prodotto, ciascuno deve ricevere per esso il provento complessivo del suo lavoro, il valore totale del suo lavoro. Sennonché, un calcolo del genere, quanto al prodotto dell'industria moderna, è una faccenda piuttosto complicata. L'industria moderna, tiene nell'ombra proprio la parte che il singolo ha nel prodotto complessivo, e che nell'artigianato manuale di un tempo era di per sé evidente nel prodotto compiuto. L'industria moderna, inoltre, va eliminando sempre di più quello scambio individuale su cui si fonda l'intero sistema di Proudhon, cioè lo scambio diretto fra due produttori, ciascuno dei quali riceve in cambio il prodotto dell'altro per consumarlo. Ecco quindi che tutto il proudhonismo è pervaso da una tendenza reazionaria, da una profonda antipatia per la rivoluzione industriale, un desiderio, ora palese, ora nascosto e inespresso, di buttar fuori tutta l'industria moderna, macchine a vapore, macchine tessili ed altre diavolerie, per tornare all'antico, onesto lavoro manuale. Che in tal modo perdiamo in novecentonovantanove per mille di capacità produttiva, che l'umanità intera sia condannata alla schiavitù di lavoro più dura possibile, che la carestia diventi regola generale - che importa mai, purché riusciamo ad istituire lo scambio in modo tale che ciascuno riceva il "pieno provento del suo lavoro" e sia attuata la "giustizia eterna"? Fiat justitia, pereat mundus!
Vada in malora pur il mondo intero,
ma la giustizia abbia intatto il suo impero!
E il mondo andrebbe in malora davvero, in codesta controrivoluzione proudhoniana, dato e non concesso che sia mai attuata.
È del resto ovvio che anche nella produzione sociale, condizionata dalla grande industria moderna, a ciascuno può essere assicurato il "pieno provento del suo lavoro" nella misura in cui questa frase ha un senso. E lo ha solo se la si estende in modo tale da intendere che non ogni singolo lavoratore diventi proprietario di codesto "pieno provento del suo lavoro", bensì che l'intera società, consistente di lavoratori che si fanno sentire, sia la proprietaria del prodotto complessivo del suo lavoro, che essa in parte distribuisce tra i suoi membri per il consumo, in parte impiega per il ricambio e l'aumento dei suoi mezzi di produzione e in parte immagazzina come fondo di riserva della produzione e del consumo.
Dopo quanto si è detto, siamo in grado di saper già in anticipo come il nostro proudhoniano risolverà la questione delle abitazioni. Da un lato abbiamo l'esigenza che ogni lavoratore abbia una sua propria abitazione, affinché non restiamo più a lungo al di sotto dei selvaggi. Dall'altro ci si assicura che il pagare due, tre, cinque o dieci volte il prezzo originario di una casa sotto forma di pigione, come avviene di fatto, poggia su un titolo giuridico e che questo titolo giuridico si trova in contraddizione con la "giustizia eterna". La soluzione è semplice: abbiamo il titolo giuridico e, in forza della giustizia eterna, dichiariamo che la pigione pagata è solo un acconto, per così dire, del prezzo dell'appartamento affittato. Aggiustare le proprie premesse in modo tale che vi sia contenuta la conclusione, è ovvio che non richiede maggiore abilità di quella che possiede qualsiasi ciarlatano per tirare dal sacco bell'è pronto il risultato preparato in precedenza e vantarsi della logica inconcussa di cui quello è il prodotto.
E così accade nel nostro caso. L'abolizione degli appartamenti d'affitto viene proclamata una necessità, nel senso che si postula la trasformazione di ciascun locatario in proprietario del suo appartamento. Come farlo? È semplicissimo:
"Si aboliscono gli appartamenti d'affitto (...) A colui che ne è stato proprietario finora, viene pagato il valore della sua casa fino all'ultimo centesimo. Finora, il pagamento della pigione rappresenta il tributo che il locatario paga all'eterno diritto del capitale; ebbene, dal giorno in cui viene proclamata l'abolizione delle case d'affitto, il locatario, invece, pagherà una somma esattamente calcolata quale rata annua dell'appartamento che è passato in sua proprietà (...) In tal modo la società (...) si trasforma in un complesso di proprietari di casa liberi e indipendenti".
