Miseria della Filosofia

Capitolo secondo

La metafisica dell'economia politica

 

1. Il metodo

Eccoci in piena Germania! Dovremo dunque parlare di metafisica, pur trattando di economia politica. E, anche in questo, non facciamo che seguire le "contraddizioni" di Proudhon. Poco fa egli ci costringeva a parlare inglese, a diventare, in certo qual modo, inglesi. Ora la scena cambia. Proudhon ci trasporta nella nostra cara patria e ci costringe a riprendere la nostra qualità di tedeschi, nostro malgrado.

Se l'inglese trasforma gli uomini in cappelli, il tedesco trasforma i cappelli in idee. L'inglese è Ricardo, ricco banchiere e grande economista; il tedesco è Hegel, semplice professore di filosofia all'Università di Berlino.

Luigi XV, ultimo re assoluto, che rappresentava la decadenza della regalità francese, aveva un medico personale che era contemporaneamente il primo economista di Francia. Questo medico, questo economista, rappresentava il trionfo imminente e sicuro della borghesia francese. Il dottor Quesnay ha fatto dell'economia politica una scienza; e l'ha riassunta nel suo famoso "Tableau économique". Oltre ai mille e uno commenti che sono apparsi su questo Tableau, noi ne possediamo uno del dottore medesimo. È la "Analyse du tableau économique", seguita da "sept observations importantes".

Proudhon è un altro dottor Quesnay. È il Quesnay della metafisica dell'economia politica.

Ora la metafisica, la filosofia tutta intera, si riassume, secondo Hegel, nel metodo. Dovremo dunque tentare di chiarire il metodo di Proudhon che è per lo meno altrettanto oscuro quanto il "Tableau économique". Per questo faremo sette osservazioni più o meno importanti. Se il dottor Proudhon non è contento delle nostre osservazioni, ebbene si farà abate Baudeau, e fornirà lui stesso la "spiegazione del metodo economico-metafisico" [1]

Prima osservazione

"Noi non facciamo una storia secondo l'ordine dei tempi, ma secondo la successione delle idee. Le fasi o categorie economiche si manifestano talvolta contemporaneamente, talvolta no.... Ciò nondimeno, le teorie economiche hanno la loro successione logica e una loro serie nell'intelletto: è questo l'ordine che noi ci lusinghiamo di avere scoperto." (Proudhon, vol. I, p. [ 145-146].)

Decisamente Proudhon ha voluto metter paura ai francesi, gettando loro in faccia delle frasi quasi hegeliane.

Noi dobbiamo dunque fare i conti con due uomini, prima con Proudhon, poi con Hegel. In che si distingue Proudhon dagli altri economisti? E Hegel, quale parte sostiene nell'economia politica di Proudhon?

Gli economisti esprimono i rapporti della produzione borghese, la divisione del lavoro, il credito, la moneta, ecc., come categorie fisse, immutabili, eterne. Proudhon, che ha davanti a sé queste categorie già formate, ce ne vuole spiegare l'atto di formazione; ci vuole spiegare la genesi di queste categorie, di questi princìpi, leggi, idee, pensieri.

Gli economisti ci spiegano come avviene la produzione entro questi rapporti dati, ma ciò che non ci spiegano è come questi rapporti si producano, vale a dire non ci spiegano il movimento storico che li ha generati. Proudhon, avendo assunto questi rapporti come dei princìpi, delle categorie, dei pensieri astratti, non ha che da mettere ordine in questi pensieri; i quali si trovano già elencati in ordine alfabetico alla fine di ogni trattato di economia politica.

I materiali degli economisti sono la vita attiva e fattiva degli uomini; i materiali di Proudhon sono i dogmi degli economisti. Ma dal momento che non si persegue il movimento storico dei rapporti di produzione, di cui le categorie non sono che l'espressione teorica, dal momento che si vuol vedere in queste categorie solo idee, pensieri spontanei, indipendenti dai rapporti reali, si è ben costretti ad assegnare come origine di questi pensieri il movimento della ragione pura. Come la ragione pura, eterna, impersonale genera questi pensieri? Quali procedimenti segue essa per produrli?

Se in fatto di hegelismo fossimo intrepidi come Proudhon, diremmo: essa si distingue in se stessa da se stessa. Che mai significa? Dal momento che la ragione impersonale non ha al di fuori di sé né terreno sul quale possa poggiare, né oggetto al quale possa opporsi, né soggetto col quale comporsi, si vede costretta a fare il salto mortale, ponendosi, opponendosi, e componendosi: posizione, opposizione, composizione. Parlando in greco, abbiamo la tesi, l'antitesi e la sintesi. Per coloro poi che non conoscono il linguaggio hegeliano pronunceremo la formula sacramentale: affermazione, negazione e negazione della negazione. Ecco che cosa significa parlare. Certo, questo non è ebraico, con permesso di Proudhon; ma è semplicemente il linguaggio di questa ragione tanto pura da esser separata dall'individuo. Invece dell'individuo ordinario, con la sua maniera ordinaria di parlare e di pensare, non ci resta che questa maniera ordinaria in sé, senza più l'individuo.

C'è forse da meravigliarsi se ogni cosa, in ultima astrazione, poiché di astrazione si tratta e non di analisi, si presenta come categoria logica? C'è da meravigliarsi forse se, eliminando a poco a poco tutto ciò che costituisce l'individualità di una cosa, facendo astrazione dai materiali di cui essa si compone, dalla forma che la distingue, voi arrivate a non avere più che un corpo; se, facendo astrazione dai contorni di questo corpo, ben presto, non avrete più che uno spazio; e se facendo infine astrazione dalle dimensioni di questo spazio, finirete per non avere più che la quantità in sé, la categoria logica? A forza di astrarre in questo modo, da ogni soggetto, da tutti i pretesi accidenti, animati o inanimati, uomini o cose, abbiamo certo ragione di dire che, in ultima astrazione, si arriva ad avere come sostanza soltanto le categorie logiche. Così i metafisici, i quali, facendo queste astrazioni, si immaginano di far dell'analisi, e che, a misura che si staccano sempre più dagli oggetti, si immaginano di avvicinarsi a loro fino a penetrarli, questi metafisici hanno a loro volta ragione di dire che le cose di quaggiù sono dei ricami, di cui le categorie logiche formano l'ordito. Ecco ciò che distingue il filosofo dal cristiano. Il cristiano conosce una sola incarnazione del Logos [*1], a dispetto della logica; il filosofo non la finisce più con le incarnazioni. Che tutto ciò che esiste, che tutto ciò che vive sulla terra e nell'acqua possa, a forza di astrazione, essere ridotto a una categoria logica; che a questo modo l'intero mondo reale possa dissolversi nel mondo delle astrazioni, nel mondo delle categorie logiche, è forse sorprendente?

Tutto ciò che esiste, tutto ciò che vive sulla terra e nell'acqua, non esiste, non vive che in grazia di un qualche movimento. Così il movimento della storia produce i rapporti sociali, il movimento industriale ci dà i prodotti industriali, ecc. pag 67

Nello stesso modo in cui, a forza di astrazione, abbiamo trasformato ogni cosa in categoria logica, così è sufficiente fare astrazione da ogni carattere distintivo dei differenti movimenti per arrivare al movimento allo stato astratto, al movimento puramente formale, alla formula puramente logica del movimento. Se nelle categorie logiche si trova l'essenza di ogni cosa, si ritiene di trovare nella formula logica del movimento il metodo assoluto che non solo spiega ogni cosa, ma che abbraccia anche il movimento delle cose. Si tratta di quel metodo assoluto di cui Hegel parla nei termini seguenti:

"Il metodo è la forza assoluta, unica, suprema, infinita, alla quale nessun oggetto può resistere; è la tendenza della ragione a ritrovarsi, a riconoscersi in ogni cosa." ("Logica", vol. III [pp. 330-331].)

Essendo ogni cosa ridotta a una categoria logica, ed ogni movimento, ogni atto di produzione, al metodo, ne segue naturalmente che ogni complesso di prodotti e di produzione, di oggetti e di movimento, si riduce ad una metafisica applicata. Ciò che Hegel ha fatto per la religione, il diritto, ecc., Proudhon tenta di farlo per l'economia politica.

E allora che cosa è dunque questo metodo assoluto? L'astrazione del movimento. Che cosa è l'astrazione del movimento? Il movimento in astratto. La formula puramente logica del movimento, ovvero il movimento della ragione pura. In che consiste il movimento della ragione pura? Nel porsi, opporsi, comporsi; nel formularsi come tesi, antitesi, sintesi; ovvero nell'affermarsi, negarsi, e negare la propria negazione.

Come fa la ragione ad affermarsi, a porsi in categoria determinata? È affare, questo, della ragione stessa e dei suoi apologisti.

Ma, una volta che essa sia pervenuta a porsi come tesi, questa tesi, opponendosi a se stessa, si sdoppia in due pensieri contraddittori, il positivo e il negativo, il sì e il no. La lotta di questi due elementi antagonistici, racchiusi nella antitesi, costituisce il movimento dialettico. Il sì diventa no, il no diventa sì, il sì diventa contemporaneamente sì e no, il no diventa contemporaneamente no e sì: quindi i contrari si equilibrano, si neutralizzano, si annullano. La fusione di questi due pensieri contraddittori costituisce un pensiero nuovo che ne è la sintesi. Questo pensiero nuovo si svolge ancora in due pensieri contraddittori che si fondono a loro volta in una nuova sintesi. Da questo travaglio generativo nasce un gruppo di pensieri. Questo gruppo di pensieri segue il medesimo movimento dialettico di una categoria semplice, ed ha per antitesi un gruppo contraddittorio. Da questi due gruppi di pensieri nasce un nuovo gruppo di pensieri che ne è la sintesi.

Come dal movimento dialettico delle categorie semplici nasce il gruppo, così dal movimento dialettico dei gruppi nasce la serie e dal movimento dialettico delle serie nasce l'intero sistema.

Applicate questo metodo alle categorie dell'economia politica, ed avrete la logica e la metafisica dell'economia politica, o, in altri termini, avrete le categorie economiche, conosciute da tutti, tradotte in un linguaggio poco noto, che conferisce loro la parvenza di essere di fresco sbocciate in una testa che è ragione pura: a tal punto queste categorie sembrano generarsi le une dalle altre, concatenarsi e intersecarsi le une nelle altre, attraverso il solo lavorio del movimento dialettico. Non si spaventi il lettore di questa metafisica con tutta la sua impalcatura di categorie, di gruppi, di serie e di sistemi. Proudhon, ad onta del suo affannarsi a scalare le altezze del sistema delle contraddizioni, non va mai al di sopra dei due primi gradini della tesi e della antitesi semplici, e anche su questi si è innalzato solo due volte, una delle quali è caduto a gambe all'aria.

Comunque, fino a questo momento, non abbiamo esposto che la dialettica di Hegel. Vedremo in seguito come Proudhon sia riuscito a ridurla alle più meschine proporzioni. Così, per Hegel, tutto ciò che è avvenuto e che avviene tuttora è, né più né meno, quello che avviene nel suo pensiero. Così la filosofia della storia non è più che la storia della filosofia, e della filosofia sua personale. Non c'è più "la storia secondo l'ordine dei tempi"; c'è solo la "successione delle idee nell'intelletto". Egli crede di costruire il mondo col movimento del pensiero, mentre non fa che ricostruire sistematicamente, e classificare secondo il metodo assoluto, i pensieri che sono nella testa di tutti.

Seconda osservazione

Le categorie economiche non sono che le espressioni teoriche, le astrazioni dei rapporti sociali di produzione. Proudhon, capovolgendo le cose da vero filosofo, vede nei rapporti reali soltanto le incarnazioni di quei princìpi, di quelle categorie che sonnecchiavano, - ci dice ancora Proudhon, il filosofo, - in seno alla "ragione impersonale dell'umanità".

Proudhon, l'economista, ha compreso perfettamente che gli uomini fabbricano il panno, la tela, la seta entro determinati rapporti di produzione. Ma non ha compreso che questi rapporti sociali determinati sono prodotti dagli uomini esattamente come lo sono la tela, il lino, ecc. I rapporti sociali sono intimamente connessi alle forze produttive. Impadronendosi di nuove forze produttive, gli uomini cambiano il loro modo di produzione e, cambiando il modo di produzione, la maniera di guadagnarsi la vita, cambiano tutti i loro rapporti sociali. Il mulino a braccia vi darà la società col signore feudale, e il mulino a vapore la società col capitalista industriale.

Quegli stessi uomini che danno ai rapporti sociali una forma corrispondente, alla loro produttività materiale [*2], danno anche ai princìpi, alle idee, alle categorie, una forma corrispondente ai loro rapporti sociali.

Così queste idee, queste categorie sono tanto poco eterne quanto i rapporti che esse esprimono. Sono prodotti storici e transitori.

Vi è un continuo movimento di accrescimento delle forze produttive, di distruzione di rapporti sociali, di formazione d'idee; di immobile non vi è che l'astrazione dal movimento: "mors immortalis" [2].

Terza osservazione

I rapporti di produzione di ogni società formano un tutto. Proudhon considera i rapporti economici come altrettante fasi sociali, che si generano a vicenda, che risultano l'una dall'altra come l'antitesi dalla tesi, e che realizzano, nella loro successione logica, la ragione impersonale dell'umanità.

Il solo inconveniente di questo metodo è che Proudhon, quando vuole esaminare a parte una sola di queste fasi, non può spiegarla senza risalire agli altri rapporti sociali, rapporti che, tuttavia, egli non ha ancora fatto generare dal suo movimento dialettico. Quando poi Proudhon, per mezzo della ragione pura, passa alla generazione delle altre fasi, si comporta come se si trattasse di neonati, e dimentica che esse hanno la stessa età della prima.

Così, per giungere alla costituzione del valore, che per lui è la base di tutte le evoluzioni economiche, egli non poteva trascurare la divisione del lavoro, la concorrenza, ecc. Tuttavia nella serie, nell'intelletto di Proudhon, nella successione logica, questi rapporti non esistevano ancora.

Costruendo con le categorie dell'economia politica l'edificio di un sistema ideologico, si sconnettono le membra del sistema sociale; si mutano i vari elementi della società in altrettante società a parte, che si succedono l'una all'altra. Come, in effetti, la sola formula logica del movimento, della successione, del tempo potrebbe spiegare il corpo della società, nella quale, appunto, tutti i rapporti coesistono simultaneamente, e si sostengono gli uni con gli altri?

Quarta osservazione

Vediamo ora a quali modificazioni Proudhon sottopone la dialettica di Hegel applicandola all'economia politica.

Per lui, per Proudhon, ogni categoria economica ha due lati, l'uno buono, l'altro cattivo.

Egli si prospetta le categorie come il piccolo borghese si prospetta i grandi uomini della storia: Napoleone è un grand'uomo; ha fatto molto di bene, ma ha fatto anche molto di male.

Il lato buono e il lato cattivo, il vantaggio e lo svantaggio presi assieme formano, per Proudhon, la contraddizione in ogni categoria economica.

Tutto il problema da risolvere consiste nel conservare, il lato buono, eliminando quello cattivo.

La schiavitù è una categoria economica come un'altra, dunque anch'essa ha i suoi due lati. Lasciamo stare il lato cattivo e parliamo del lato buono della schiavitù; ben inteso, non si tratta qui che della schiavitù diretta, quella dei negri a Surinam, in Brasile, nei territori meridionali dell'America del Nord. La schiavitù diretta è il cardine dell'industria borghese, proprio come le macchine, il credito, ecc. Senza schiavitù niente cotone, senza cotone niente industria moderna. Solo la schiavitù ha conferito alle colonie il loro valore, le colonie hanno creato il commercio mondiale, e il commercio mondiale è la condizione della grande industria. Perciò la schiavitù diventa una categoria economica della più alta importanza.

Senza la schiavitù, l'America del Nord, il paese oggi più progredito, si trasformerebbe in paese patriarcale. Cancellate l'America del Nord dalla carta delle nazioni, e avrete l'anarchia, la decadenza completa del commercio e della civiltà moderna. Fate scomparire la schiavitù, ed avrete cancellato l'America dalla carta delle nazioni [*3].

Così la schiavitù, essendo una categoria economica, è sempre stata nelle istituzioni dei popoli. I popoli moderni non hanno saputo fare altro che mascherare la schiavitù nel loro proprio paese e l'hanno imposta senza maschera al nuovo mondo.

A che ricorrerà Proudhon per salvare la schiavitù? Egli porrà il problema: conservare il lato buono di questa categoria economica, eliminare il cattivo.

Hegel non ha problemi da porre: non possiede che la dialettica. Proudhon, della dialettica di Hegel, non possiede che il linguaggio. Il movimento dialettico proprio di Proudhon è la distinzione dogmatica del bene e del male.

Prendiamo per un istante il medesimo Proudhon come categoria. Esaminiamo il suo lato buono e il suo lato cattivo, i suoi vantaggi e i suoi inconvenienti.

Se egli ha su Hegel il vantaggio di porre dei problemi, che si riserva di risolvere per il bene dell'umanità, ha però inconveniente di essere affetto da sterilità quando si tratta di dar concepimento, attraverso il travaglio della generazione dialettica, ad una categoria nuova. Ciò che costituisce il movimento dialettico è la coesistenza dei due lati contraddittori, la loro lotta e il loro passaggio in una nuova categoria. Basta porsi il problema di eliminare il lato cattivo, per liquidare di colpo il movimento dialettico. Al posto della categoria, che si pone e si oppone a se stessa per la sua natura contraddittoria, sta Proudhon che si infervora, si dibatte, si dimena fra i due lati della categoria.

Preso così in un ginepraio donde è difficile uscire con mezzi leciti, Proudhon spicca un vero e proprio salto che lo trasporta di colpo in una nuova categoria. È allora che al suo sguardo stupefatto si svela la serie nell'intelletto.