Il proudhoniano vede un delitto contro la giustizia eterna nel fatto che il padrone di una casa possa ricavare, senza lavoro, una rendita fondiaria e un interesse dal capitale investito nella casa. Egli decreta che ciò deve cessare; e il capitale investito in abitazioni non deve fruttare più alcun interesse né, in quanto rappresenta l'area acquistata, nemmeno una rendita fondiaria. Abbiamo già visto che in tal modo non viene toccato affatto il modo di produzione capitalista, che è il fondamento della società odierna. Il cardine su cui ruota lo sfruttamento del lavoratore è la vendita della forza lavoro al capitalista e l'uso che il capitalista fa di questa sua compera, costringendo il lavoratore a produrre assai di più del valore pagatogli in cambio della forza lavoro. È questo negozio fra capitalista e lavoratore, che produce tutto il plusvalore, che poi, sotto forma di rendita fondiaria, profitti commerciali, interessi di capitale, tasse e via dicendo, si ripartisce fra le varie sottospecie di capitalisti e i loro servitori. Ed ora se ne viene il nostro proudhoniano e crede di far compiere un passo avanti proibendo ad un'unica sottospecie di capitalisti, e per di più di quei capitalisti che non comprano direttamente nessuna forza lavoro e quindi non fanno nemmeno produrre un plusvalore, di lucrare profitti o interessi! La massa del lavoro non pagato, di cui viene derubata la classe lavoratrice, rimarrebbe esattamente la stessa, anche se domani si togliesse ai padrone di casa la possibilità di farsi pagare per rendite diarie o interessi. Ma questo non impedisce al nostro proudhoniano di dichiarare:
"L'abolizione delle case d'affitto è quindi uno degli sforzi più fecondi e grandiosi che scaturiscono dal grembo dell'idea rivoluzionaria e deve diventare un'esigenza di primo ordine da parte della democrazia sociale".
È proprio la stessa ciarlataneria di mastro Proudhon, il cui schiamazzo è in rapporto inverso alla grandezza dell'uovo deposto.
Immaginatevi, ora, la bella condizione che si avrebbe qualora ogni lavoratore, piccolo borghese e borghese sarà costretto a diventare, con rate annuali, proprietario dapprima parziale e poi totale della sua abitazione! La cosa avrebbe ancora un possibile senso nei settori industriali dell'Inghilterra, dove sono una grande industria, ma piccole case per lavoratori, e dove ogni operaio coniugato abita in una cassetta tutta per sé. La piccola industria di Parigi, come pure della maggior parte delle grandi città continentali, invece, è integrata da grandi caseggiati, in cui abitano insieme venti, trenta famiglie. Il giorno del gran decreto liberatorio, che proclama l'abolizione delle case di affitto, Pietro lavora in una fabbrica di macchinari a Berlino. Trascorso un anno, è proprietario, bene che vada, dell'undicesima parte del suo appartamento monocamera ad un certo quinto piano presso la Porta d'Amburgo. Perde il suo lavoro e subito dopo si ritrova in un appartamento simile, con una splendida vista sul cortile, in un terzo piano presso il Pothof ad Hannover, dove, dopo un soggiorno di cinque mesi, ha acquistato 1/36 della proprietà proprio quando una qualche trappoleria lo sbalza a Monaco di Baviera e lo costringe ad accollarsi, con un soggiorno di undici mesi, esattamente 11/180 del diritto di proprietà su di uno stabile piuttosto buio, a piano terra, dietro la Ober-Angergasse. Ulteriori trasferimenti, come oggi capitano spesso agli operai, gli appioppano, inoltre: 7/360 di un non meno raccomandabile appartamento a St. Gallen, 23/180 di un altro a Leeds e 347/56223, calcolato esattamente perché non abbia nulla a ridire la "giustizia eterna", d'un terzo a Seraing. Che cosa resta in mano a Pietro, di tutte queste porzioni di appartamenti? Chi gliene dà il giusto valore? Dove mai andrà a pescare il proprietario i proprietari delle rimanenti porzioni di tutte quelle che sono state le sue abitazioni? E, anzitutto, come si regolano i rapporti di proprietà di un qualsiasi grande caseggiato, i cui vari piani comprendono diciamo venti appartamenti e che, trascorso il termine di riscatto è abolite le case d'affitto, appartiene forse trecento proprietari parziali, che sono dispersi in tutte le parti del mondo? Il nostro proudhoniano risponderà che sino a quel momento esisterà la Banca di cambio proudhoniana [10] che a qualsiasi momento pagherà a chiunque, per ogni prodotto di lavoro, il pieno ammontare di quest'ultimo, e quindi anche il pieno valore di ogni porzione d'appartamento. Ma la Banca di cambio proudhoniana, in primo luogo non c'entra affatto, perché non viene mai menzionata negli articoli sulla questione delle abitazioni; in secondo luogo essa poggia su uno strambo errore, per cui chiunque voglia vendere una data merce, dovrebbe trovare sempre e necessariamente chi gliela compri a pieno valore, e in terzo luogo, ancora prima che Proudhon la inventasse, ha già fatto più d'una volta fallimento di Inghilterra sotto il nome di Labour Exchange Bazaar [11].
Quella che il lavoratore debba acquistare la sua ubicazione, è un'idea che poggia interamente anch'essa su di una concezione di fondo reazionaria di Proudhon già messa in risalto, secondo cui le condizioni create dalla grande industria moderna sono delle aberrazioni patologiche e la società deve essere condotta a forza - cioè contro la corrente che essa segue da cento anni - ad uno stato di cose in cui l'antico e stabile lavoro manuale del singolo sia la regola, a uno stato che non è nient'altro che un'idealizzata restaurazione di quella piccola industria che si è estinta e che è tuttora in via di estinzione. Una volta i lavoratori siano ricaduti in questa stabile condizione, una volta che quindi sia felicemente domato il "vortice sociale", è naturale che il lavoratore possa tornare ad aver bisogno della proprietà di "casa e focolare", e la suesposta teoria di riscatto appare meno insulsa. Sennonché Proudhon dimentica che, per venire a capo di tutto questo, è necessario prima rimettere indietro di cento anni l'orologio della storia universale, e che facendolo, egli riconvertirebbe gli operai di oggi in anime di schiavi anguste, striscianti, vili come quelle dei loro trisnonni.
Quel tanto, però, di razionale, praticamente valorizzabile, della soluzione proudhoniana del problema della casa, oggi giorno viene già attuato, è questa attuazione deriva non dal "grembo dell'idea rivoluzionaria", bensì dalla stessa grande borghesia. Ascoltiamo cosa dice al riguardo un ottimo foglio spagnolo, La emancipacion di Madrid, del 16 marzo 1872:
"Per risolvere il problema delle abitazioni c'è un altro modo ancora, proposto da Proudhon, e che a prima vista affascina, ma ad un esame più attento svela tutta la sua totale debolezza. Proudhon propone di trasformare i locatari in acquirenti rateali, in modo che il canone d'affitto pagato annualmente sia computato come rata per il riscatto del valore dell'abitazione e, trascorso un certo tempo, il locatario diventi proprietario del suo appartamento. Questo sistema, che Proudhon ritiene quanto mai rivoluzionario, oggigiorno viene messo in opera in tutti i paesi da società di speculatori, che, aumentando il prezzo d'acquisto, si fanno pagare due o tre volte il valore delle case. Il signor Dollfus e altri costruttori della Francia nord-orientale hanno realizzato questo sistema, non solo per guadagnare denaro, ma per giunta con un secondo fine politico.