Egli afferra la prima categoria che gli capita e le attribuisce arbitrariamente la proprietà di rimediare agli inconvenienti della categoria che vuole purificare. Così le tasse rimediano - a sentire Proudhon - agli inconvenienti del monopolio; la bilancia commerciale agli inconvenienti delle tasse; la proprietà fondiaria agli inconvenienti del credito.

E prendendo in tal modo successivamente le categorie economiche una per una, e facendo dell'una l'antidoto dell'altra, Proudhon giunge a comporre con questo miscuglio di contraddizioni e di antidoti alle contraddizioni due volumi di contraddizioni che egli - ben a ragione - intitola: "Sistema delle contraddizioni economiche".

Quinta osservazione

"Nella ragione assoluta, tutte queste idee... sono egualmente semplici e generali... Infatti noi non perveniamo alla scienza che attraverso una sorta di impalcatura delle nostre idee. Ma la verità in sé è indipendente da queste figure dialettiche e affrancata dalle combinazioni del nostro spirito." (Proudhon, vol. II, p. 97.)

Ecco che, di punto in bianco, per una specie di svolta improvvisa, di cui ora conosciamo il segreto, la metafisica dell'economia politica è divenuta un'illusione! Mai Proudhon l'ha meglio azzeccata. Certo, dal momento che il processo del movimento dialettico si riduce al semplice procedimento di opporre il bene al male, di porre problemi che tendono all'eliminazione del male e a fornire una categoria come antidoto all'altra, le categorie non hanno più spontaneità; l'idea "non funziona più"; non ha più vita in sé. Non si pone, né si decompone più in categorie. La successione delle categorie è divenuta una sorta di impalcatura. La dialettica non è più il movimento della ragione assoluta. Non vi è più dialettica; tutt'al più c'è solo un po' di morale allo stato puro.

Quando Proudhon parlava della serie nell'intelletto, della successione logica delle categorie, dichiarava positivamente di non voler fornire una storia secondo l'ordine dei tempi, ossia, secondo Proudhon, la successione storica nella quale le categorie si sono manifestate. Tutto, allora, secondo lui avveniva nell'etere puro della ragione. Tutto doveva derivare da questo etere per mezzo della dialettica. Ora che si tratta di mettere in pratica questa dialettica, la ragione gli vien meno. La dialettica di Proudhon prende in giro la dialettica di Hegel, ed ecco che Proudhon ci deve dire che l'ordine nel quale egli espone le categorie economiche non è più l'ordine nel quale esse si generano l'una dall'altra. Le evoluzioni economiche non sono più le evoluzioni della ragione stessa.

Che cosa ci dà allora Proudhon? La storia reale, ossia, secondo l'intendimento di Proudhon, la successione secondo la quale le categorie si sono manifestate nell'ordine dei tempi? No. La storia quale si svolge nell'idea stessa? Meno ancora. E allora, né la storia profana delle categorie, né la loro storia sacra! Quale è dunque la storia che egli ci dà? La storia delle sue proprie, private contraddizioni. Vediamo come queste procedano e come si trascinino dietro Proudhon.

Prima di intraprendere questo esame, che dà luogo alla sesta osservazione importante, abbiamo ancora un'osservazione meno importante da fare.

Ammettiamo con Proudhon che la storia reale, la storia secondo l'ordine dei tempi, sia la successione storica in cui le idee, le categorie, i princìpi si sono manifestati.

Ogni principio ha avuto il suo secolo, per manifestarsi. Il principio d'autorità, per esempio, ha avuto l'XI secolo, mentre il principio dell'individualismo ha avuto il XVIII secolo. Di conseguenza in conseguenza, era dunque il secolo che apparteneva al principio e non il principio al secolo. In altri termini era il principio a fare la storia e non la storia a fare il principio. Quando infine, per salvare sia i princìpi che la storia, ci si domanda perché il tale principio si sia manifestato nell'XI o nel XVIII secolo piuttosto che nel tal altro, ci si trova necessariamente costretti a esaminare minuziosamente quali fossero gli uomini dell'XI secolo, quali quelli del XVIII, quali fossero le rispettive necessità, le loro forze produttive, il loro modo di produzione, le materie prime della loro produzione, e quali fossero i rapporti fra uomo e uomo, risultanti da queste condizioni di esistenza. Ora, approfondire tutte queste questioni, non significa appunto fare la storia reale, profana, degli uomini in ciascun secolo, rappresentare questi uomini come gli autori e contemporaneamente gli attori del loro dramma? Ma dal momento che si rappresentano gli uomini come autori e come attori della loro storia, si è dunque ritornati esattamente, dopo un lungo giro, al vero punto di partenza, avendo abbandonato i princìpi eterni donde avevate preso le mosse.

Proudhon dunque non s'è neppure inoltrato abbastanza su quella via traversa che prende l'ideologo per raggiungere la strada maestra della storia.

Sesta osservazione

Incamminiamoci con Proudhon per la via traversa. Ammettiamo che i rapporti economici, considerati come leggi immutabili, come princìpi eterni, come categorie ideali, siano anteriori agli uomini vivi e attivi; ammettiamo anche che queste leggi, che questi princìpi, queste categorie abbiano sonnecchiato fin dall'origine dei tempi "nella ragione impersonale dell'umanità". Abbiamo già visto che con tutte queste eternità immutabili non c'è più storia, c'è tutt'al più la storia nell'idea, cioè la storia che si riflette nel movimento dialettico della ragione pura. Ma, dicendo che nel movimento dialettico le idee non si "differenziano" più, Proudhon ha annullato e l'ombra del movimento e il movimento delle ombre, per mezzo delle quali cose sarebbe stato almeno possibile creare un simulacro della storia. Invece egli imputa alla storia la sua impotenza personale; se la prende con tutto, perfino con la lingua francese.

"Non è dunque esatto dire", afferma Proudhon filosofo, "che qualche cosa avviene, che qualche cosa si produce: nella civiltà come nell'universo tutto esiste, tutto agisce da sempre... Altrettanto avviene per tutta l'economia sociale." (Vol. II, p. 102.)

Tanta è la forza creatrice delle contraddizioni che agiscono su Proudhon e lo fanno funzionare, che volendo spiegare la storia egli è costretto a negarla, volendo spiegare il susseguirsi dei rapporti sociali egli nega che qualche cosa possa avvenire, e volendo spiegare la produzione con tutte le sue fasi egli contesta che qualche cosa possa prodursi.

Così, per Proudhon, non c'è né storia né successione di idee; e tuttavia il suo libro esiste sempre, e questo libro è precisamente, secondo la sua stessa espressione, "la storia secondo la successione delle idee". Come trovare una formula (poiché Proudhon è l'uomo delle formule) che l'aiuti a superare di un solo balzo tutte le sue contraddizioni?

A questo scopo egli ha inventato una ragione nuova, che non è la ragione assoluta, pura e vergine, né la ragione comune degli uomini vivi e agenti nei differenti secoli, ma che è una ragione tutta particolare, la ragione della società-persona, dell'ente umanità che sotto la penna di Proudhon si presenta ora come "genio sociale", ora come "ragione generale", e infine come "ragione umana". Questa ragione, cui sono stati affibbiati tanti nomi, si fa tuttavia riconoscere, ad ogni istante, come la ragione individuale di Proudhon, col suo lato buono e quello cattivo, i suoi antidoti, i suoi problemi.

"La ragione umana non crea la verità", che è nascosta nel profondo della ragione assoluta, eterna. Essa non può che svelarla. Ma le verità che ha svelato fino ad oggi sono incomplete, insufficienti e quindi contraddittorie. Dunque, essendo anche le categorie economiche verità scoperte, rivelate dalla ragione umana, dal genio sociale, esse sono egualmente incomplete e racchiudono il germe della contraddizione. Prima di Proudhon, il genio sociale non ha visto che gli elementi antagonistici - e non la formula sintetica - nascosti entrambi simultaneamente nella ragione assoluta. Ma poiché i rapporti economici non fanno che realizzare sulla terra queste verità insufficienti, queste categorie incomplete, queste nozioni contraddittorie, sono essi stessi contraddittori, e presentano due lati, l'uno buono e l'altro cattivo.

Trovare la verità completa, l'idea in tutta la sua pienezza, la formula sintetica che annulli l'antinomia: ecco il problema del genio sociale. Ecco ancora perché nell'illusione di Proudhon lo stesso genio sociale è stato sospinto da una categoria all'altra senza ancora essere pervenuto, con tutta la batteria delle sue categorie, a strappare a Dio, alla ragione assoluta, una formula sintetica.

"Innanzi tutto la società (il genio sociale) [*4] pone un primo fatto, una prima ipotesi... vera e propria antinomia, i cui risultati antagonistici si svolgono nell'economia sociale in quel modo medesimo secondo il quale, nello spirito, avrebbero potuto esserne dedotte le conseguenze; e pertanto il movimento industriale, seguendo in tutto la deduzione delle idee, si sdoppia in due correnti, l'una di effetti utili, l'altra di risultati sovversivi... Per comporre armonicamente questo principio a doppia faccia e risolvere questa antinomia, la società ne fa sorgere una seconda, la quale sarà presto seguita da una terza: e questa sarà la marcia del genio sociale fino al momento in cui, dopo aver esaurito tutte le sue contraddizioni - io suppongo, ma certo non è provato, che le contraddizioni umane abbiano un termine - il genio ritorna di colpo su tutte le sue posizioni anteriori e con una sola formula risolve tutti i suoi problemi." (Vol. I, p. 133.)

Come precedentemente l'antitesi si è trasformata in antidoto, così la tesi diviene ora ipotesi. In Proudhon questo scambio di termini non ci può più sorprendere. La ragione umana, che è tutto meno che pura, poiché la sua visuale è limitata, incontra ad ogni passo nuovi problemi da risolvere. Ogni nuova tesi, che essa scopre nella ragione assoluta e che è la negazione della tesi precedente, diventa per essa una sintesi, che viene accettata abbastanza ingenuamente come la soluzione del problema in questione. Così questa ragione si dibatte in contraddizioni sempre nuove, finché, arrivata alla fine di tali contraddizioni, si accorge che tutte le sue tesi e sintesi non sono che ipotesi contraddittorie. Nella sua perplessità, la ragione umana,

"il genio sociale, ritorna di colpo su tutte le sue posizioni anteriori e con una sola formula risolve tutti i suoi problemi".

Questa formula unica, sia detto tra parentesi, costituisce la vera e propria scoperta di Proudhon. È, il valore costituito.

Le ipotesi si fanno solo in vista di uno scopo determinato. Lo scopo che si proponeva in primo luogo il genio sociale che parla per bocca di Proudhon era di eliminare ciò che vi è di cattivo in qualsiasi categoria economica, lasciandone solo il lato buono. Per lui il bene è il bene supremo, il vero scopo da raggiungere è l'eguaglianza. E perché il genio sociale si proponeva l'eguaglianza piuttosto che l'ineguaglianza, la fraternità, il cattolicesimo, o un qualsiasi altro principio? Perché l'"umanità ha realizzato successivamente tante ipotesi particolari solo in vista di una ipotesi superiore", che è precisamente l'eguaglianza. In altre parole: perché l'eguaglianza è l'ideale di Proudhon. Egli immagina che la divisione del lavoro, il credito, la fabbrica [*5], tutti i rapporti economici, insomma, siano stati inventati semplicemente a profitto dell'eguaglianza, anche se hanno sempre finito per rivolgersi contro di essa.

Dal fatto che la storia e la finzione di Proudhon si contraddicono ad ogni pie' sospinto, il nostro conclude che vi è contraddizione. Ma se contraddizione esiste, essa esiste solo tra l'idea fissa di Proudhon e il movimento reale.

Siamo ormai al punto che il lato buono di un rapporto economico è sempre quello che afferma l'eguaglianza; il lato cattivo è quello che la nega e che afferma l'ineguaglianza. Ogni nuova categoria è un'ipotesi del genio sociale, per eliminare l'ineguaglianza generata dall'ipotesi precedente. Riassumendo: l'eguaglianza è l'intenzione primitiva, la tendenza mistica, lo scopo provvidenziale che il genio sociale ha costantemente dinnanzi agli occhi, pur aggirandosi entro la cerchia delle contraddizioni economiche. Così la Provvidenza è la locomotiva che fa marciare tutto il bagaglio economico di Proudhon meglio assai della sua ragione pura e nebulosa. Ed egli ha dedicato alla Provvidenza tutt'un intero capitolo, che viene dopo quello delle imposte.

Provvidenza, scopo provvidenziale, ecco la grande parola di cui ci si serve oggi per spiegare il procedere della storia. In effetti la parola non spiega nulla. È tutt'al più una forma declamatoria, una maniera come un'altra di parafrasare i fatti.

È un fatto che in Scozia le proprietà fondiarie acquistarono un nuovo valore a causa dello sviluppo dell'industria inglese, la quale aprì nuovi sbocchi alla lana. Per produrre la lana su vasta scala, era necessario trasformare i campi coltivabili in pascoli; per effettuare questa trasformazione, era necessario concentrare le proprietà; per concentrare le proprietà era necessario abolire le piccole tenute, cacciare migliaia di piccoli coltivatori dal loro paese natale e mettere al loro posto qualche pastore che sorvegliasse milioni di montoni. Così, per via di trasformazioni successive, la proprietà fondiaria in Scozia ha avuto per risultato di far espellere gli uomini dai montoni. Dichiarate ora che lo scopo provvidenziale dell'istituzione della proprietà fondiaria in Scozia era stato di far cacciare gli uomini dai montoni, e avrete fatto della storia provvidenziale.

Certo, la tendenza all'eguaglianza è propria del nostro secolo. Dire ora che tutti i secoli anteriori, con bisogni, con mezzi di produzione, ecc., del tutto differenti, si adoperavano provvidenzialmente per realizzare l'eguaglianza, significa innanzi tutto sostituire i mezzi e gli uomini del nostro secolo agli uomini e ai mezzi dei secoli anteriori, e misconoscere il movimento storico attraverso il quale le generazioni successive trasformavano i risultati acquisiti dalle generazioni che le precedevano. Gli economisti sanno molto bene che la stessa cosa che per l'uno è un prodotto finito, per l'altro è soltanto la materia prima di una nuova produzione.

Supponete, come fa Proudhon, che il genio sociale abbia prodotto, o meglio improvvisato, i signori feudali, allo scopo provvidenziale di trasformare i coloni in lavoratori responsabili ed egualitari: avrete fatto una sostituzione di scopi e di persone del tutto degna di quella Provvidenza che in Scozia istituiva la proprietà fondiaria per pigliarsi il maligno piacere di far cacciare gli uomini dai montoni.

Ma poiché Proudhon si interessa tanto teneramente alla Provvidenza lo rimandiamo all'"Histoire de l'Economie Politique" del signor Villeneuve-Bargemont, che insegue anch'egli uno scopo provvidenziale [3]. Ma questo scopo non è più l'eguaglianza: è il cattolicesimo.

Settima ed ultima osservazione

Gli economisti hanno un singolare modo di procedere. Non esistono per essi che due tipi di istituzioni, quelle dell'arte e quelle della natura. Le istituzioni del feudalesimo sono istituzioni artificiali, quelle della borghesia sono istituzioni naturali. E in questo gli economisti assomigliano ai teologi, i quali pure stabiliscono due sorta di religioni. Ogni religione che non sia la loro è un'invenzione degli uomini, mentre la loro è una emanazione di Dio. Dicendo che i rapporti attuali - i rapporti della produzione borghese - sono naturali, gli economisti fanno intendere che si tratta di rapporti entro i quali si crea la ricchezza e si sviluppano le forze produttive conformemente alle leggi della natura. Per cui questi stessi rapporti sono leggi naturali indipendenti dall'influenza del tempo. Sono leggi eterne che debbono sempre reggere la società. Così c'è stata storia, ma ormai non ce n'è più. C'è stata storia perché sono esistite istituzioni feudali e perché in queste istituzioni feudali si trovano rapporti di produzione del tutto differenti da quelli della società borghese, che gli economisti vogliono spacciare per naturali e quindi eterni.

Anche il feudalesimo aveva il suo proletariato: i servi della gleba, in cui erano racchiusi i germi della borghesia. Anche la produzione feudale aveva elementi antagonistici; che, se si vuole, possono essere ben designati come il lato buono e il lato cattivo del feudalesimo, senza pensare che è quello cosiddetto cattivo che finisce sempre con l'avere il sopravvento. È, il lato cattivo a produrre il movimento che fa la storia, determinando la lotta. Se all'epoca del regime feudale gli economisti, entusiasmati dalle virtù cavalleresche, dalla bella armonia fra i diritti e i doveri, dalla vita patriarcale delle città, dalle condizioni prospere dell'industria domestica nelle campagne, dallo sviluppo dell'industria organizzata in corporazioni, e corpi dei consoli e maestri d'arte, ecc., infine da tutto ciò che costituisce il lato buono del feudalesimo, si fossero posti il problema di eliminare tutto ciò che offusca questo quadro - servitù, privilegi, anarchia - che sarebbe avvenuto? Sarebbero stati annullati tutti gli elementi che costituivano la lotta e si sarebbe soffocato in germe lo sviluppo della borghesia. Insomma, si sarebbe posto l'assurdo problema di eliminare la storia.

Quando la borghesia l'ebbe vinta, non vi fu più questione né del lato buono né di quello cattivo del feudalesimo. Ad essa andarono le forze produttive che si erano sviluppate per mezzo suo sotto il regime feudale. Tutte le vecchie forme economiche, le relazioni di diritto civile loro corrispondenti, lo stato politico che era l'espressione ufficiale dell'antica società civile, vennero spezzati.

Così, per ben giudicare la produzione feudale, è necessario considerarla come un modo di produzione fondato sull'antagonismo. Bisogna mostrare come la ricchezza veniva prodotta all'interno di questo antagonismo, come le forze produttive si sviluppavano di pari passo all'antagonismo delle classi, come una di queste classi, il lato cattivo, l'inconveniente della società, andasse sempre crescendo finché le condizioni materiali della sua emancipazione non furono pervenute al punto di maturazione. Non è tutto ciò sufficiente per dire che il modo di produzione, i rapporti in cui si sviluppano le forze produttive, sono tutt'altro che leggi eterne, ma corrispondono invece a un grado di sviluppo determinato degli uomini e delle loro forze produttive, e che un mutamento sopravvenuto nelle forze produttive degli uomini comporta necessariamente un mutamento nei loro rapporti di produzione? Poiché innanzi tutto importa non essere privati dei frutti della civiltà, delle forze produttive acquisite, è necessario infrangere le forme tradizionali nelle quali quelle sono state prodotte. Da questo momento, la classe rivoluzionaria diviene conservatrice.

La borghesia ha inizio con un proletariato che a sua volta è un resto del proletariato [*6] dei tempi feudali. Nel corso del suo sviluppo storico, la borghesia svolge necessariamente il suo carattere antagonistico, che all'inizio si trova ad essere più o meno dissimulato, non esiste che allo stato latente. A misura che la borghesia si sviluppa, si sviluppa nel suo seno un nuovo proletariato, un proletariato moderno; si sviluppa una lotta fra la classe proletaria e la classe borghese, lotta che, prima di essere sentita dalle due parti, individuata, valutata, compresa, ammessa e infine proclamata ad alta voce, non si manifesta, all'inizio, che attraverso conflitti parziali e momentanei, attraverso episodi di sovversivismo. D'altra parte, se tutti i membri della moderna borghesia hanno i medesimi interessi in quanto formano una classe contrapposta a un'altra, hanno però interessi opposti, antagonistici, in quanto si trovano gli uni contrapposti agli altri. Questa opposizione di interessi deriva dalle condizioni economiche della loro vita borghese. Di giorno in giorno diventa dunque più chiaro che i rapporti di produzione entro i quali si muove la borghesia non hanno un carattere unico, semplice, bensì un carattere duplice; che negli stessi rapporti entro i quali si produce la ricchezza, si produce altresì la miseria; che entro gli stessi rapporti nei quali si ha sviluppo di forze produttive, si sviluppa anche una forza produttrice di repressione; che questi rapporti producono la ricchezza borghese, ossia la ricchezza della classe borghese, solo a patto di annientare continuamente la ricchezza di alcuni membri di questa classe, e a patto di dar vita a un proletariato ognora crescente.

Più il carattere antagonistico viene in luce, più gli economisti, i rappresentanti scientifici della produzione borghese, entrano in contraddizione con le loro stesse teorie; e nascono diverse scuole.

Abbiamo così gli economisti fatalisti, che nella loro teoria sono indifferenti a ciò che essi chiamano gli inconvenienti della produzione borghese, come lo sono, nella pratica, i borghesi di fronte alle sofferenze dei proletari, che li aiutano ad acquistare le loro ricchezze. In questa scuola fatalista vi sono i classici e i romantici. I classici, come Adam Smith e Ricardo, rappresentano una borghesia che, lottando ancora contro i resti della società feudale, opera solo per epurare i rapporti economici dai residui feudali, per aumentare le forze produttive e dare un nuovo impulso all'industria e al commercio. Il proletariato, che partecipa a questa lotta, assorbito in questo lavoro febbrile, non ha che sofferenze accidentali, passeggere, che esso stesso considera come tali. Gli economisti come Adam Smith e Ricardo, che sono gli storici di quest'epoca, hanno soltanto la missione di dimostrare come si acquisti la ricchezza entro i rapporti di produzione borghesi, di formulare in secondo luogo questi rapporti in categorie, in leggi, di dimostrare infine quanto queste leggi, queste categorie, siano, per la produzione delle ricchezze, superiori alle leggi e alle categorie della società feudale. La miseria, ai loro occhi, non è che il dolore che accompagna ogni parto, nella natura come nell'industria.

I romantici appartengono alla nostra epoca, in cui la borghesia si trova in diretta opposizione al proletariato, in cui la miseria si produce con un'abbondanza pari alla ricchezza. Gli economisti posano allora a fatalisti annoiati, che, dall'alto della loro posizione, gettano un superbo sguardo di disdegno sugli uomini-macchine che fabbricano le ricchezze. Essi ripetono tutte le spiegazioni già date dai loro predecessori, ma l'indifferenza, che per questi era ingenuità, diviene in loro civetteria.

Viene appresso la scuola umanitaria, che si prende a cuore il lato cattivo degli attuali rapporti di produzione. Questa scuola cerca, per scarico di coscienza, di trovare almeno dei palliativi ai contrasti reali: deplora sinceramente le miserevoli condizioni del proletariato, la concorrenza sfrenata dei borghesi fra loro; consiglia agli operai di essere sobri, di lavorare bene e di mettere al mondo pochi figli; raccomanda ai borghesi di mettere nella produzione un ardore ponderato. Tutta la teoria di questa scuola si basa su interminabili distinzioni fra la teoria e la pratica, fra i princìpi e i risultati, fra l'idea e l'attuazione, fra il contenuto e la forma, fra l'essenza e la realtà, fra il diritto e il fatto, fra il lato buono e quello cattivo.

La scuola filantropica poi è la scuola umanitaria perfezionata. Essa nega la necessità dell'antagonismo; vuol fare di tutti gli uomini dei borghesi; vuole realizzare la teoria, per quel tanto che essa si distingue dalla pratica e non racchiude antagonismi. È superfluo dire che nella teoria è facile fare astrazione dalle contraddizioni che si incontrano ad ogni istante nella realtà. Questa teoria sarebbe dunque la realtà idealizzata. I filantropi vogliono insomma conservare le categorie che esprimono i rapporti borghesi, senza l'antagonismo che li costituisce e che ne è inseparabile. Essi credono di combattere sul serio la prassi borghese e sono più borghesi degli altri.

Come gli economisti sono i rappresentanti scientifici della classe borghese, così i socialisti e i comunisti sono i teorici della classe proletaria. Finché il proletariato non si è ancora sufficientemente sviluppato per costituirsi in classe, e di conseguenza la lotta del proletariato con la borghesia non ha ancora assunto un carattere politico, e finché le forze produttive non si sono ancora sufficientemente sviluppate in seno alla stessa borghesia, tanto da lasciar intravedere le condizioni materiali necessarie all'affrancamento del proletariato e alla formazione di una società nuova, questi teorici non sono che utopisti, i quali, per soddisfare i bisogni delle classi oppresse, improvvisano sistemi e rincorrono le chimere di una scienza rigeneratrice. Ma a misura che la storia progredisce e con essa la lotta del proletariato si profila più netta, essi non hanno più bisogno di cercare la scienza nel loro spirito; devono solo rendersi conto di ciò che si svolge davanti ai loro occhi e farsene portavoce. Finché cercano la scienza e costruiscono solo dei sistemi, finché sono all'inizio della lotta, nella miseria non vedono che la miseria, senza scorgerne il lato rivoluzionario, sovvertitore, che rovescerà la vecchia società. Ma quando questo lato viene scorto, la scienza prodotta dal movimento storico - e al quale si è associata con piena cognizione di causa - ha cessato di essere dottrinaria per divenire rivoluzionaria.

Ma torniamo a Proudhon.

Ogni rapporto economico ha un lato buono e uno cattivo: è questo l'unico punto sul quale Proudhon non si smentisce. Il lato buono egli lo vede esposto dagli economisti; quello cattivo lo vede denunciato dai socialisti. Egli prende a prestito dagli economisti la necessità dei rapporti eterni; dai socialisti l'illusione di vedere nella miseria solo la miseria. E si trova d'accordo con gli uni e con gli altri, volendosi appoggiare all'autorità della scienza, che, per lui, si riduce alle esigue proporzioni di una formula scientifica; è l'uomo alla ricerca delle formule. Quindi Proudhon si vanta di aver fornito la critica e dell'economia politica e del comunismo: mentre si trova al di sotto dell'una e dell'altro. Al di sotto degli economisti, poiché come filosofo che ha sotto mano una formula magica, ha creduto di potersi esimere dall'entrare in dettagli puramente economici; al di sotto dei socialisti, poiché non ha né sufficiente coraggio, né sufficienti lumi per elevarsi, non fosse altro in maniera speculativa, oltre l'orizzonte borghese.

Proudhon vuole essere la sintesi. Ed è invece un errore composto.

Vuole librarsi come uomo di scienza al disopra dei borghesi e dei proletari; e non è che il piccolo borghese, sballottato costantemente fra il capitale e il lavoro, fra l'economia politica e il comunismo.  :

 

 

2. La divisione del lavoro e le macchine

La divisione del lavoro apre, secondo Proudhon, la serie delle evoluzioni economiche.

Lato buono della divisione del lavoro

Considerata nella sua essenza la divisione del lavoro è il modo secondo cui si realizza l'eguaglianza delle condizioni e delle intelligenze." (Vol. I, p. 93.)

"La divisione del lavoro è diventata per noi una fonte di miseria." (Vol. I, p. 94.)

Lato cattivo della divisione
del lavoro

V a r i a n t e :

"Il lavoro, dividendosi secondo la legge che gli è propria, e che è la prima condizione della sua fecondità, sbocca nella negazione dei suoi fini e si distrugge da sé." (Vol. I, p. 94.)

Problema da risolvere

Trovare "la ricomposizione che annulli gli inconvenienti della divisione, pur conservandone gli effetti utili". (Vol. I, p. 97.)

La divisione del lavoro, è, secondo Proudhon, una legge eterna, una categoria semplice e astratta. Dunque anche l'astrazione, l'idea, la parola gli deve bastare per spiegare la divisione del lavoro nelle differenti epoche della storia. Le caste, le corporazioni, il regime manifatturiero, la grande industria devono spiegarsi con la sola parola "dividere". Studiate anzitutto bene il senso della parola "dividere" e non avrete bisogno di studiare le numerose influenze che in ogni epoca hanno conferito alla divisione del lavoro un carattere determinato.

In realtà si rendono le cose troppo semplici, riducendole alle categorie di Proudhon. La storia non procede così "categoricamente". Occorsero tre secoli interi, in Germania, per stabilire quella prima divisione del lavoro su vasta scala che è la separazione delle città dalle campagne. A misura che si modifica questo solo rapporto fra la città e la campagna, la società intera si modifica. Per considerare questo solo aspetto della divisione del lavoro, si hanno le antiche repubbliche o il feudalesimo cristiano; la vecchia Inghilterra coi suoi baroni, oppure l'Inghilterra moderna coi suoi magnati del cotone (cotton-lords). Nei secoli XIV e XV, quando non v'erano ancora colonie, quando l'America non esisteva ancora per l'Europa, quando l'Asia esisteva per essa solo attraverso Costantinopoli, e il Mediterraneo era il centro dell'attività commerciale, la divisione del lavoro aveva tutt'altra forma, tutt'altro aspetto che nel XVII secolo, quando gli spagnoli, i portoghesi, gli olandesi, gli inglesi e i francesi avevano stabilito colonie in tutte le parti del mondo. L'estensione del mercato, la sua fisionomia conferiscono alla divisione del lavoro, nelle diverse epoche, una fisionomia, un carattere, che sarebbe difficile dedurre dalla sola parola "dividere", dall'idea, dalla categoria della "divisione".

"Tutti gli economisti", dice Proudhon, "da A. Smith in poi, hanno segnalato i vantaggi e gli inconvenienti della legge della divisione del lavoro; ma hanno insistito molto più sui primi che sui secondi, perché ciò serviva meglio il loro ottimismo; né alcuno di essi si è mai chiesto quali potevano essere gli inconvenienti di una simile legge... Come lo stesso principio, svolto rigorosamente nelle sue conseguenze, può condurre ad effetti diametralmente opposti? Nessun economista, né prima né dopo A. Smith, si è anche soltanto accorto che là vi fosse un problema da chiarire. Say giunge sino a riconoscere che nella divisione del lavoro la stessa causa che produce il bene genera anche il male." [I, pp. 95-96.]

A. Smith va molto più lontano di quanto pensi Proudhon. Egli ha visto molto bene che

"nella realtà la differenza delle capacità naturali tra gli individui è molto minore di quel che crediamo. Queste attitudini così diverse, che sembrano distinguere gli uomini delle diverse professioni quando sono giunti all'età matura, non sono tanto la causa quanto l'effetto della divisione del lavoro". [Smith, loc. cit., I, pp. 33-34.]

In linea di principio un facchino differisce da un filosofo meno che un mastino da un levriero. È la divisione del lavoro che ha creato un abisso tra l'uno e l'altro. Tutto ciò non impedisce a Proudhon di dire in un altro punto che Adam Smith non sospettava neppure gli inconvenienti che produce la divisione del lavoro. Così egli non si perita di affermare che J.-B. Say ha per primo riconosciuto "che nella divisione del lavoro la stessa causa che produce il bene genera anche il male".

Ma ascoltiamo Lemontey: suum cuique [*7].

"Il signor J-B. Say mi ha fatto l'onore di adottare, nel suo eccellente trattato di economia politica, il principio che io per primo ho esposto nel frammento" sull'influenza morale della divisione del lavoro. "Il titolo un po' frivolo del mio libro [4] non gli ha, senza dubbio, permesso di citarmi. Io non posso attribuire che a questo motivo il silenzio di uno scrittore troppo ricco di per se stesso per disconoscere un prestito così modesto." (Lemontey, "Oeuvres complètes", vol. I, pp. 192-193, Paris 1829.)

Rendiamogli questa giustizia: Lemontey ha spiritosamente descritto le spiacevoli conseguenze della divisione del lavoro, quale essa si attua ai giorni nostri; e Proudhon non ha trovato nulla da aggiungervi. Ma poiché, per colpa di Proudhon, ci siamo ormai ingolfati in questa questione di priorità, diciamo ancora - di passaggio - che molto tempo prima di Lemontey, e diciassette anni prima di Adam Smith, allievo di A. Ferguson, quest'ultimo aveva esposto chiaramente la cosa in un capitolo che tratta specificamente della divisione del lavoro.

"Ci sarebbe perfino da dubitare che la capacità generale di una nazione cresca in proporzione al progresso della tecnica. Molti mestieri manuali... riescono perfettamente quando sono totalmente privi del soccorso della ragione e del sentimento, e l'ignoranza è la madre dell'industria così come lo è della superstizione. La riflessione e l'immaginazione sono suscettibili di errore: ma l'abitudine di muovere il piede o la mano non dipende né dall'una né dall'altra. Così si potrebbe dire che nel lavoro della manifattura la perfezione consiste nel poter fare a meno della mente, che l'officina funzionante senza l'ausilio dell'intelligenza può essere considerata come una macchina di cui gli uomini siano le parti... Il generale può essere molto abile nell'arte della guerra, mentre tutto il merito del soldato sta nell'eseguire alcuni movimenti del piede o della mano. L'uno può aver guadagnato quel che l'altro ha perduto... In un periodo in cui tutto è separato, l'arte di pensare può costituire benissimo un mestiere a parte." (A. Ferguson, "Essai sur l'histoire de la société civile", Paris 1793 [II, pp. 134, 135 e 136].)

Per completare questo panorama di letture, noi neghiamo formalmente che "tutti gli economisti abbiano insistito molto più sui vantaggi che sugli inconvenienti della divisione del lavoro". Basta nominare Sismondi [5].

Così, quanto ai vantaggi della divisione del lavoro, a Proudhon non resta che parafrasare più o meno ampollosamente le frasi generali che ognuno conosce.

Vediamo ora come egli faccia derivare dalla divisione del lavoro presa come legge generale, come categoria, come idea, gli inconvenienti che vi sono connessi. Come mai questa categoria, questa legge, implica una ripartizione ineguale del lavoro, a detrimento del sistema egualitario di Proudhon?

"In quest'ora, solenne della divisione del lavoro, il vento delle tempeste comincia a soffiare sull'umanità. Il progresso non si compie per tutti in modo eguale ed uniforme... esso comincia con l'impadronirsi di un piccolo numero di privilegiati... Questa preferenza dunque, dimostrata a certi uomini dal progresso, ha fatto credere così a lungo all'ineguaglianza naturale e provvidenziale delle condizioni di vita, ha generato le caste e costituito gerarchicamente tutte le società." (Proudhon, vol. I, p. 94.)

La divisione del lavoro ha creato le caste. Ora, le caste sono gli inconvenienti della divisione del lavoro; dunque la divisione del lavoro ha generato degli inconvenienti. Quod erat demonstrandum [*8]. Vogliamo andare oltre, e domandarci che cosa ha fatto sì che la divisione del lavoro creasse le caste, le costituzioni gerarchiche e i privilegi? Proudhon vi dirà: il progresso. E che cosa è che ha creato il progresso? Il limite. Il limite, per Proudhon, è la preferenza per certe persone da parte del progresso.

Dopo la filosofia viene la storia: ma non la storia descrittiva né la storia dialettica, bensì la storia comparata. Proudhon stabilisce un parallelo tra lo stampatore attuale e lo stampatore del medioevo, tra l'operaio del Creusot [6] e il fabbro ferraio di campagna, tra il letterato dei nostri giorni e il letterato del medioevo, ed egli fa pendere la bilancia dalla parte di coloro che dipendono più o meno dalla divisione del lavoro quale il medioevo l'ha costituita o trasmessa. Egli oppone la divisione del lavoro di un'epoca storica alla divisione del lavoro di un'altra epoca storica. Era questo che Proudhon doveva dimostrare? No. Egli doveva mostrarci gli inconvenienti della divisione del lavoro in generale, della divisione del lavoro come categoria. A che scopo d'altronde insistere su questa parte dell'opera di Proudhon, dal momento che lo vedremo tra poco rinnegare lui stesso formalmente tutti questi pretesi sviluppi?