"I capi più avveduti della classe dominante hanno sempre rivolto i loro sforzi ad accrescere il numero di piccoli proprietari per creare un esercito contro il proletariato. Le rivoluzioni borghesi del secolo scorso suddivisero il grande latifondo della nobiltà e della chiesa in piccole proprietà parcellari, così come vogliono fare oggi i repubblicani spagnoli con il grande latifondo ancora esistente, e crearono in tal modo una classe di piccoli proprietari terrieri, che da allora in poi sono divenuti l'elemento più reazionario della società è l'ostacolo continuo al movimento rivoluzionario del proletariato. Riducendo le singole aliquote del debito pubblico, Napoleone III ha mirato a creare un'analoga classe nelle città, e, vendendo appartamenti a rate annuali ai loro operai, il Signor Dollfus e i suoi colleghi hanno cercato di estinguere in essi ogni spirito rivoluzionario, incatenandoli al tempo stesso, con una proprietà fondiaria, alla fabbrica in cui lavoravano un tempo: ecco quindi che il piano di Proudhon, anziché alleviare la condizione della classe lavoratrice, si è risolto in qualcosa che va direttamente contro di essa" [*1].
Come va risolta, allora, la questione delle abitazioni? Nella società moderna, esattamente come viene risolta ogni altra questione sociale: con il graduale pareggio economico di domanda e offerta; una soluzione, questa, che riproduce continuamente di nuovo la questione, e quindi non è una soluzione. Come la risolverebbe una rivoluzione sociale, è fatto che non solo dipende dalle circostanze del momento, ma è legato altresì a molte altre questioni ulteriori, tra le quali una delle precipue è l'abolizione dei contrasti fra città e campagna. Giacché non abbiamo da prospettare nessun sistema utopistico per l'instaurazione della società futura, sarebbe più che ozioso entrarvi in merito. È certo, però, che già fin d'ora nelle grandi città esistono edifici destinati ad abitazioni in numero sufficiente per rimediare, con un uso razionale delle medesime, ad ogni reale "penuria" d'abitazioni. Ciò, naturalmente, può avvenire solo mediante l'esproprio dei proprietari attuali, ovvero assegnando le loro case ai lavoratori senza tetto o oltremodo sovraffollati nelle loro abitazioni attuali; non appena il proletariato avrà conquistato il potere politico, un simile provvedimento, imposto dal pubblico bene, sarà facilmente attuato, al pari di altri espropri e di altre assegnazioni compiute dallo Stato medesimo.
Il nostro proudhoniano, però, non è ancora contento di quanto ha detto finora sulla questione delle abitazioni. Deve sollevarla da questo basso mondo nella sfera del socialismo superiore, affinché anche in essa si palesi come un essenziale "frammento della condizione sociale".
"Facciamo ora l'ipotesi che la produttività del capitale sia presa realmente di petto, come presto o tardi dovrà avvenire, ad esempio con una legge provvisoria che fissi l'interesse di tutti i capitali all'uno percento, beninteso con la tendenza ad avvicinare questa percentuale sempre più allo zero, cosicché alla fine non venga più pagato altro che il lavoro necessario alla conversione del capitale. Come tutti gli altri prodotti, naturalmente anche casa e abitazione sono compresi nel quadro di questa legge (...) Il proprietario stesso sarebbe il primo a dare una mano per la vendita, perché altrimenti la sua casa resterebbe inutilizzata e il capitale investito sarebbe semplicemente improduttivo".
Questo passo contiene uno dei principali articoli di fede del catechismo proudhoniano e offre un esempio patente della confusione che vi è imperante.
La "produttività del capitale" è un'assurdità che Proudhon mutua acriticamente dagli economisti borghesi. Costoro cominciano bensì anch'essi col principio che il lavoro è la fonte d'ogni ricchezza e la misura del valore d'ogni merce; ma devono altresì spiegare come avvenga che il capitalista, il quale impegni del capitale in un'impresa industriale o artigianale, alla fine si veda tornare indietro non solo il capitale investito, ma per giunta anche il profitto. Essi devono quindi impegolarsi in contraddizioni d'ogni genere e attribuire una certa quale produttività anche al capitale. Quanto profondamente Proudhon sia ancora prigioniero della mentalità borghese, nulla lo mostra meglio del suo far proprio questo modo di parlare della produttività del capitale. All'inizio abbiamo già visto che la cosiddetta "produttività del capitale" null'altro è se non una proprietà che gli inerisce (negli odierni rapporti sociali, una proprietà senza di cui non vi sarebbe capitale di sorta): quella di appropriarsi di lavoro non retribuito dei lavoratori salariati.