"Il primo effetto del lavoro frazionato", continua Proudhon, "dopo l'abbrutimento dell'anima, è il prolungamento dell'orario di lavoro, che cresce in ragione inversa della somma di intelligenza spesa... Ma siccome la durata dell'orario di lavoro non può oltrepassare le 16-18 ore al giorno, dal momento in cui la compensazione non potrà effettuarsi sul tempo, essa si effettuerà sul prezzo, e il salario diminuirà... Quello che è certo, e che solo ci interessa notare, è che la coscienza universale non valuta allo stesso tasso il lavoro di un capomastro e la prestazione di un manovale. Vi è dunque la necessità di ridurre il prezzo della giornata: in modo che il lavoratore dopo essere stato afflitto nello spirito da una funzione degradante, non può mancare di essere colpito anche nel corpo dall'esiguità della ricompensa." [I, pp. 96-97.]

Passiamo sopra al valore logico di questi sillogismi, che Kant chiamerebbe paralogismi che vanno di sbieco.

Ecco la sostanza:

La divisione del lavoro riduce l'operaio a una funzione degradante. A questa funzione degradante corrisponde un'anima abbrutita; all'abbrutimento dell'anima corrisponde una riduzione sempre crescente del salario. E per provare che questa riduzione del salario si addice ad un'anima abbrutita, Proudhon dice, per sgravio della sua coscienza, che è la coscienza universale che vuole così. L'anima di Proudhon è computata nella coscienza universale?

Le macchine sono, per Proudhon, "l'antitesi logica della divisione del lavoro" [I, p. 135] e, con l'aiuto della sua dialettica, egli comincia col trasformare le macchine in fabbrica.

Dopo aver supposto la fabbrica moderna per far derivare la miseria dalla divisione del lavoro, Proudhon suppone la miseria generata dalla divisione del lavoro, per arrivare alla fabbrica e poterla rappresentare come la negazione dialettica di questa miseria. Dopo aver colpito il lavoratore nel morale con una funzione degradante, nel fisico con l'esiguità del salario; dopo aver messo il lavoratore alle dipendenze del capomastro e abbassato il suo lavoro fino alla prestazione di un manovale, egli se la prende di nuovo con la fabbrica e le macchine per degradare il lavoratore, "dandogli un padrone" [I, p. 164 ], e completa il suo avvilimento facendolo "decadere dal rango di artigiano a quello di semplice maestranza" [I, p. 164 ]. Bella dialettica! E ancora si accontentasse di questo; ma no, gli occorre una nuova storia della divisione del lavoro, non più per farne derivare le contraddizioni, ma per ricostituire la fabbrica a modo suo. Per raggiungere questo scopo, egli ha bisogno di dimenticare tutto quello che poco prima ha detto sulla divisione del lavoro.

Il lavoro si organizza e si divide diversamente, a seconda degli strumenti dei quali dispone. Il mulino a braccia presuppone una divisione del lavoro diversa da quella del mulino a vapore. Cominciare dalla divisione del lavoro in generale per giungere in seguito a uno strumento specifico di produzione, le macchine, significa non aver nessun riguardo della storia.

Le macchine non sono una categoria economica più di quanto lo sia il bue che trascina l'aratro. Le macchine non sono che una forza produttiva. La fabbrica moderna, che si basa sull'impiego delle macchine, è un rapporto sociale di produzione, una categoria economica.

Vediamo ora come si svolgono le cose nella brillante immaginazione di Proudhon.

"Nella società l'apparizione incessante delle macchine è l'antitesi, la formula inversa del lavoro: è la protesta del genio industriale contro il lavoro frazionato e omicida. Che cosa è in effetti una macchina? Un modo di riunire le diverse parti del lavoro, che la divisione aveva separato. Ogni macchina può essere definita come un riassunto di parecchie operazioni ... Dunque, attraverso la macchina, vi sarà una restaurazione del lavoratore ... Le macchine, che si pongono nell'economia come antitesi alla divisione del lavoro, rappresentano la sintesi, che si oppone nello spirito umano all'analisi... La divisione non faceva che separare le diverse parti del lavoro, lasciando che ciascuno si dedicasse alla specializzazione che più gli piacesse; la fabbrica raggruppa i lavoratori secondo il rapporto di ciascuna parte con il tutto... introduce il principio d'autorità nel lavoro... Ma questo non è tutto: la macchina, o la fabbrica, dopo aver degradato il lavoratore dandogli un padrone, completa il suo avvilimento facendolo decadere dal rango di artigiano a quello di semplice maestranza... Il periodo che attraversiamo in questo momento, quello delle macchine, si distingue per un carattere particolare, il lavoro salariato. Il lavoro salariato è posteriore alla divisione del lavoro e allo scambio." [I, pp. 135, 136, 161 e 164.]

Una semplice osservazione vogliamo fare a Proudhon. La separazione delle diverse parti del lavoro, che lascia a ciascuno la facoltà di dedicarsi alla specializzazione che più gli aggrada, separazione che Proudhon fa datare dall'inizio del mondo, esiste solo nell'industria moderna, sotto il regime della concorrenza.

Proudhon ci dà in seguito una "genealogia" fin troppo "interessante", per dimostrare come la fabbrica sia nata dalla divisione del lavoro, e il lavoro salariato dalla fabbrica.

  1. Egli presuppone un uomo che "ha notato che, dividendo la produzione nelle sue diverse parti e facendo eseguire ciascuna di esse ad un operaio separatamente" [I,p.161] si moltiplicherebbero le forze di produzione.
  2. Quest'uomo, "afferrando al volo il filo di una simile idea, pensa che, formando un gruppo permanente di lavoratori, scelti in funzione dell'oggetto particolare che egli si propone di costruire, otterrà una produzione più elevata, ecc." [I, p. 161].
  3. Quest'uomo fa una proposta ad altri uomini, perché facciano propria la sua idea e il filo della sua idea.
  4. Quest'uomo, "all'inizio dell'industria, tratta da pari a pari con i suoi compagni d'arte che diverranno più tardi i suoi operai".
  5. "È evidente, in effetti, che questa eguaglianza primitiva dovette rapidamente scomparire per la posizione vantaggiosa del padrone e la dipendenza del salariato." [I, p. 163.]

Ecco ancora un saggio del metodo storico e descrittivo di Proudhon.

Esaminiamo ora, dal punto di vista storico ed economico, se veramente la fabbrica, o la macchina, abbia introdotto il principio d'autorità nella società posteriormente alla divisione del lavoro; se la fabbrica, da un lato, ha riabilitato l'operaio, pur sottomettendolo, dall'altro, all'autorità; se la macchina è la ricomposizione del lavoro diviso, la sintesi del lavoro opposta alla sua analisi.

La società nel suo insieme ha di comune con l'interno di una fabbrica che anch'essa ha la sua divisione del lavoro. Se si prendesse per modello la divisione del lavoro in una fabbrica moderna per applicarla a un'intera società, la società meglio organizzata per la produzione delle ricchezze sarebbe incontestabilmente quella che avesse un solo imprenditore a dirigerla, il quale distribuisse i compiti ai diversi membri della comunità secondo una regola fissata in precedenza. Ma non è affatto così. Mentre all'interno della fabbrica moderna la divisione del lavoro è minuziosamente regolata dall'autorità dell'imprenditore, la società moderna non ha altra regola, altra autorità, per distribuire il lavoro, che la libera concorrenza.

Sotto il regime patriarcale, sotto il regime delle caste, sotto il regime feudale e corporativo, vi era divisione del lavoro nella società tutt'intera secondo regole fisse. Queste regole sono state forse stabilite da un legislatore? No. Nate in origine dalle condizioni della produzione materiale, esse sono state elevate a leggi molto più tardi. Così queste diverse forme di divisione del lavoro divennero altrettante basi d'organizzazione sociale. Quanto alla divisione del lavoro nell'officina, in tutte queste forme di società essa era poco sviluppata.

Si può stabilire come principio generale che, quanto meno l'autorità presiede alla divisione del lavoro nell'interno della società, tanto più la divisione del lavoro si sviluppa nell'interno dell'officina, e vi è sottoposta all'autorità di uno solo. Così l'autorità nell'officina e quella nella società, in rapporto alla divisione del lavoro, sono in ragione inversa l'una dell'altra.

Interessa ora vedere che cosa sia esattamente quella fabbrica, nella quale le mansioni sono molto distinte, il compito di ciascun operaio è ridotto a un'operazione molto semplice, e dove l'autorità, il capitale, raggruppa e dirige i lavoratori. Come è nata questa fabbrica? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo esaminare come l'industria manifatturiera propriamente detta si sia sviluppata. Intendo riferirmi a quell'industria che non è ancora l'industria moderna, con le sue macchine, ma che non è ormai più né l'industria degli artigiani del medioevo, né l'industria domestica. Non entreremo in minuti particolari: faremo solo alcuni accenni sommari, per dimostrare come con delle formule non sia possibile fare la storia.

Una delle condizioni più indispensabili per la formazione dell'industria manifatturiera era l'accumulazione dei capitali; e questa venne facilitata dalla scoperta dell'America e dall'immissione nel mercato dei suoi metalli preziosi.

È provato a sufficienza che l'aumento dei mezzi di scambio ebbe per conseguenza, da un lato, il deprezzamento dei salari e delle rendite fondiarie, e, dall'altro, l'accrescimento dei profitti industriali. In altri termini quanto più la classe dei proprietari terrieri e la classe dei lavoratori, i signori feudali e il popolo, decaddero, tanto più si sviluppò la classe dei capitalisti, la borghesia. Vi furono altre circostanze ancora che concorsero simultaneamente allo sviluppo dell'industria manifatturiera: l'aumentata quantità delle merci messe in circolazione (dopo che fu stabilito il collegamento con le Indie Orientali per la via del Capo di Buona Speranza), il sistema coloniale, lo sviluppo del commercio marittimo.

Un altro aspetto che ancora non è stato considerato abbastanza nella storia dell'industria manifatturiera è il licenziamento delle corti affollate dei signori feudali, i cui membri subalterni divennero dei vagabondi prima di entrare nella fabbrica. La creazione della fabbrica è preceduta da un vagabondaggio quasi universale nei secoli XV e XVI. La fabbrica trovò inoltre una solida e larga base nei numerosi contadini, che, cacciati continuamente dalle campagne in seguito alla trasformazione dei campi in pascoli e ai progressi nell'agricoltura, che rendevano necessario un minor numero di braccia per la coltivazione delle terre, continuarono ad affluire nelle città per secoli interi.

L'allargarsi del mercato, l'accumulazione dei capitali, le modificazioni sopravvenute nella posizione sociale delle classi, una folla di persone che si vedono private delle loro fonti di reddito, ecco altrettante condizioni storiche per la formazione della manifattura. Non furono dunque, come dice invece Proudhon, accordi amichevoli e cose del genere, a riunire gli uomini nella fabbrica. E neppure in seno alle antiche corporazioni è nata la manifattura. Fu il mercante a divenire il capo dell'officina moderna, non l'antico maestro delle corporazioni. Quasi ovunque si ebbe anzi una lotta accanita tra la manifattura e le corporazioni dei mestieri.

L'accumulazione e la concentrazione di strumenti e di lavoratori precedette lo sviluppo della divisione del lavoro nell'interno dell'officina. Una manifattura consisteva molto di più nella riunione di molti lavoratori e di molti mestieri in un sol luogo, in una sala, sotto il comando di un capitale, che non nella suddivisione dei lavori, e nell'adattamento d'un operaio speciale a un compito molto semplice.

L'utilità di una fabbrica consisteva molto meno nella divisione del lavoro propriamente detta che non nel fatto che si lavorava su più vasta scala e si risparmiavano molte spese accessorie, ecc. Alla fine del XVI e all'inizio del XVII secolo la manifattura olandese conosceva appena la divisione del lavoro.

Lo sviluppo della divisione del lavoro presuppone la riunione di più operai in una fabbrica. Non c'è neppure un solo caso, né nel XVI, né nel XVII secolo, in cui i diversi rami d'una stessa attività produttiva siano stati praticati separatamente al punto che sarebbe bastato riunirli in un solo luogo per ottenere la fabbrica bell'e fatta. Ma una volta riuniti gli uomini e gli strumenti, la divisione del lavoro, quale esisteva nelle corporazioni, si riproduceva, si rifletteva necessariamente nell'interno della fabbrica.

Per Proudhon, che vede le cose alla rovescia, se pure le vede, la divisione del lavoro, come la intende Adam Smith, precede la fabbrica, che invece è una delle condizioni per il suo realizzarsi.

Le macchine propriamente dette datano dalla fine del XVIII secolo.

Niente di più assurdo che vedere nelle macchine l'antitesi della divisione del lavoro, la sintesi che ristabilisce l'unità nel lavoro frazionato

La macchina è una riunione di strumenti di lavoro, e niente affatto una combinazione dei lavori per l'operaio stesso.

"Quando, per effetto della divisione del lavoro, ciascuna operazione particolare è stata ridotta all'impiego di uno strumento semplice, la riunione di tutti questi strumenti azionati da un solo motore costituisce una macchina." (Babbage, "Traité sur l'Economie des machines, ecc.", Paris 1833 [p. 230].)

Utensili semplici, accumulazione di utensili, utensili composti, messa in moto d'un utensile composto ad opera di un solo motore manuale, l'uomo; messa in moto di questi strumenti ad opera delle forze naturali; macchina, sistema di macchine aventi un solo motore; sistema di macchine aventi un motore automatico: ecco il cammino delle macchine.

La concentrazione degli strumenti di produzione e la divisione del lavoro sono inseparabili l'una dall'altra quanto lo sono, nel campo politico, la concentrazione dei poteri pubblici e la divisione degli interessi privati. L'Inghilterra, infatti, con la concentrazione di quello strumento del lavoro agricolo che è la terra, ha la divisione del lavoro agricolo e la meccanica applicata allo sfruttamento della terra. La Francia, che ha la divisione dello strumento, cioè il sistema particellare, non ha invece, in generale, né divisione del lavoro agricolo, né applicazione delle macchine all'agricoltura.

Per Proudhon, la concentrazione degli strumenti di lavoro è la negazione della divisione del lavoro. Nella realtà troviamo ancora una volta il contrario. A misura che si sviluppa la concentrazione degli strumenti, si sviluppa anche la divisione del lavoro e viceversa. Per questo motivo ogni grande invenzione della meccanica ha per conseguenza una più grande divisione del lavoro, mentre ogni accrescimento nella divisione del lavoro porta a sua volta a nuove invenzioni meccaniche.

Non abbiamo bisogno di ricordare che i grandi progressi della divisione del lavoro sono cominciati in Inghilterra dopo l'invenzione delle macchine. Così i tessitori e i filatori erano per la maggior parte contadini quali se ne trovano ancora nei paesi arretrati. L'invenzione delle macchine ha completato la separazione dell'industria manifatturiera dall'industria agricola. Il tessitore e il filatore, dianzi riuniti in una sola famiglia, furono separati dalla macchina. Grazie alla macchina, il filatore può abitare in Inghilterra nello stesso momento in cui il tessitore vive nelle Indie Orientali. Prima dell'invenzione delle macchine, l'industria di un paese si esercitava principalmente sulla base delle materie prime nazionali: così in Inghilterra c'era l'industria della lana; in Germania era caratteristica quella del lino; in Francia, quelle della seta e del lino; nelle Indie Orientali, e nel Levante, quella del cotone, ecc. Grazie all'applicazione della macchina e del vapore la divisione del lavoro ha potuto assumere tali dimensioni che la grande industria, distaccata ormai dal suolo nazionale, dipende unicamente dal mercato mondiale, dagli scambi internazionali, da una divisione del lavoro internazionale. Infine, la macchina esercita tale influenza sulla divisione del lavoro, che quando nella fabbricazione di un prodotto qualsiasi si è trovato il mezzo di produrre a macchina qualche parte di esso, la sua fabbricazione si divide immediatamente in due gestioni indipendenti l'una dall'altra.

Occorre ancora parlare del fine provvidenziale e filantropico che Proudhon scopre nell'invenzione e nella prima applicazione delle macchine?

Quando in Inghilterra il mercato ebbe preso uno sviluppo tale che il lavoro manuale non poteva essere più sufficiente, si sentì il bisogno delle macchine. Si pensò allora all'applicazione della scienza meccanica, già completamente elaborata nel XVIII secolo.

Gli inizi della fabbrica meccanizzata furono caratterizzati da atti tutt'altro che filantropici. I fanciulli erano mantenuti al lavoro a colpi di frusta; se ne fece un oggetto di traffico, e si stipularono contratti con gli orfanotrofi. Si abolirono tutte le leggi sull'apprendistato degli operai, perché, per usare le espressioni di Proudhon, non si aveva più bisogno di operai sintetici. Infine, a partire dal 1825 [7], quasi tutte le nuove invenzioni furono il risultato di urti e contrasti tra l'operaio e l'imprenditore che cercava ad ogni costo di deprezzare la specializzazione dell'operaio. Dopo ogni nuovo sciopero di qualche importanza, nasceva una nuova macchina. L'operaio vedeva così poco nell'impiego delle macchine una sorta di riabilitazione, di restaurazione, come dice Proudhon, che nel XVIII secolo egli resistette per lungo tempo all'imperio nascente della macchina.

"Wyatt", dice il dottor Ure, "aveva scoperto lo stiramento meccanico" (la serie dei cilindri scanalati) "molto tempo prima di Arkwright [8] "La principale difficoltà non consisteva tanto nell'invenzione di un meccanismo automatico... La difficoltà consisteva soprattutto nella disciplina che era necessaria per far rinunziare gli uomini alle loro abitudini irregolari nel lavoro, e per farli identificare con la regolarità invariabile di un grande automa. Inventare e mettere in vigore un codice di disciplina manifatturiera, conveniente ai bisogni e alla celerità del sistema automatico, ecco invece un'impresa degna di Ercole; ed ecco appunto la nobile fatica di Arkwright." [9]

Insomma, l'introduzione delle macchine ha accresciuto la divisione del lavoro all'interno della società, ha semplificato il compito dell'operaio all'interno della fabbrica, ha concentrato il capitale e ha smembrato l'uomo ancora di più.