Ma Proudhon si differenzia dagli economisti borghesi per il fatto che egli non ammette questa "produttività del capitale", ma al contrario vi scopre una violazione della "giustizia eterna". E' tale violazione ad impedire che il lavoratore riceva il pieno provento del suo lavoro. La si deve dunque sopprimere. E come? Abbassando con leggi coattive il tasso di interesse. Allora, secondo nostro proudhoniano, il capitale cesserà di essere produttivo.
L'interesse del capitale liquido dato a prestito è solo una parte del profitto; il profitto, sia esso del capitale industriale, sia del commerciale, è solo una parte del plusvalore sottratto dalla classe capitalistica a quella lavoratrice sotto forma di lavoro non retribuito. Le leggi economiche che regolano il tasso d'interesse, sono così indipendenti da quelle che regolano la quota del plusvalore, come può aver luogo in generale fra leggi di una medesima forma di società. Per quanto riguarda la distribuzione di questo plusvalore tra i singoli capitalisti, è chiaro che per quelli industriali e commerciali, che hanno nei loro affari molto capitale anticipato da altri capitalisti, la quota del loro profitto deve aumentare nella stessa misura in cui - ferme restando tutte le altre condizioni - cade il tasso di interesse. Il ribasso e l'abolizione finale di quest'ultimo, dunque, non sarebbe affatto un vero "prendere di petto" la cosiddetta "produttività del capitale", ma solo un regolare diversamente la distribuzione del plusvalore sottratto e non pagato alla classe lavoratrice, e assicurerebbe un vantaggio non al lavoratore nei confronti del capitalista industriale, bensì al capitalista industriale nei confronti di colui che vive di rendita.
Dal punto di vista giuridico Proudhon spiega il tasso di interesse, come tutti i fatti economici, non in base alle condizioni della produzione sociale, bensì con le leggi dello Stato, che danno un'espressione universale a quelle condizioni. A tale punto di vista, a cui sfugge il sia pur minimo sospetto del nesso fra leggi statali e condizioni di produzione della società, le prime appaiono necessariamente come imposizioni puramente arbitrarie, che in qualsiasi momento si possono sostituire benissimo con il loro opposto diametrale. Nulla di più facile, per Proudhon (non appena ne abbia il potere) che promulgare un decreto che riduca il tasso di interesse all'uno percento. Naturalmente, se tutte le altre circostanze sociali restano quelle di prima, il decreto proudhoniano rimarrà sulla carta. Il tasso d'interesse continuerà ad essere regolato come prima, secondo le leggi economiche a cui obbedisce oggi, nonostante tutti i decreti; coloro che hanno credito continueranno a percepire, secondo i casi, il 2, il 3, il 4 e più percento, né più né meno come prima. L'unica differenza sarà che quanti vivono di rendita saranno molto guardinghi e anticiperanno denaro solo a quelle persone da cui non c'è d'attendersi un processo. Ecco quindi che codesto gran disegno di togliere al capitale la sua "produttività" è vecchio quanto il mondo, vecchio come le leggi sull'usura, che miravano unicamente a ridurre il tasso d'interesse, e che ora sono state abolite ovunque, poiché in pratica erano violate o aggirate, e lo Stato ha dovuto confessare la sua impotenza di fronte alle leggi della produzione sociale. E il reintrodurre queste leggi medievali, inattuabili, dovrebbe significare un "prendere di petto la produttività del capitale"? È evidente: quanto più lo si studia, tanto più il proudhonismo appare reazionario.
Quando, poi, il tasso d'interesse sarà ridotto in tal modo a zero, e quindi sarà abolito l'interesse del capitale, allora, "non sarà pagato più nient'altro che il lavoro necessario alla conversione del capitale". Ciò vuol dire che l'abolizione del tasso d'interesse equivale a quella del profitto effettivo del plusvalore. Ma, qualora fosse possibile abolire il tasso con un decreto, quale ne sarebbe la conseguenza? Che la classe di coloro che vivono di rendita non avrebbe più alcun motivo di mettere a frutto il proprio capitale sotto forma di prestito, ma lo investirebbe per proprio conto o in industrie o in società per azioni. La massa del plusvalore sottratta alla classe lavoratrice da quella capitalista resterebbe la medesima; muterebbe solo la sua distribuzione, e anche questa non in misura rilevante.