Proudhon, quando vuol essere economista e abbandonare per un istante "l'evoluzione nella serie dell'intelletto", va ad attingere la sua erudizione da Adam Smith, al tempo in cui la fabbrica meccanizzata era appena ai suoi albori. In effetti che differenza tra la divisione del lavoro quale esisteva al tempo di Adam Smith, e quale la vediamo nella fabbrica meccanizzata! Per far ben comprendere tale differenza, basterà citare alcuni passi della "Filosofia delle manifatture" del dottor Ure.

"Quando Adam Smith scrisse la sua opera immortale sugli elementi dell'economia politica, il sistema meccanizzato dell'industria era ancora appena conosciuto. La divisione del lavoro gli parve con ragione il grande principio del progresso nella manifattura; egli dimostrò, nel suo esempio della fabbrica di spilli, che un operaio, perfezionandosi con la pratica su di un solo e medesimo oggetto, diventa più spedito e meno costoso. In ogni ramo della manifattura, egli vide che, secondo questo principio, certe operazioni, quale il taglio dei fili di ottone in pezzi di eguale lunghezza, divengono di facile esecuzione; che altre, invece, quali la modellatura e l'applicazione delle teste di spillo, sono, in proporzione, più difficili; e ne concluse che si può molto naturalmente adattare a ciascuna di queste operazioni un operaio il cui salario corrisponda alla sua abilità. In questo adattamento sta l'essenza della divisione dei lavori. Ma ciò che poteva servire come esempio adeguato al tempo del dottor Smith non avrebbe altro risultato oggi se non di indurre il pubblico in errore relativamente ai princìpi dell'industria manifatturiera. In effetti, la distribuzione, o piuttosto l'adattamento dei lavori alle differenti capacità individuali entra ben poco nel piano d'operazione delle manifatture meccanizzate: al contrario, dovunque un qualsiasi procedimento esiga molta abilità e una mano sicura, lo si toglie al braccio dell'operaio troppo abile e perciò spesso incline a irregolarità di vario genere, per affidarlo a un meccanismo particolare, la cui operazione automatica è così ben regolata che anche un fanciullo la può sorvegliare.

Il principio del sistema automatico, dunque, sta nel sostituire il lavoro meccanico al lavoro manuale e nel sostituire la divisione del lavoro tra gli artigiani con la scomposizione di un procedimento nelle sue parti costitutive. Secondo il sistema dell'operazione manuale, la mano d'opera era, ordinariamente, l'elemento più costoso di ogni prodotto; ma, con il sistema della meccanizzazione, gli artigiani capaci vengano progressivamente sostituiti da semplici sorveglianti di macchina.

La debolezza della natura umana è tale che più l'operaio è abile, più diviene esigente e intrattabile, e di conseguenza meno è adatto a un sistema meccanizzato, al cui insieme le sue bizzarrie possono arrecare un danno considerevole. Il grande obiettivo dell'odierno padrone di manifatture è dunque di combinare la scienza con i suoi capitali in modo da ridurre il compito dei suoi operai all'esercizio della loro vigilanza e della loro prontezza: facoltà che possono essere molto ben perfezionate nella loro giovinezza, quando siano fissate su di un solo oggetto.

Nell'ambito del sistema delle gradazioni del lavoro, bisogna fare un apprendistato di parecchi anni prima che l'occhio e la mano divengano abbastanza abili per compiere certi atti di destrezza meccanici; ma nel sistema che scompone un procedimento industriale dividendolo nelle sue singole parti costitutive e che fa eseguire tutte le parti da una macchina automatica, si possono affidare queste parti elementari a una persona di capacità ordinarie, dopo averla sottoposta a un breve tirocinio; si può anche, in caso di urgenza, far passare questa persona da una macchina all'altra, a volontà del direttore dello stabilimento. Tali mutamenti sono in aperto contrasto con la vecchia prassi, che divide il lavoro, assegna a un operaio il compito di modellare le teste di spillo, a un altro quello di aguzzare le punte, lavori che, con la loro noiosa uniformità, snervano la mano d'opera... Ma, secondo il principio di egualizzazione, ossia secondo il sistema della meccanizzazione, le capacità dell'operaio sono sottoposte soltanto a un esercizio piacevole, ecc... Il suo compito è semplicemente di sorvegliare il funzionamento di un meccanismo ben regolato; egli può quindi apprenderlo in poco tempo; e quando trasferisce le sue prestazioni da una macchina a un'altra egli varia il suo compito e sviluppa le sue idee, riflettendo sulle combinazioni generali che risultano dai suoi lavori e da quelli dei suoi compagni. Così quella costrizione delle capacità, quella restrizione delle idee, quello stato di malessere del corpo, che sono stati attribuiti non a torto alla divisione del lavoro, non possono verificarsi, in circostanze ordinarie, in un sistema di eguale distribuzione dei lavori.

Lo scopo costante e la tendenza di ogni perfezionamento nel processo di meccanizzazione è in effetti di fare a meno interamente del lavoro dell'uomo o di diminuirne il prezzo, sostituendo le prestazioni delle donne e dei fanciulli a quelle dell'operaio adulto, o anche il lavoro di operai non altamente qualificati a quello di abili artigiani...Questa tendenza a impiegare fanciulli dallo sguardo pronto e dalle dita sciolte al posto di lavoratori esperti, dimostra che il dogma scolastico della divisione del lavoro secondo i diversi gradi di abilità è stato infine superato dai nostri manifatturieri illuminati." (André Ure, "Philosophie des manufactures ou économie industrielle", vol. I, cap. 1 [ pp. 28, 29, 30-31, 32-33, 34, 34-35 ].)

La caratteristica peculiare della divisione del lavoro nella società moderna sta nel fatto di generare le specializzazioni, i tipi e, con esse, l'idiotismo del mestiere.

"Noi restiamo colpiti da ammirazione", dice Lemontey, "al vedere tra gli antichi lo stesso personaggio essere al tempo stesso, e in grado eminente, filosofo, poeta, oratore, storico, sacerdote, amministratore, generale. I nostri spiriti si sbigottiscono alla vista di un campo così vasto. Ai giorni nostri ognuno pianta la sua siepe e si chiude nel suo recinto. Ignoro se con questo spezzettamento il campo si ingrandisce, ma so bene che l'uomo si rimpicciolisce." [Lemontey, loc. cit., p. 213.]

Ciò che caratterizza la divisione del lavoro nella fabbrica meccanizzata è che il lavoro vi ha perduto ogni carattere di specializzazione. Ma dal momento che ogni sviluppo speciale cessa, il bisogno di universalità, la tendenza verso uno sviluppo integrale dell'individuo, comincia a farsi sentire. La fabbrica meccanica cancella le specializzazioni e l'idiotismo del mestiere.

Proudhon non ha neppure compreso questo, che è il solo aspetto rivoluzionario della fabbrica meccanizzata; egli fa perciò un passo indietro e propone all'operaio di fare non soltanto la dodicesima parte di uno spillo, ma tutte le dodici parti successivamente. L'operaio arriverebbe così alla scienza e alla coscienza dello spillo. Ecco cos'è il lavoro sintetico di Proudhon. Nessuno contesterà che fare un movimento in avanti ed un altro indietro significa anche fare un movimento sintetico.

Riassumendo, Proudhon non è andato di là dall'ideale del piccolo borghese. E per realizzare questo ideale egli non sa immaginare niente di meglio che riportarci al lavorante, o, tutt'al più, al maestro artigiano del medioevo. Basta, ci dice nel suo libro, aver fatto una sola volta nella propria vita un capolavoro, per essersi sentiti una sola volta uomini. Non è questo, tanto per la forma come per la sostanza, il capolavoro richiesto dalla corporazione di mestiere del medioevo?

3. La concorrenza e il monopolio

Lato buono della concorrenza

"La concorrenza è così essenziale al lavoro come la divisione... Essa è necessaria all'avvento dell'eguaglianza." [I, pp. 186 e 188.]

Lato cattivo della concorrenza

Il principio è la negazione di se stesso. Il suo effetto più certo è di perdere quelli che esso trascina."[I, p. 185.]

Riflessione generale

Gli inconvenienti che ne conseguono, come il bene che esso procura, derivano logicamente gli uni e l'altro dal principio." [I, pp. 185-186.]

 

Ricercare il principio di accomodamento, che deve derivare da una legge superiore alla libertà stessa." [I, p. 185.]

Problema da risolvere

V a r i a n t e

 

"Non si pone qui il problema di distruggere la concorrenza, cosa impossibile come distruggere la libertà; si tratta, invece, di trovarne l'equilibrio, starei per dire la polizia." [I, p. 223.]

Proudhon comincia col difendere la necessità eterna della concorrenza contro coloro che la vogliono sostituire con l'emulazione [*9].

Non vi è "emulazione senza scopo", e poiché

"l'oggetto di ogni passione è necessariamente analogo alla passione stessa, una donna per l'innamorato, il potere per l'ambizioso, l'oro per l'avaro, una corona d'alloro per il poeta, l'oggetto dell'emulazione industriale è necessariamente il profitto. L'emulazione, dunque, non è altro che la concorrenza stessa". [I, p. 187.]

La concorrenza è l'emulazione in vista del profitto. Ma l'emulazione industriale è necessariamente emulazione in vista del profitto, e cioè concorrenza? Proudhon lo prova affermandolo. L'abbiamo già visto: affermare per lui significa provare, come presupporre significa negare.

Se l'oggetto immediato dell'innamorato è la donna, l'oggetto immediato dell'emulazione industriale è il prodotto, e non il profitto.

La concorrenza non è l'emulazione industriale, è l'emulazione commerciale. Ai giorni nostri, l'emulazione industriale non esiste se non in relazione al commercio. Si verificano persino, nella vita economica dei popoli moderni, fasi particolari, in cui tutti sono presi da una sorta di vertigine, a causa della possibilità di realizzare profitti senza produrre. Questa vertigine speculativa, che ritorna periodicamente, mette a nudo il vero carattere della concorrenza, che cerca appunto di sfuggire alla necessità dell'emulazione industriale.

Se aveste detto a un artigiano del XIV secolo che si era sul punto di abrogare i privilegi e tutta l'organizzazione feudale dell'industria, per sostituirvi l'emulazione industriale detta concorrenza, egli vi avrebbe risposto che i privilegi delle diverse corporazioni, i corpi dei consoli e dei maestri d'arte, sono proprio la concorrenza organizzata. Proudhon non dice nulla di meglio affermando che "l'emulazione non è altro che la concorrenza stessa".

"Ordinate che a partire dal 1° gennaio 1847 il lavoro e il salario siano garantiti a tutti: immediatamente un immenso rilassamento succederà alla tensione ardente dell'industria." [I, p. 189.]

In luogo di una supposizione, di una affermazione e di una negazione, abbiamo ora un'ordinanza che Proudhon pronunzia espressamente per provare la necessità della concorrenza, la sua eternità come categoria, ecc.

Se si immagina che bastino delle ordinanze per uscire dalla concorrenza, non se ne uscirà mai. E se si spingono le cose fino a proporre l'abolizione della concorrenza, pur conservando il salario, si proporrà di fare un non-senso per decreto reale. Ma i popoli non procedono per decreto reale. Prima di poter emettere simili decreti essi debbono, almeno, aver cambiato da cima a fondo le loro condizioni di esistenza industriale e politica e, di conseguenza, tutto il loro modo di essere.

Proudhon risponderà, con la sua imperturbabile sicurezza, che questo è il presupposto di una "trasformazione della nostra natura senza preliminari condizioni" [I, p. 191], e che egli avrebbe il diritto "di escluderci dalla discussione" [ibid.], non sappiamo in virtù di quale decreto.

Proudhon ignora che tutta la storia non è che una trasformazione continua della natura umana.

"Atteniamoci ai fatti. La Rivoluzione francese è stata compiuta sia per la libertà industriale che per la libertà politica, e quantunque la Francia nel 1789, diciamolo apertamente, non avesse intravisto tutte le conseguenze del principio di cui domandava la realizzazione, pure non si è ingannata, né nei suoi voti, né nella sua attesa. Chiunque tentasse di negarlo, perderebbe ai miei occhi diritto alla critica; io non discuto mai con un avversario che ponga come possibile in linea di principio l'errore volontario di venticinque milioni di uomini... Perché dunque, se la concorrenza non fosse un principio dell'economia, un decreto del destino, una necessità dell'anima umana, perché invece di abolire le corporazioni e le cariche di maestro d'arte e di console non si pensava a restaurare il tutto?" [I, pp. 191-192.]

Così poiché i francesi del XVIII secolo hanno abolito le corporazioni e le cariche di maestro d'arte e di console invece di correggerle, i francesi del XIX secolo debbono correggere la concorrenza invece di abolirla. Poiché la concorrenza si è imposta in Francia, nel XVIII secolo, come conseguenza di bisogni storici, questa concorrenza non deve essere distrutta nel XIX secolo a causa di altri bisogni storici. Proudhon, non comprendendo che l'instaurarsi della concorrenza era legato allo sviluppo reale degli uomini del XVIII secolo, fa della concorrenza una necessità dell'anima umana in partibus infidelium [10]. Che avrebbe fatto del Grand Colbert per il XVII secolo?

Dopo la rivoluzione venne lo stato di cose attuale. Proudhon vi attinge egualmente dei fatti per dimostrare l'eternità della concorrenza, provando che tutte le industrie nelle quali questa categoria non è ancora abbastanza sviluppata, come l'agricoltura, sono in uno stato di inferiorità, di deperimento.

Dire che vi sono industrie che non sono ancora pervenute allo stadio della concorrenza, che altre sono ancora al di sotto del livello della produzione borghese, è un'insulsaggine che non prova per nulla l'eternità della concorrenza.

Tutta la logica di Proudhon si riassume in questo: la concorrenza è un rapporto sociale nell'ambito del quale sviluppiamo attualmente le nostre forze produttive. Egli dà a questa verità non già degli sviluppi logici, ma semplicemente delle forme, che sono spesso pronunciatamente sviluppate, dicendo che la concorrenza è l'emulazione industriale, è la maniera attuale di essere liberi, la responsabilità nel lavoro, la costituzione del valore, una condizione per l'avvento dell'eguaglianza, un principio dell'economia sociale, un decreto del destino, una necessità dell'anima umana, una ispirazione della giustizia eterna, la libertà nella divisione, la divisione nella libertà, una categoria economica.

"La concorrenza e l'associazione si appoggiano l'una sull'altra. Lungi dall'escludersi, esse non sono neppure divergenti. Chi dice concorrenza, presuppone già fine comune. La concorrenza non è dunque l'egoismo; e il socialismo ha commesso il più deplorevole dei suoi errori a considerarla come il rovesciamento della società." [I, p.223.]

Chi dice concorrenza dice fine comune e ciò prova, da un lato, che la concorrenza è l'associazione; dall'altro, che la concorrenza non è l'egoismo. E chi dice egoismo non dice forse scopo comune? Ogni egoismo si esercita nella società e mediante la società. Esso presuppone dunque la società, cioè scopi comuni, bisogni comuni, mezzi di produzione comuni, ecc. ecc. È dunque un puro caso che la concorrenza e l'associazione, di cui parlano i socialisti, non sono neppure divergenti?

I socialisti sanno molto bene che la società attuale è fondata sulla concorrenza. Come potrebbero rimproverare alla concorrenza di rovesciare la società attuale che essi stessi vogliono rovesciare? E come potrebbero rimproverare alla concorrenza di rovesciare la società avvenire, nella quale essi vedono al contrario il rovesciamento della concorrenza?

Proudhon dice più oltre che la concorrenza è l'opposto del monopolio, e che, di conseguenza, essa non potrebbe essere l'opposto dell'associazione.

Il feudalesimo, alla sua origine, era opposto alla monarchia patriarcale; quindi non era opposto alla concorrenza, la quale, per altro, non esisteva ancora. Ne segue forse che la concorrenza non è opposta al feudalesimo?

Nei fatti, società, associazione, sono denominazioni che possono darsi a tutte le società, alla società feudale come alla società borghese, che è l'associazione fondata sulla concorrenza. Come dunque possono esservi dei socialisti, i quali, per mezzo della sola parola associazione, credono di poter confutare la concorrenza? E come può Proudhon stesso voler difendere la concorrenza contro il socialismo, designando a concorrenza col termine unico di associazione?

Tutto quel che abbiamo detto fin qui costituisce il lato buono della concorrenza, quale l'intende Proudhon. Passiamo ora al lato spiacevole, cioè al lato negativo della concorrenza, ai suoi inconvenienti, a ciò che essa ha di distruttivo, di sovversivo: alle sue proprietà malefiche.

Il quadro che ne fa Proudhon ha degli aspetti lugubri.

La concorrenza genera la miseria, fomenta la guerra civile, "modifica le zone naturali", confonde le nazionalità, sconvolge le famiglie, corrompe la coscienza pubblica, "sovverte le nozioni dell'equità, della giustizia", della morale, e, ciò che è peggio, distrugge il commercio probo e libero, mentre non dà neppure in compenso il valore sintetico, il prezzo fisso ed onesto. Essa delude tutti, anche gli economisti. Essa spinge le cose fino a distruggere se stessa.

Dopo tutto quel che di male ne dice Proudhon può esserci, per i suoi princìpi e le sue illusioni, per i rapporti della società borghese, un elemento più dissolvente, più distruttivo della concorrenza?