In realtà il nostro proudhoniano non tiene conto che già attualmente, nell'acquisto di merci che si ha nella società borghese, in media non si paga niente di più del "lavoro necessario alla riconversione del capitale" (per intenderci, alla produzione di determinate merci). Il lavoro è la misura del valore di tutte le merci, e nella società odierna - a prescindere dalle fluttuazioni di mercato - è semplicemente impossibile che nella media complessiva si paghi per le merci più del lavoro necessario a produrle. No, no caro proudhoniano, l'intoppo sta in ben altro: sta nel fatto che il lavoro necessario alla riconversione del capitale (per usare il Suo confuso modo di esprimersi) non è affatto pagato a pieno! Come ciò avvenga, Lei lo può leggere in Marx (Il Capitale, libro I, sezione II)
E non è tutto. Qualora fosse abolito l'interesse del capitale, sarebbe abolito perciò stesso anche il canone d'affitto. Infatti, "come tutti gli altri prodotti, anche casa e abitazione sono naturalmente comprese nel quadro di questa legge". Questo è perfettamente in linea con lo spirito di quel vecchio maggiore che fece chiamare una delle sue reclute e l'apostrofò: "Dica un po', sento dire che Lei è dottore; venga allora di tanto in tanto da me; quando si ha moglie e sette figli, si ha sempre qualcosa da rattoppare".
Recluta: "Mi scusi, signor Maggiore, io sono dottore in filosofia"
Maggiore: "Per me non fa differenza: un vasellina è sempre una vasellina" [12]
Anche per il nostro proudhoniano le cose vanno così; canone d'affitto e interesse di capitale sono per lui la stessa cosa: interesse è interesse [13], vasellina è vasellina. - Si è visto sopra che il canone di locazione, vulgo affitto, si compone di: (1) una quota di rendita fondiaria; (2) una quota d'interesse sul capitale investito nella costruzione, ivi incluso il profitto dell'appaltatore; (3) una quota per le spese di assicurazione e riparazione; (4) una quota che ammortizza il capitale investito nella costruzione, ivi incluso il profitto, in rate annuali, a misura che la casa gradualmente deperisce.
Ed ora dovrà essersi fatto chiaro anche ai più ciechi che "il proprietario stesso sarebbe il primo a dare una mano per la vendita, perché altrimenti la sua casa resterebbe inutilizzata e il capitale investito sarebbe semplicemente improduttivo". Naturalmente. Se si abolisce l'interesse sul capitale anticipato, nessun proprietario potrà più ricevere nemmeno un centesimo di pigione per la sua casa, perché anzitutto invece di "pigione" si può dire anche "canone", e poi perché il canone d'affitto include una parte che è vero e proprio interesse di capitale. La vasellina resta vasellina. Anche qualora le leggi sull'usura, sia pure col solo aggirarle, si potessero rendere inoperanti sul comune interesse di capitale, mai e poi mai esse scalfirebbero lontanamente il principio del fitto d'abitazione. Solo a Proudhon fu riservato immaginare che la sua nuova legge sull'usura potesse servire indiscutibilmente a regolare, e gradualmente abolire, non solo il semplice interesse di capitale, ma altresì il complicato interesse incluso nel fitto di locazione. Perché, allora, si dovrebbe continuare a comprare a caro prezzo dal proprietario la casa "semplicemente priva di utile", e come mai, a certe condizioni, il padrone non arrivi a sborsare denaro per liberarsi di una casa "semplicemente priva di utile", per non doversi più assumere alcuna spesa di riparazione, sono interrogativi sui quali ci si lascia all'oscuro.
Dopo questa sua superba prestazione sul campo del socialismo (mastro Proudhon lo denominò supersocialismo), il nostro proudhoniano si ritiene autorizzato a volare un po' più alto.
Ora non c'è più che da trarre alcune conclusioni, che facciano piovere da tutte le parti piena luce sul nostro così importante argomento.