Si noti bene che la concorrenza diviene sempre più distruttiva per i rapporti borghesi, quanto più stimola a creare febbrilmente nuove forze produttive, cioè le condizioni materiali di una società nuova. Sotto questo rapporto, almeno, il lato cattivo della concorrenza avrebbe qualcosa di buono.

"La concorrenza come posizione o fase economica, considerata nella sua origine, è il risultato necessario... della teoria della riduzione delle spese di produzione." [I, p.235.]

Per Proudhon, la circolazione del sangue deve essere una conseguenza della teoria di Harvey.

"Il monopolio è il termine fatale della concorrenza, che lo genera mediante una continua negazione di se stessa. Questa generazione del monopolio ne è già la giustificazione... Il monopolio è l'opposto naturale della concorrenza... Ma dal momento che la concorrenza è necessaria, essa implica l'idea del monopolio, poiché il monopolio è come il seggio su cui posa ogni individualità concorrente." [I, pp. 236 e 237.]

Ci rallegriamo con Proudhon che almeno una volta egli possa applicare bene la sua formula di tesi e di antitesi. Tutti sanno che il monopolio moderno è generato dalla concorrenza stessa.

Quanto al contenuto, Proudhon si limita ad immagini poetiche.

La concorrenza faceva "di ogni suddivisione del lavoro come una sovranità, dove ogni individuo si poneva nella sua forza e nella sua indipendenza". [I, p. 186.] Il monopolio è "il seggio su cui posa ogni individualità concorrente". La sovranità comporta almeno il seggio.

Proudhon parla solo del monopolio moderno, creato dalla concorrenza. Ma noi tutti sappiamo che la concorrenza è stata generata dal monopolio feudale. Così all'origine la concorrenza era il contrario del monopolio, e non il monopolio il contrario della concorrenza. Dunque, il monopolio moderno non è una semplice antitesi, è al contrario la vera sintesi.

Tesi: Il monopolio feudale, predecessore della concorrenza.

Antitesi: La concorrenza.

Sintesi: Il monopolio moderno, che è la negazione del monopolio feudale, in quanto presuppone il regime della concorrenza, e che è la negazione della concorrenza in quanto è monopolio.

Così il monopolio moderno, il monopolio borghese, è il monopolio sintetico, la negazione della negazione, l'unità dei contrari. È il monopolio allo stato puro, normale, razionale. Proudhon è in contraddizione con la sua stessa filosofia, quando fa del monopolio borghese il monopolio allo stato grezzo, semplicistico, contraddittorio, spasmodico. Rossi, che Proudhon cita parecchie volte a proposito del monopolio, sembra aver afferrato meglio il carattere sintetico del monopolio borghese. Nel suo "Cours d'économie politique", distingue tra monopoli artificiali e monopoli naturali. I monopoli feudali, egli dice, sono artificiali, cioè arbitrari; i monopoli borghesi sono naturali, cioè razionali.

Il monopolio è una buona cosa, ragiona Proudhon, poiché è una categoria economica, un'emanazione "della ragione impersonale dell'umanità". La concorrenza è anch'essa una cosa buona, poiché anch'essa è una categoria economica. Ma quel che non è buono, è la realtà del monopolio e la realtà della concorrenza. E ancora peggiore è il fatto che la concorrenza e il monopolio si divorano a vicenda. Che fare? Bisogna cercare la sintesi di queste due idee eterne: strapparla dal seno di Dio, dove è deposta da tempo immemorabile.

Nella vita pratica si trovano non soltanto la concorrenza, il monopolio e il loro antagonismo, ma anche la loro sintesi, che non è una formula, ma un movimento. Il monopolio produce la concorrenza, la concorrenza produce il monopolio. I monopolisti si fanno concorrenza, i concorrenti divengono monopolisti. Se i monopolisti limitano la concorrenza tra loro con associazioni parziali, la concorrenza si accresce tra gli operai; e più la massa dei proletari si accresce di fronte ai monopolisti di una nazione, più la concorrenza tra i monopolisti di differenti nazioni diventa sfrenata. La sintesi è tale, che il monopolio non può mantenersi se non entrando continuamente nella lotta della concorrenza.

Per passare dialetticamente alle imposte, che vengono dopo il monopolio, Proudhon ci parla del genio sociale che, dopo aver seguito intrepidamente la sua strada a zig-zag,

"dopo aver marciato con passo sicuro, senza pentimenti e senza esitazioni, arrivato all'angolo del monopolio, volge indietro un melanconico sguardo e, dopo una riflessione profonda, colpisce di imposte tutti gli oggetti della produzione, e crea tutta una organizzazione amministrativa, affinché tutte le funzioni siano affidate al proletariato e pagate dagli uomini del monopolio". [I, pp. 284-285.]

Che dire di questo genio che, digiuno, passeggia a zig-zag? E che dire di questa passeggiata che avrebbe l'unico scopo di demolire i borghesi per mezzo delle imposte, mentre le imposte servono precisamente a fornire ai borghesi i mezzi per conservarsi come classe dominante?

Per far intravvedere soltanto la maniera nella quale Proudhon tratta i particolari economici, basterà dire che, secondo lui, l'imposta sul consumo sarebbe stata stabilita in vista dell'eguaglianza, e per venire in aiuto del proletariato.

L'imposta sul consumo ha preso il suo pieno sviluppo solo dopo l'avvento della borghesia. Nelle mani del capitale industriale, cioè della ricchezza sobria ed economa che si mantiene, si riproduce, si ingrandisce attraverso lo sfruttamento diretto del lavoro, l'imposta sul consumo era un mezzo per sfruttare la ricchezza frivola, gioiosa, prodiga, dei gran signori che non facevano che consumare. James Steuart ha esposto molto bene questo scopo primitivo dell'imposta sul consumo nella sua "Inquiry into the Principles of Political Economy", che egli ha pubblicato dieci anni prima di A. Smith.

"Nella monarchia assoluta", egli dice, "i principi sembrano gelosi in qualche modo dell'accrescimento delle ricchezze, e di conseguenza mettono delle imposte a coloro che divengono ricchi (imposte sulla produzione). Nel governo costituzionale, esse ricadono principalmente su coloro che divengono poveri (imposte sul consumo). Così, i monarchi mettono un'imposta sull'industria... per esempio la capitazione e la taglia sono proporzionate alla supposta opulenza di quelli che vi sono soggetti. Ciascuno è tassato in ragione del profitto che si suppone egli faccia. Nei paesi costituzionali le imposte sono generalmente applicate sul consumo." [II, pp. 190-191.] [11]

Ciascuno è tassato in ragione della spesa che fa.

Per quanto riguarda - nell'intendimento di Proudhon - la successione logica delle imposte, della bilancia commerciale, del credito, faremo osservare soltanto che la borghesia inglese, pervenuta sotto Guglielmo d'Orange alla sua costituzione politica, creò subito un nuovo sistema d'imposte, il credito pubblico e il sistema dei diritti protettivi, non appena fu in grado di sviluppare liberamente le sue condizioni di esistenza.

Questo accenno basterà per dare al lettore una giusta idea delle elucubrazioni di Proudhon sulla polizia o l'imposta, la bilancia commerciale, il credito, il comunismo e la popolazione. Sfidiamo la critica, anche la più indulgente, a discutere con serietà questi capitoli.  :

 

 

4. La proprietà fondiaria o la rendita

In ogni epoca storica la proprietà si è sviluppata diversamente e in rapporti sociali interamente differenti. Così, definire la proprietà borghese non significa altro che descrivere tutti i rapporti sociali della produzione borghese.

Voler dare una definizione della proprietà come d'un rapporto indipendente, di una categoria a parte, di un'idea astratta ed eterna, non può essere che un'illusione della metafisica o della giurisprudenza.

Proudhon, pur avendo tutta l'aria di parlare della proprietà in generale, non tratta in effetti che della proprietà fondiaria, della rendita fondiaria.

"L'origine della proprietà fondiaria è per così dire extraeconomica: essa risiede in considerazioni di psicologia e di morale che riguardano solo molto da lontano la produzione delle ricchezze." (Vol. II, p. 269.)

Così, Proudhon si riconosce incapace di comprendere l'origine economica della rendita e della proprietà. Egli ammette che questa incapacità l'obbliga a ricorrere a considerazioni di psicologia e di morale che, riguardando effettivamente molto da lontano la produzione delle ricchezze, riflettono tuttavia molto da vicino l'angustia delle sue vedute storiche. Proudhon afferma che l'origine della proprietà ha qualcosa di mistico e di misterioso. Ora veder del mistero nell'origine della proprietà, cioè trasformare in un mistero il rapporto in cui è la produzione stessa con la distribuzione degli strumenti di produzione, non significa, per parlare il linguaggio di Proudhon, rinunziare ad ogni pretesa di scienza economica?

Proudhon

"si limita a ricordare che nella settima epoca dell'evoluzione economica, quella del credito, - avendo la finzione fatto scomparire la realtà, e minacciando l'attività umana di perdersi nel vuoto, era divenuto necessario riallacciare più fortemente l'uomo alla natura: ebbene, la rendita è il prezzo di questo nuovo contratto" (Vol. II, p. 265.)

L'uomo dai quaranta scudi [12] ha presentito un futuro Proudhon.

"Signor creatore, fate quel che volete: ciascuno è padrone del suo proprio mondo, ma non mi farete mai credere che quello in cui ci troviamo sia di vetro."

Nel vostro mondo, dove il credito è un mezzo per perdersi nel vuoto, è ben possibile che la proprietà sia divenuta necessaria per riallacciare l'uomo alla natura. Ma nel mondo della produzione reale, dove la proprietà fondiaria precede sempre il credito, l'horror vacui [*10] di Proudhon non poteva esistere.

Ammessa l'esistenza della rendita, quale che ne sia l'origine, essa è oggetto di dibattito contraddittorio tra il fittavolo e il proprietario fondiario. Qual è il risultato finale di questo dibattito o, in altre parole, qual è la quota media della rendita? Ecco quel che dice Proudhon:

"La teoria di Ricardo risponde a questa domanda. Agli inizi della società, quando l'uomo, nuovo sulla terra, aveva davanti a sé solo l'immensità delle foreste, quando la terra era vasta e l'industria cominciava appena a nascere, la rendita dovette essere nulla. La terra, non ancora trasformata dal lavoro, era un oggetto d'uso; non era un valore di scambio: esso era comune, non sociale. A poco a poco il moltiplicarsi delle famiglie e il progresso dell'agricoltura fecero avvertire il valore della terra. Il lavoro conferì al suolo il suo valore: di là nacque la rendita. Più prodotti poteva dare un campo con la stessa quantità di lavoro, più era stimato; così la tendenza del proprietario fu sempre quella di appropriarsi la totalità dei prodotti del suolo, meno il salario del fittavolo, cioè meno le spese di produzione. Così la proprietà tiene dietro al lavoro per togliergli tutto quello che, nel prodotto, oltrepassa le spese reali. Adempiendo così il proprietario ad un dovere mistico, e rappresentando egli di fronte al colono la comunità, nelle disposizioni della provvidenza il fittavolo è un semplice lavoratore responsabile, che deve render conto alla società di tutto quel che egli raccoglie in più del suo salario legittimo... Per essenza e destinazione, la rendita è dunque uno strumento di giustizia distributiva, uno dei mille mezzi che il genio economico mette in opera per giungere all'eguaglianza. È un immenso catasto eseguito contraddittoriamente dai proprietari e dai fittavoli, che però esclude ogni conflitto in un interesse superiore; e il cui risultato finale deve essere di eguagliare il possesso della terra tra gli sfruttatori del suolo e gli industriali... Occorreva proprio questa magia della proprietà per poter strappare al coltivatore l'eccedenza del prodotto, che egli non può fare a meno di considerare come suo, e di cui si considera l'unico autore. La rendita, o per meglio dire la proprietà, ha infranto l'egoismo agricolo e creato una solidarietà che nessuna potenza, nessuna spartizione della terra avrebbe potuto far nascere... Oggi come oggi, ottenuto l'effetto morale della proprietà, resta da fare la distribuzione della rendita." [II, pp. 270-272.]

Tutto questo fracasso verbale si riduce innanzitutto a questo: Ricardo dice che l'eccedenza del prezzo dei prodotti agricoli sulle loro spese di produzione, ivi compresi il profitto e l'interesse ordinari del capitale, dà la misura della rendita. Proudhon fa di meglio. Fa intervenire il proprietario come un deus ex machina che strappa al colono tutta l'eccedenza della sua produzione sulle spese di produzione. Egli si serve dell'intervento del proprietario per spiegare la proprietà, dell'intervento del rentier per spiegare la rendita. Egli risponde al problema formulando il medesimo problema e aumentandolo ancora di una sillaba.

Osserviamo ancora che, determinando la rendita in base alla differenza di fertilità della terra, Proudhon le assegna una nuova origine, poiché la terra, prima di essere stimata in base ai diversi gradi di fertilità, "non era", secondo lui, "un valore di scambio, ma era comune". Dov'è finita, dunque, questa finzione della rendita che aveva tratto origine dalla necessità di ricondurre alla terra l'uomo che stava per perdersi nell'infinito del vuoto?

Liberiamo ora la dottrina di Ricardo dalle frasi provvidenziali, allegoriche e mistiche nelle quali Proudhon ha avuto cura di avvolgerla.

La rendita, nel senso datole da Ricardo, è la proprietà fondiaria nella sua forma borghese: cioè la proprietà feudale che ha subìto le condizioni della produzione borghese.

Abbiamo visto che, secondo la dottrina di Ricardo, il prezzo di tutti gli oggetti è in ultima istanza determinato dalle spese di produzione, ivi compreso il profitto industriale; in altri termini, dal tempo di lavoro impiegato. Nell'industria manifatturiera, il prezzo del prodotto ottenuto col minimo di lavoro regola il prezzo di tutte le altre merci della stessa specie, dal momento che si possono moltiplicare all'infinito gli strumenti di produzione meno costosi e più produttivi, e che la libera concorrenza determina un prezzo di mercato, cioè un prezzo comune per tutti i prodotti della stessa specie.

Nell'industria agricola, al contrario, è il prezzo del prodotto ottenuto dalla più grande quantità di lavoro che regola il prezzo di tutti i prodotti della stessa specie. In primo luogo, non si può, come nell'industria manifatturiera, moltiplicare a volontà gli strumenti di produzione di uguale produttività, ossia i terreni ugualmente fertili. In secondo luogo, a misura che la popolazione si accresce, si cominciano a sfruttare terreni di qualità inferiore, o ad introdurre sullo stesso terreno nuovi investimenti di capitale, proporzionalmente meno produttivi dei primi. Nell'un caso e nell'altro s'impiega una maggiore quantità di lavoro per ottenere un prodotto proporzionalmente minore. Ma poiché è il bisogno della popolazione che ha reso necessario questo aumento di lavoro, il prodotto del terreno a sfruttamento più costoso trova il suo necessario smercio esattamente come quello del terreno a sfruttamento meno costoso. Livellando la concorrenza il prezzo di mercato, il prodotto del terreno migliore sarà pagato ad un prezzo alto quanto quello del terreno peggiore. L'eccedenza del prezzo dei prodotti del terreno migliore sulle loro spese di produzione costituisce dunque la rendita. Se si avessero sempre a disposizione terreni di uguale fertilità; se si potesse, come nell'industria manifatturiera, ricorrere costantemente alle macchine meno costose e più produttive, o se i successivi investimenti di capitale producessero quanto i primi, allora sì che il prezzo dei prodotti agricoli sarebbe determinato dal prezzo di costo delle derrate prodotte dai migliori strumenti di produzione, come abbiamo visto per il prezzo dei prodotti manufatti. Ma anche la rendita, in questo caso, sarebbe scomparsa.

Perché la dottrina di Ricardo [*11] sia generalmente valida, è necessario che i diversi rami dell'industria siano aperti al capitale; che una concorrenza fortemente sviluppata tra i capitalisti abbia portato i profitti a un tasso eguale; che l'imprenditore agricolo sia semplicemente un capitalista industriale che, dovendo investire il suo capitale in terreni di qualità inferiore [*12] vuole un profitto eguale a quello che egli trarrebbe dal suo capitale investito, per esempio, nell'industria cotoniera; che l'agricoltura sia praticata secondo il sistema della grande industria; che, infine, lo stesso proprietario fondiario miri solo al reddito monetario.

In Irlanda la rendita non esiste ancora, quantunque l'affitto della terra vi abbia preso un estremo sviluppo. Essendo la rendita l'eccedente non soltanto sul salario, ma anche sul profitto industriale, non può esistere laddove, come in Irlanda, il reddito del proprietario non è che un prelevamento sul salario.

Dunque, ben lungi dal fare del coltivatore, del fittavolo, un semplice lavoratore, e "di strappare al colono l'eccedente del prodotto che egli non può fare a meno di considerare come suo", la rendita mette di fronte al proprietario fondiario, invece dello schiavo, del servo, del tributario, del salariato, il capitalista industriale [*13]. La proprietà fondiaria, una volta costituitasi in rendita, non ha più in suo possesso che l'eccedente sui costi di produzione, determinati non soltanto dal salario, ma anche dal profitto industriale. La rendita ha dunque strappato al proprietario fondiario una parte del suo reddito. Così ha dovuto trascorrere un gran lasso di tempo prima che il contadino feudale fosse sostituito dal capitalista industriale. In Germania, per esempio, questa trasformazione non è cominciata che nell'ultimo terzo del XVIII secolo. Solo in Inghilterra questo rapporto fra il capitalista industriale e il proprietario fondiario ha avuto uno sviluppo completo.

Finché c'era solo il colono di Proudhon, non c'era rendita. Da quando vi è rendita, il colono non è l'imprenditore agricolo, ma l'operaio è il colono dell'imprenditore agricolo. L'avvilimento del lavoratore, ridotto al rango di semplice giornaliero, di salariato che lavora per il capitalista industriale, la comparsa del capitalista industriale che sfrutta la terra come qualsiasi fabbrica, la trasformazione del proprietario fondiario da piccolo sovrano in usuraio volgare: ecco i vari rapporti espressi dalla rendita.