E quali sono queste conclusioni? Cose che discendono da quanto si è premesso tanto poco quanto la svalutazione delle case d'abitazione dall'abolizione del tasso d'interesse, cose che, spogliate delle locuzioni pompose e solenni di cui le addobba il nostro autore, non significano altro che quanto segue. Per il migliore disbrigo del negozio di riscatto delle case e pigione sono auspicabili: (1) una precisa statistica sulla materia in questione; (2) una buona polizia sanitaria e (3) cooperative di muratori capaci di assumersi imprese edilizie per costruire nuove abitazioni. Tutte cose belle e buone assai, ma che, ad onta di tutte le fumose frasette ciarlatanesche, non recano affatto "piena luce" nel tenebrore e nella confusione del pensiero proudhoniano.
Chi ha compiuto sì grandi cose, ha ben diritto di rivolgere un serio monito ai lavoratori tedeschi:
"Queste e consimili questioni riteniamo che siano ben degne di attenzione da parte della democrazia sociale (...) Si possa cercare di venire in chiaro, così come si è fatto sulla questione delle case, anche su altre egualmente poderose, quali il credito, il debito pubblico, il debito privato, le imposte" e via dicendo.
Ecco dunque che il nostro proudhoniano fa sperare tutta una serie di articoli su "questioni consimili", e se egli le tratterà tutte nello stesso modo esauriente con cui ha trattato il "così importante argomento" attualmente in questione, il Volksstaat è provvisto di manoscritti per un anno. Nel frattempo possiamo prevenire quel che ci si dirà e che si risolve tutto in quanto è stato già detto: viene abolito l'interesse del capitale, viene a cadere l'interesse da pagare sul debito pubblico e su quello privato, il credito diviene gratuito ecc. La stessa parola magica viene applicata a qualsivoglia argomento, e in ogni singolo caso si approda con logica inesorabile allo stesso stupefacente risultato: che, una volta abolito l'interesse del capitale, non si avrà più da pagare alcun interesse per il denaro incassato.
Del resto sono belle davvero le questioni con cui ci minaccia il nostro proudhonista: credito! Di quale credito ha bisogno l'operaio, se non di quello da una settimana all'altra e di quello del monte dei pegni? Che gli sia dato gratuitamente o a interesse (anche a quello da strozzino che viene applicato al monte di pietà), a quanto ammonta la diffidenza per lui? E, se preso in generale, egli ne traesse un vantaggio e quindi i costi di produzione della forza lavoro andassero più a buon mercato, non dovrebbe cadere il prezzo della forza lavoro? - Ma per i borghesi, e specialmente per i piccolo borghesi, per i quali il credito è una faccenda importante, sarebbe una bella cosa poter ottenere credito ad ogni momento e senza dover pagare interessi. - Debito pubblico! La classe lavoratrice sa di non averlo contratto essa, e quando arriverà al potere, ne lascerà il pagamento a coloro che l'hanno incassato. - Debiti privati! -Vedi credito. - "Imposte"! Cose che interessano molto la borghesia, e molto, molto poco, i lavoratori: quel che il lavoratore paga in imposte, a lungo andare viene inglobato nei costi di produzione della forza lavoro, e quindi devono essere i capitalisti a sborsarne il risarcimento. Tutti questi argomenti, che ci si vuole proporre come questioni della massima importanza per la classe lavoratrice, in realtà presentano un interesse di portata essenziale solo per i borghesi o, meglio ancora, per i piccolo borghesi, e a dispetto di Proudhon, noi affermiamo che la classe lavoratrice non ha alcuna vocazione a tutelare gli interessi di altre classi.
Della grande questione che interessa i lavoratori, del rapporto fra capitalista e operaio salariato, un certo punto, di come avvenga che il capitalista possa arricchirsi sul lavoro dei suoi operai, di tutto ciò il nostro proudhonista non dice una parola. Il suo maestro e donno, in verità, se n'è occupato, ma non vi ha recato la minima luce, ed anche nei suoi ultimi scritti, in sostanza, non è andato oltre quella sua Philosophie de la misère (filosofia della miseria), di cui, già nel 1847, Marx ha rilevato la totale nullità.
È già abbastanza grave che da venticinque anni a questa parte i lavoratori di lingua neolatina non abbiano per il loro intelletto quasi nessuno altro nutrimento socialista che gli scritti di codesto "socialista del secondo impero"; sarebbe un guaio in più se ora la teoria proudhoniana dovesse inondare anche la Germania. Eppure si è provveduto a tanto. Le concezioni teoriche dei lavoratori tedeschi sono cinquant'anni in anticipo di quelle proudhoniane, e basterà prendere ad esempio questa unica questione delle abitazioni per essere dispensati da ulteriori fatiche al riguardo.
7. Con la Miseria della filosofia di Marx.
8. L'insurrezione del giugno 1848, "la prima grande battaglia fra proletariato e borghesia" (Engels) fu compiuta dagli operai di Parigi dal 24 al 26 giugno e fu soffocata nel sangue dal ministro della guerra Cavaignac.
9. La leggenda biblica della fuga degli ebrei dalla schiavitù egiziana riferisce che, per le difficoltà del cammino e per la fame, i pusillanimi fra di essi desideravano le pentole di carne che erano state garantite loro in Egitto, cioè pensavano con rimpianto ai giorni che avevano trascorsi nella mancanza di libertà, ma per lo meno saziandosi.
10. Proudhon cercò di dar vita alla sua "Banca di cambio" durante la rivoluzione del 1848-49. Il 3 gennaio 1849 fondò a Parigi la Banque du peuple (Banca del popolo), che esistette per circa due mesi e solo sulla carta. Come dice Marx, essa fallì ancora prima d'aver cominciato a funzionare regolarmente.
11. Il Labour Exchange Bazaar, o meglio gli Equitable Labour Bazaar or Offices (Bazar per l'equo scambio di prodotti del lavoro) furono creati in parecchie città d'Inghilterra da società cooperative operaie. Il primo fu fondato da Robert Owen a Londra nel settembre 1832 ed esistette fino alla metà del 1834. In queste cooperative operaie i prodotti del lavoro venivano scambiati per mezzo di una carta moneta operaia, la cui entità era costituita dall'ora di lavoro. Questo tentativo utopistico di organizzare uno scambio di merci senza denaro nelle perduranti condizioni dell'economia capitalistica di mercato fu condannato ad un rapido fallimento.
*1. Come questa soluzione del problema della casa si attui spontaneamente incatenando i lavoratori ad un loro proprio "focolare" nei pressi di città americane già grandi o in via d'espansione, ci dà notizia il seguente passo di una lettera scritta da Indianapolis il 28 novembre 1886 da Eleonor Marx-Aveling: "a Kansas City, o meglio nei pressi, abbiamo visto delle miserabili capannucce di legno di circa tre camere, nel cuore della foresta. Il terreno era costato 600 dollari ed era appena sufficiente ad accogliere la casetta. Questa era costata a sua volta più di 600 dollari: in totale, 4800 marchi per una casuccia miserabile, ad un'ora dalla città, in un deserto fangoso. I lavoratori devono quindi accollarsi pesanti debiti ipotecari per non ricever altro, poi, che abitazioni come queste, e sono, ora più che mai, schiavi del padrone che dà loro da mangiare. Sono incatenati alle loro case, non possono andare via e devono far buon viso per forza a tutte le condizioni di lavoro che si offrono loro". [E 1887]
12. In tedesco "Pflasterkastchen", letteralmente "cassettina dei cerotti", nel gergo di caserma indicava scherzosamente il militare di Sanità. "Vasellina" ne è stato, ancora fino a pochi anni addietro, l'equivalente italiano. Si intenda, in questa barzelletta, che nella sua ignoranza il Maggiore non sappia distinguere un "dottore" in medicina da un "dottore" in qualsiasi altra materia.
13. Per comprendere appieno questo passo, e altri in cui ricorre il medesimo problema, va tenuto presente che in tedesco "canone d'affitto" (mietzins) e "interesse di capitale" (kapitalzins) sono parole composte entrambe dallo stesso vocabolo "zins", che significa tanto "canone, tassa, fitto" ecc, quanto "interesse".
Seconda Parte: In che modo il problema della casa viene risolto dalla borghesia
Indice de La Questione delle Abitazioni
Ultima modifica 24.09.2000