La rendita, nel senso dato da Ricardo, è l'agricoltura patriarcale trasformata in industria commerciale, il capitale industriale applicato alla terra, la borghesia delle città trapiantata nelle campagne. La rendita, invece di legare l'uomo alla natura, ha soltanto legato lo sfruttamento della terra alla concorrenza. Una volta costituita come rendita, la proprietà fondiaria stessa è il risultato della concorrenza, poiché da questo momento essa dipende dal valore di mercato dei prodotti agricoli. Come rendita, la proprietà fondiaria viene mobilizzata e diventa un "articolo di commercio". La rendita diviene possibile solo dal momento in cui lo sviluppo dell'industria nelle città e l'organizzazione sociale che ne risulta obbligano il proprietario fondiario a mirare unicamente al profitto venale, al controvalore monetario dei suoi prodotti agricoli, a vedere infine nella sua proprietà fondiaria solo una macchina per battere moneta. La rendita ha staccato il proprietario fondiario dal suolo, dalla natura, in modo così completo che egli non ha neanche bisogno di conoscere le sue terre, come possiamo appunto constatare in Inghilterra. Quanto all'imprenditore agricolo, al capitalista industriale e all'operaio agricolo, essi non sono legati alla terra che sfruttano più di quanto l'imprenditore e l'operaio delle manifatture lo siano al cotone o alla lana che lavorano; essi provano attaccamento solo per il prezzo del loro impiego, solo per il prodotto monetario. Di qui le geremiadi dei partiti reazionari, che invocano con tutta l'anima il ritorno al feudalesimo, alla buona vita patriarcale, ai costumi semplici e alle grandi virtù dei nostri avi. L'assoggettamento del suolo alle leggi che regolano tutte le altre industrie è, e sarà sempre, oggetto di lamentele interessate. Si può dunque dire che la rendita è divenuta la forza motrice che ha lanciato l'idillio nel movimento della storia.

Ricardo, dopo aver presupposto la produzione borghese come necessaria per determinare la rendita, l'applica tuttavia alla proprietà fondiaria di tutte le epoche e di tutti i paesi. È l'errore di tutti gli economisti, che rappresentano i rapporti della produzione borghese come categorie eterne.

Dal fine provvidenziale della rendita, che è per lui la trasformazione del colono in lavoratore responsabile, Proudhon passa alla ridistribuzione egualitaria della rendita.

La rendita, come abbiamo visto, è costituita dal prezzo eguale dei prodotti di terreni d'ineguale fertilità, di modo che un ettolitro di grano che è costato 10 franchi si vende a 20 franchi, se le spese di produzione per un terreno di qualità inferiore si elevano a 20 franchi.

Finché il bisogno costringe a comprare tutti i prodotti agricoli portati sul mercato, il prezzo di mercato è determinato dal costo del prodotto più costoso. È dunque questo livellamento del prezzo, risultante dalla concorrenza e non dalla differente fertilità dei terreni, che procura al proprietario del terreno migliore una rendita di 10 franchi per ogni ettolitro venduto dal suo fittavolo.

Supponiamo un momento che il prezzo del grano sia determinato dal tempo di lavoro necessario per produrlo; immediatamente l'ettolitro di grano ottenuto sul terreno migliore si venderà a 10 franchi, mentre quello ottenuto sul terreno di qualità inferiore sarà pagato 20 franchi. Ciò ammesso, il prezzo medio di mercato sarà di 15 franchi, mentre, secondo la legge della concorrenza, esso è di 20 franchi. Se il prezzo medio fosse di 15 franchi, non vi sarebbe luogo ad alcuna distribuzione, né egualitaria, né altro, perché non vi sarebbe rendita. La rendita infatti esiste semplicemente per il fatto che l'ettolitro di grano che costa 10 franchi al produttore è venduto a 20 franchi. Proudhon suppone l'eguaglianza del prezzo di mercato con costi di produzione ineguali, per giungere alla ridistribuzione egualitaria del prodotto dell'ineguaglianza.

Comprendiamo bene che economisti come Mill [*14], Cherbuliez, Hilditch [13] e altri abbiano domandato che la rendita sia assegnata allo Stato per servire al pagamento delle imposte. È questa la scoperta espressione dell'odio nutrito dal capitalista industriale per il proprietario fondiario, che gli appare come un'inutilità, una superfetazione, nell'insieme della produzione borghese.

Ma cominciare col far pagare l'ettolitro di grano 20 franchi, per poi fare una distribuzione generale dei 10 franchi di troppo prelevati sui consumatori, basta questo perché il genio sociale, prosegua melanconicamente per la sua strada a zig-zag, e vada a rompersi la testa contro un angolo qualsiasi.

La rendita diviene, sotto la penna di Proudhon,

"un immenso catasto, eseguito contraddittoriamente dai proprietari e dai fittavoli... in un interesse superiore; e il cui risultato finale deve essere di eguagliare il possesso della terra tra gli sfruttatori del suolo e gli industriali". [II, p.271.]

Perché un catasto qualsiasi, formato sulla base della rendita, abbia un valore pratico, bisogna sempre restare nelle condizioni della società attuale.

Ora, abbiamo dimostrato che il fitto pagato dal fittavolo al proprietario s'avvicina ad esprimere esattamente la rendita solo nei paesi più avanzati nell'industria e nel commercio. Inoltre, questo fitto comprende spesso l'interesse pagato al proprietario per il capitale incorporato nella terra. La posizione dei terreni, la vicinanza delle città e molte altre circostanze ancora influiscono sul fitto e modificano la rendita. Queste ragioni perentorie basterebbero per provare l'inesattezza di un catasto basato sulla rendita.

D'altra parte, la rendita non può essere l'indice costante del grado di fertilità di un terreno, poiché l'applicazione moderna della chimica può cambiare in ogni momento la natura del terreno, e poiché le conoscenze geologiche cominciano, proprio ai nostri giorni, a capovolgere tutta l'antica valutazione della fertilità relativa: appena da venti anni, all'incirca, si sono cominciati a dissodare nelle contee orientali dell'Inghilterra vasti terreni che si lasciavano incolti poiché non si era convenientemente valutato il rapporto tra l'humus e la composizione del sottosuolo.

Così la storia, lungi dal dare nella rendita un catasto bello e fatto, non fa che cambiare, rovesciare totalmente i catasti esistenti.

Infine, la fertilità non è una qualità così naturale come si potrebbe credere; essa è connessa intimamente con i rapporti sociali del momento. Una terra può essere molto fertile per la cerealicoltura, e tuttavia il prezzo di mercato potrà spingere il coltivatore a trasformarla in pascolo artificiale e a renderla così improduttiva.

Proudhon ha improvvisato il suo catasto, che non vale neppure il catasto ordinario, solo per dare un contenuto allo scopo provvidenzialeegualitario della rendita.

"La rendita", continua Proudhon, "è l'interesse pagato per un capitale che non deperisce mai, cioè la terra. E siccome questo capitale non è suscettibile di alcun aumento, quanto alla materia, ma soltanto d'un miglioramento indefinito quanto all'utilizzazione, succede che mentre l'interesse o il beneficio del prestito (mutuum) tende a diminuire senza posa a causa dell'abbondanza di capitali, la rendita tende ad aumentare sempre a causa del perfezionamento dell'industria e del conseguente miglioramento nell'uso della terra... Tale è, nella sua essenza, la rendita." (Vol. II, p.265.)

Questa volta Proudhon vede nella rendita tutte le caratteristiche dell'interesse, ad eccezione del fatto che essa proviene da un capitale di natura particolare. Questo capitale è la terra, capitale eterno,

"che non è suscettibile di nessun aumento, quanto alla materia, ma soltanto d'un miglioramento indefinito quanto all'utilizzazione" [ II, p. 265.]

Nel cammino progressivo della civiltà, l'interesse ha una tendenza continua verso il basso, mentre la rendita tende continuamente verso l'alto. L'interesse diminuisce a causa dell'abbondanza dei capitali; la rendita aumenta con i perfezionamenti apportati nell'industria, i quali hanno per conseguenza una utilizzazione sempre migliore della terra.

Tale è, nella sua essenza, l'opinione di Proudhon.

Esaminiamo, in primo luogo, fino a che punto è giusto dire che la rendita è l'interesse di un capitale.

Per lo stesso proprietario fondiario la rendita rappresenta l'interesse del capitale che la terra gli è costata, o che egli ne trarrebbe se la vendesse. Ma comprando o vendendo la terra, egli compra o vende soltanto la rendita. Il prezzo che paga per comprare la rendita, si regola sul tasso generale dell'interesse e non ha niente a che fare con la natura della rendita come tale. L'interesse dei capitali investiti in terreni è, in generale, inferiore a quello dei capitali investiti nelle manifatture o nel commercio. Così per chi non distingue l'interesse, che la terra rappresenta per il proprietario, dalla rendita stessa, l'interesse della terra-capitale diminuisce ancor più dell'interesse degli altri capitali. Ma non si tratta del prezzo di acquisto o di vendita della rendita, del valore di mercato della rendita, della rendita capitalizzata, si tratta della rendita stessa.

Il fitto può comprendere, oltre la rendita propriamente detta, anche l'interesse del capitale investito nella terra. Allora il proprietario riceve questa parte del fitto non come proprietario, ma come capitalista; tuttavia non è questa la rendita propriamente detta, come la si deve definire esattamente.

La terra, finché non è sfruttata come mezzo di produzione, non è un capitale. Le terre-capitali possono essere aumentate proprio come tutti gli altri strumenti di produzione. Non si aggiunge niente alla materia, per parlare il linguaggio di Proudhon, ma si aumentano le terre che servono da strumento di produzione. Basta applicare a terre già trasformate in mezzi di produzione ulteriori investimenti di capitale, per aumentare la terra-capitale senza aggiungere nulla alla terra-materia, cioè all'estensione della terra. La terra-materia di Proudhon è la terra come limite. Quanto all'eternità che Proudhon attribuisce alla terra, noi ci auguriamo che essa abbia questa virtù in quanto materia. Ma la terra-capitale non è più eterna di qualsiasi altro capitale.

L'oro e l'argento, che danno interesse, sono durevoli ed eterni esattamente come la terra. Se il prezzo dell'oro e dell'argento diminuisce, mentre quello della terra aumenta, ciò non deriva certo dalla natura più o meno eterna di questa.

La terra-capitale è un capitale fisso, ma il capitale fisso si consuma come i capitali circolanti. I miglioramenti apportati alla terra hanno bisogno di riproduzione e manutenzione; essi durano solo per un tempo limitato, proprio come tutti gli altri miglioramenti che servono a trasformare la materia in mezzo di produzione. Se la terra-capitale fosse eterna, certi terreni presenterebbero tutt'altro aspetto da quello odierno. Noi vedremmo la campagna romana, la Sicilia, la Palestina in tutto lo splendore della loro antica prosperità.

Si danno anche casi in cui la terra-capitale può scomparire anche se i miglioramenti restano.

In primo luogo, ciò accade tutte le volte che la rendita propriamente detta si annulla a causa della concorrenza di nuovi terreni più fertili; in secondo luogo, determinati miglioramenti, che potevano aver valore in una certa epoca, cessano di averne da quando divengono generali a causa dello sviluppo della agronomia.

Chi rappresenta la terra-capitale non è il proprietario fondiario ma l'imprenditore agricolo. Il reddito che la terra dà come capitale è l'interesse e il profitto industriale, e non la rendita. Vi sono terre che danno questo interesse e questo profitto e non danno alcuna rendita.

Riassumendo: la terra, in quanto dà un interesse, è terra-capitale, e come tale non dà una rendita, non costituisce la proprietà fondiaria. La rendita risulta dai rapporti sociali nei quali l'agricoltura si esercita. Essa non può risultare dalla natura più o meno consistente, più o meno durevole della terra. La rendita proviene dalla società, e non dal suolo.

Secondo Proudhon "il miglioramento nell'utilizzazione della terra" - conseguenza del "perfezionamento dell'industria" - è causa dell'aumento continuo della rendita. Questo miglioramento, al contrario, la fa diminuire periodicamente.

In che consiste, in generale, qualsiasi miglioramento, nell'agricoltura come nell'industria? Nel produrre di più con lo stesso lavoro, nel produrre altrettanto o anche di più con minor lavoro. Grazie a questi miglioramenti l'imprenditore agricolo è dispensato dall'impiegare una maggiore quantità di lavoro per un prodotto proporzionalmente minore. Non è necessario allora ricorrere a terreni meno fertili, e le porzioni di capitale investite successivamente nello stesso terreno restano egualmente produttive. Dunque questi miglioramenti, lungi dal far aumentare continuamente la rendita, come dice Proudhon, sono al contrario altrettanti ostacoli che temporaneamente si oppongono al suo aumento.

I proprietari inglesi del XVII secolo comprendevano così bene questa verità, che si opposero allo sviluppo dell'agricoltura, per timore di veder diminuire i loro redditi. (Cfr. Petty, economista inglese del tempo di Carlo II [14].)  :

 

 

5. Gli scioperi e le coalizioni degli operai

"Ogni movimento di rialzo dei salari non può avere altro effetto che quello di un aumento del prezzo del grano, del vino, ecc., cioè l'effetto di una carestia. Che cosa è infatti il salario? È il prezzo di costo del grano, ecc.; è il prezzo integrale di ogni prodotto. Andiamo ancora più in profondità: il salario è la proporzionalità degli elementi che compongono la ricchezza e che sono consumati riproduttivamente ogni giorno dalla massa dei lavoratori. Ora, raddoppiare i salari... significa attribuire a ciascuno dei produttori una parte più grande di ciò che ha prodotto, il che è contraddittorio; e se l'aumento non riguarda che un piccolo numero di industrie, questo provoca una perturbazione generale negli scambi, in una parola una carestia... È impossibile, lo affermo, che gli scioperi seguiti da aumenti di salari non finiscano in un rincaro generale. Questo è così certo come due e due fan quattro." (Proudhon, vol. I, pp. 110-111.)

Neghiamo tutte queste asserzioni, tranne quella che due e due fanno quattro.

Anzitutto non si ha un rincaro generale. Se il prezzo di ogni cosa raddoppia contemporaneamente al salario, non si ha mutamento nei prezzi, ma solo nei termini.

In secondo luogo, un aumento generale dei salari non può mai produrre un rincaro più o meno generale delle merci. In effetti, se tutte le industrie impiegassero lo stesso numero di operai in rapporto con il capitale fisso, o con gli strumenti di cui esse si servono, un rialzo generale dei salari produrrebbe un abbassamento generale dei profitti e il prezzo corrente delle merci non subirebbe alcuna alterazione.

Ma siccome il rapporto del lavoro manuale col capitale fisso non è lo stesso nelle diverse industrie, tutte quelle industrie che impiegano una massa relativamente maggiore di capitale fisso e una massa minore di mano d'opera saranno costrette, presto o tardi, ad abbassare il prezzo delle loro merci. Nel caso contrario, in cui il prezzo delle loro merci non diminuisca, il loro profitto verrebbe ad elevarsi al disopra del tasso comune dei profitti. Le macchine non sono salariati. Dunque, il rialzo generale dei salari colpirà meno quelle industrie che impiegano, comparativamente alle altre, più macchine che operai. Ma poiché la concorrenza tende sempre a livellare i profitti, quelli che si elevassero al disopra del tasso ordinario non potrebbero essere che passeggeri. Così, a parte alcune fluttuazioni, un rialzo generale dei salari porterà, invece che al rincaro generale, come dice Proudhon, a un abbassamento parziale dei prezzi, cioè a un abbassamento nel prezzo corrente delle merci che si fabbricano principalmente con l'aiuto delle macchine.

L'aumento e la diminuzione del profitto e dei salari non esprimono che la proporzione nella quale i capitalisti e i lavoratori partecipano al prodotto di una giornata di lavoro, senza influire, nella maggior parte dei casi, sul prezzo del prodotto. Ma che "gli scioperi seguiti da aumento di salari finiscano in un rincaro generale, in una carestia addirittura" è una di quelle idee che possono sbocciare soltanto nel cervello d'un poeta incompreso.

In Inghilterra gli scioperi hanno sollecitato regolarmente l'invenzione e l'applicazione di nuove macchine. Le macchine erano, lo si può ben dire, l'arma che usavano i capitalisti per reprimere le ribellioni del lavoro specializzato. La self-acting mule [8], la più grande invenzione dell'industria moderna, mise fuori combattimento i filatori in rivolta. Quand'anche le coalizioni [*15] e gli scioperi non avessero altro effetto che di far reagire contro di loro gli sforzi del genio meccanico, già per questo eserciterebbero un'influenza immensa sullo sviluppo dell'industria.

"Io trovo", continua Proudhon, "in un articolo [15] pubblicato del signor Léon Faucher... nel settembre 1845, che da qualche tempo gli operai inglesi hanno perduto l'abitudine delle coalizioni; ciò è sicuramente un progresso, e se ne devono porgere loro le felicitazioni più vive: ma trovo che questo miglioramento nel morale degli operai deriva soprattutto dalla loro istruzione economica. I salari non dipendono affatto dai padroni delle manifatture, - gridava a un comizio di Bolton un operaio tessile. Nelle epoche di depressione, i padroni sono semplicemente, per così dire, la frusta di cui si arma la necessità e, lo vogliano o no, bisogna che colpiscano. Il principio regolatore è il rapporto dell'offerta con la domanda; e i padroni non hanno questo potere... "A la bonne heure [*16]", grida Proudhon, "ecco degli operai come si deve, degli operai modello, ecc., ecc., ecc." "Questa miseria mancava all'Inghilterra; essa non passerà la Manica." (Proudhon, vol. I, pp. 261 e 262.)

Di tutte le città inglesi, Bolton è quella dove il radicalismo è più sviluppato. Gli operai di Bolton sono noti come i più rivoluzionari fra tutti. Durante la grande agitazione che ebbe luogo in Inghilterra per l'abolizione delle leggi sui cereali, gli industriali inglesi stimarono di poter far fronte ai proprietari fondiari solo mettendo avanti gli operai. Ma siccome gli interessi degli operai non erano certo in minor contrasto con quelli degli industriali, di quanto gli interessi degli industriali lo fossero con quelli dei proprietari fondiari, era naturale che gli industriali dovessero avere la peggio nei comizi degli operai. Che fecero allora gli industriali? Per salvare le apparenze, organizzarono dei comizi composti, in gran parte, di sorveglianti, di operai a loro devoti, in verità in piccolissimo numero, e degli amici del commercio propriamente detti. Quando in seguito gli operai autentici tentarono, come a Bolton e a Manchester, di partecipare a queste manifestazioni fittizie per elevare la loro protesta, si vietò loro l'ingresso, dicendo che si trattava di un ticket-meeting. Si definiscono con questa espressione i comizi in cui si ammettono solo le persone munite di biglietti di ingresso. Tuttavia i manifesti affissi sui muri avevano annunciato comizi pubblici. Tutte le volte che si tenevano tali comizi i giornali degli industriali davano un resoconto pomposo e dettagliato dei discorsi ivi pronunziati. Tali discorsi, non c'è bisogno di dirlo, erano pronunziati dai sorveglianti. I fogli di Londra li riportavano alla lettera. Proudhon ha la sventura di scambiare i sorveglianti con gli operai ordinari, e proibisce a questi di passare la Manica.

Se nel 1844 e nel 1845 gli scioperi si notavano meno di prima, la spiegazione è semplice: il 1844 e il 1845 furono i due primi anni prosperità per l'industria inglese dopo il 1837. Nondimeno nessuna delle trades unions era stata disciolta.

Ascoltiamo ora i sorveglianti di Bolton. Secondo loro gli industriali non sono padroni del salario, perché non sono padroni del prezzo del prodotto, e non sono padroni del prezzo del prodotto, perché non sono padroni del mercato mondiale. Con questo ragionamento essi davano a intendere che non si dovevano fare coalizioni per strappare ai padroni un aumento di salari. Proudhon, al contrario, proibisce agli operai le coalizioni nel timore che una coalizione sia seguita da un rialzo dei salari, che comporterebbe una carestia generale. Non abbiamo bisogno di dire che su un solo punto vi è una intesa cordiale tra i sorveglianti e Proudhon: cioè che un rialzo dei salari equivale a un rialzo nel prezzo dei prodotti.

Ma il timore di una carestia è la vera causa del rancore di Proudhon?

No. Egli ce l'ha coi sorveglianti di Bolton semplicemente perché essi determinano il valore in base all'offerta e alla domanda, e non si ano affatto del valore costituito, del valore passato allo stato di costituzione, della costituzione del valore, ivi compresa la scambiabilità permanente e tutte le altre proporzionalità di rapporti e rapporti di proporzionalità, con l'aggiunta della Provvidenza.

"Lo sciopero degli operai è illegale, e non è soltanto il codice penale che lo dice, ma anche il sistema economico, la necessità dell'ordine stabilito... Che ogni operaio individualmente possa disporre in piena libertà della sua persona e delle sue braccia può tollerarsi; ma che gli operai tentino, per mezzo di coalizioni, di far violenza al monopolio, questo la società non può permetterlo." (Vol. I, pp. 334 e 335.)

Proudhon pretende di far passare un articolo del codice penale per un risultato necessario e generale dei rapporti della produzione borghese.

In Inghilterra, le coalizioni sono autorizzate da un atto del parlamento; ed è il sistema economico che ha costretto il parlamento a dare per legge questa autorizzazione. Nel 1825, quando, sotto il ministro Huskisson, il parlamento dovette modificare la legislazione, per accordarla sempre di più con uno stato di cose risultante dalla libera concorrenza, esso dovette necessariamente abolire tutte le leggi che proibivano le coalizioni degli operai. Più l'industria moderna e la concorrenza si sviluppano, più vi sono elementi che provocano e assecondano le coalizioni, e quando le coalizioni sono divenute un fatto economico che acquista ogni giorno maggior consistenza, non possono certo tardare a divenire un fatto legale.

Così l'articolo del codice penale prova tutt'al più che l'industria moderna e la concorrenza non erano ancora molto sviluppate sotto l'Assemblea costituente e sotto l'Impero [16].

Gli economisti e i socialisti [*17] sono d'accordo su di un solo punto: la condanna delle coalizioni. Soltanto che essi motivano diversamente la loro condanna.

Gli economisti dicono agli operai: Non coalizzatevi. Coalizzandovi, voi ostacolate il progresso regolare dell'industria, impedite agli industriali di soddisfare le ordinazioni, turbate il commercio e affrettate l'invasione delle macchine, le quali, rendendo il vostro lavoro in parte inutile, vi costringono ad accettare un salario ancora più basso. D'altronde, avete un bel darvi da fare, il vostro salario sarà sempre determinato dal rapporto delle braccia richieste con le braccia offerte, ed è uno sforzo ridicolo quanto pericoloso mettervi in rivolta contro le leggi eterne dell'economia politica.

I socialisti dicono agli operai: Non vi coalizzate, perché in fin dei conti, cosa vi guadagnereste? Un aumento dei salari? Gli economisti vi proveranno fino all'evidenza che quei pochi soldi che guadagnereste per un breve tempo, in caso di successo, saranno seguiti poi da un ribasso durevole. Abili calcolatori vi proveranno che occorreranno degli anni solo per rifarvi, mediante un aumento dei salari, delle spese necessarie per organizzare e mantenere le coalizioni. E noi vi diciamo, in qualità di socialisti, che a parte questa questione di denaro voi resterete ugualmente gli operai, e i padroni resteranno sempre i padroni, come prima. Così, niente coalizioni, niente politica; fare delle coalizioni, infatti, non è forse fare della politica?

Gli economisti vogliono che gli operai restino nell'ambito della presente società quale essa si è formata, e quale essi l'hanno delineata e suggellata nei loro manuali.

I socialisti vogliono che gli operai lascino stare la vecchia società, per poter entrare in quella nuova, che essi hanno loro preparata con la previdenza.

Malgrado gli uni e gli altri, malgrado i manuali e le utopie, le coalizioni non hanno cessato un istante di progredire e di ingrandirsi con lo sviluppo e l'espansione dell'industria moderna. Cosicché si è giunti ormai a stabilire il principio che il grado di sviluppo delle coalizioni in un paese segna nettamente il rango che esso occupa nella gerarchia del mercato mondiale. L'Inghilterra, dove l'industria ha raggiunto il più alto grado di sviluppo, ha le coalizioni più vaste e meglio organizzate.

In Inghilterra non ci si è limitati a coalizioni parziali, che avessero semplicemente per scopo uno sciopero passeggero, e che scomparissero con esso. Si sono formate coalizioni permanenti, trades unions, che servono da baluardo agli operai nella loro lotta contro gli imprenditori. E, al momento attuale, tutte queste trades unions locali trovano un punto d'unione nella National Association of United Trades [17], il cui comitato centrale risiede a Londra, e che conta già ottantamila membri. La formazione di questi scioperi, coalizioni, trades unions fu contemporanea alle lotte politiche degli operai, che costituiscono ora un grande partito politico, sotto il nome di Cartisti.

I primi tentativi degli operai per associarsi tra loro assumono sempre la forma di coalizioni.

La grande industria raccoglie in un solo luogo una folla di persone sconosciute le une alle altre. La concorrenza le divide, nei loro interessi. Ma il mantenimento del salario, questo interesse comune che essi hanno contro il loro padrone, li unisce in uno stesso proposito di resistenza: coalizione. Così la coalizione ha sempre un duplice scopo, di far cessare la concorrenza degli operai tra loro, per poter fare una concorrenza generale al capitalista. Se il primo scopo della resistenza era solo il mantenimento dei salari, a misura che i capitalisti si uniscono a loro volta in un proposito di repressione, le coalizioni, dapprima isolate, si costituiscono in gruppi e, di fronte al capitale sempre unito, il mantenimento dell'associazione diviene per gli operai più necessario ancora di quello del salario. Ciò è talmente vero, che gli economisti inglesi rimangono stupiti a vedere come gli operai sacrifichino una buona parte del salario a favore di associazioni che, agli occhi di questi economisti, erano state istituite solo a favore dei salari. In questa lotta - vera guerra civile - si riuniscono e si sviluppano tutti gli elementi necessari a una battaglia imminente. Una volta giunta a questo punto, l'associazione acquista un carattere politico.

Le condizioni economiche avevano dapprima trasformato la massa della popolazione del paese in lavoratori. La dominazione del capitale ha creato a questa massa una situazione comune, interessi comuni. Così questa massa è già una classe nei confronti del capitale, ma non ancora per se stessa. Nella lotta, della quale abbiamo segnalato solo alcune fasi, questa massa si riunisce, si costituisce in classe per se stessa. Gli interessi che essa difende diventano interessi di classe. Ma la lotta di classe contro classe è una lotta politica.

Nella borghesia dobbiamo distinguere due fasi: quella durante la quale essa si costituì in classe sotto il regime della feudalità e della monarchia assoluta, e quella in cui, ormai costituitasi in classe, rovesciò la feudalità e la monarchia per fare della società una società borghese. La prima di queste fasi fu la più lunga e richiese i più grandi sforzi. Anche la borghesia aveva cominciato con coalizioni parziali contro i signori feudali.

Si sono fatte molte ricerche per descrivere le differenti fasi storiche che la borghesia ha percorso, dal comune fino alla sua costituzione come classe.

Ma quando si tratta di rendersi esattamente conto degli scioperi, delle coalizioni e delle altre forme nelle quali i proletari realizzano davanti ai nostri occhi la loro organizzazione come classe, gli uni sono presi da un timore reale, gli altri ostentano uno sprezzo trascendentale.

Una classe oppressa è la condizione vitale di ogni società fondata sull'antagonismo delle classi. L'affrancamento della classe oppressa implica dunque di necessità la creazione di una società nuova. Perché la classe oppressa possa affrancarsi, bisogna che le forze produttive già acquisite e i rapporti sociali esistenti non possano più esistere le une a fianco degli altri. Di tutti gli strumenti di produzione, la più grande forza produttiva [18] è la classe rivoluzionaria stessa. L'organizzazione degli elementi rivoluzionari come classe presuppone l'esistenza di tutte le forze produttive che potevano generarsi nel seno della società antica.

Ciò vuol dire forse che dopo la caduta dell'antica società ci sarà una nuova dominazione di classe, riassumentesi in un nuovo potere politico? No.

La condizione dell'affrancamento della classe lavoratrice è l'abolizione di tutte le classi, come la condizione dell'affrancamento del "terzo stato", dell'ordine borghese fu l'abolizione di tutti gli stati [*18] e di tutti gli ordini.

La classe lavoratrice sostituirà, nel corso dello sviluppo, all'antica società civile un'associazione che escluderà le classi e il loro antagonismo, e non vi sarà più potere politico propriamente detto, poiché il potere politico è precisamente il compendio ufficiale dell'antagonismo nella società civile.

Nell'attesa, l'antagonismo tra il proletariato e la borghesia è una lotta di classe contro classe, lotta che, portata alla sua più alta espressione, è una rivoluzione totale. D'altronde, bisogna forse stupirsi che una società basata sull'opposizione delle classi metta capo alla contraddizione brutale, a un urto corpo a corpo come sua ultima conclusione?

Non si dica che il movimento sociale esclude il movimento politico. Non vi è mai movimento politico che non sia sociale nello stesso tempo.

Solo in un ordine di cose in cui non vi saranno più classi né antagonismo di classi le evoluzioni sociali cesseranno d'essere rivoluzioni politiche. Sino allora, alla vigilia di ciascuna trasformazione generale della società, l'ultima parola della scienza sociale sarà sempre:

"Il combattimento o la morte; la lotta sanguinosa o il nulla. Così, inesorabilmente, è posto il problema." [19]

George Sand

 

Note

1. Marx allude alla Explication du tableau économique, à Madame de***, Paris, 1776 (estratto da Ephémérides du citoyen, ou chronique de l'esprit national, 1767-1768).

*1. Parola.

*2. Nella traduzione tedesca del 1885: al loro modo di produzione

2. "Mors immortalis": da un verso di Lucrezio (già citato da Marx nella sua tesi di laurea, cfr. Marx-Engels, Opere, v. I, Roma, 1980, p. 58): "Mortalem vitam mors cui immortalis ademit" (la morte immortale ha rapito la vita mortale, De rerum natura, III, 882, secondo l'edizione dell'opera curata da H.K.A. Eichstädt - Leipzig, 1801 - e usata da Marx; oppure III, 889 secondo l'edizione curata da H. Diels - Berlin, 1924).

*3. Ciò era del tutto esatto nell'anno 1847. Allora il commercio mondiale degli Stati Uniti si limitava principalmente all'importazione di immigranti e di prodotti industriali, e all'esportazione di cotone e di tabacco, cioè di prodotti del lavoro schiavistico del Sud. Gli Stati del Nord producevano soprattutto grano e carne per gli Stati schiavisti. Solo da quando il Nord produsse grano e carne per l'esportazione e divenne perciò un paese industriale e da quando sorse con l'India, l'Egitto, il Brasile, ecc., una potente concorrenza al monopolio americano del cotone, fu possibile l'abolizione della schiavitù. E persino allora essa ebbe per conseguenza la rovina del Sud, il quale non è riuscito a sostituire la schiavitù aperta dei negri con la schiavitù camuffata dei coolies indiani e cinesi. F.E. [Nota all'edizione tedesca del 1885.]

*4. (il genio sociale): aggiunta di Marx.

*5. Nella traduzione tedesca del 1885: la cooperazione nella fabbrica

3. Alban de Villeneuve-Bargemont, Histoire de l'économie politique, Bruxelles, 1839. L'autore si rifaceva alle verità rivelate e il capitolo VIII dell'opera di Proudhon era a sua volta intitolato: "De la responsabilité de l'homme et de dieu, sous la loi de contradiction ou solution du problème de la providence".

*6. Nota marginale nell'esemplare con dedica: de la classe travailleur [della classe lavoratrice].

*7. a ciascuno il suo .

4. Lemontey allude al suo libro Raison, folie, chacun son mot, petit cours de morale mis à la portée des vieux enfans pubblicato nel 1801. Marx cita l'opera dall'edizione delle Oeuvres de P. E. Lemontey (7 vv., Paris, 1829) di cui costituisce il I volume.

5. Cfr. J. C.L. Simonde de Sismondi, Nouveaux principes d'économie politique ou de la richesse dans ses rapports avec la population, 2 vv., Paris, 1819. In particolare il capitolo: "De la division du travail et des machines", v. I, pp. 365-373.

*8. Ciò che era da dimostrare.

6. Le Creusot, centro industriale francese del cantone di Moncenis, circondario di Autun, dipartimento della Saóne-et-Loire; deve la sua importanza, specialmente a partire dal 1836 con la fondazione della società Schneider, alle officine metallurgiche.

7. Nel 1825 scoppiò in Inghilterra la prima crisi di sovrapproduzione che abbia mai colpito l'intera economia di un paese; essa si estese a tutto il mondo capitalistico e durò fino alla metà del 1826. Della crisi inglese si occuparono tra gli altri J. B. Say, Thomas Tooke e James Wilson.

8. Dopo l'invenzione di Wyatt (1735), si hanno in Inghilterra continui progressi nella meccanizzazione della filatura, che sono di grande importanza per lo sviluppo del capitalismo. James Hargreaves costruisce intorno al 1764 la "spinning jenny" (dal nome della figlia Jenny), che ha vari pregi rispetto alle filatrici preesistenti, ma è ancora azionata a mano. Sir Richard Arkwright perfeziona in vari modi la filatrice ideata da Lewis Paul nel 1738 e soprattutto, negli anni 1769-1771, utilizza la forza idraulica. Questa filatrice assume il nome di "throstle" (tordo). Nel 1779 Samuel Crompton costruisce una macchina che combina le caratteristiche della jenny e della throstle, chiamandola "mule jenny" o semplicemente "mule" (mulo, bastardo, che unisce due nature). Nel 1825 si ha infine la "selfacting mule" (mule automatica) o "selfactor" (automatico), la filatrice automatica di Richard Robert.

9. Marx cita l'opera di Andrew Ure, Philosophie des manufactures. 2 vv., Paris - Bruxelles, 1836; i passi citati sono nel volume I, pp. 23 e 22.

*9. I fourieristi. F.E. [Nota di Engels all'edizione tedesca del 1885].

10. L'espressione "in partibus infidelium" è usata per indicare ciò che esiste solo in apparenza. Vescovi "in partibus infidelium" (nelle terre degli infedeli) sono detti nella Chiesa cattolica i vescovi titolari di diocesi le quali si trovano in paesi non cristiani.

11. In questa citazione gli incisi tra parentesi "imposte sulla produzione" e "imposte sul consumo" sono aggiunti da Marx. Egli usa l'edizione francese dell'opera di Steuart (Recherche des principes.... apparsa nel 1789 a Parigi. L'edizione inglese uscì nel 1767 a Londra, quella tedesca nel 1769-1770 ad Amburgo.

12. L'uomo dai quaranta scudi: personaggio dell'omonimo romanzo di Voltaire (L'homme aux quarante écus), apparso nel 1768 ad Amsterdam. Marx cita dalle Oeuvres complètes (1785) di Voltaire. v. XLV, p. 44.

*10. orrore del vuoto.

*11. Nell'esemplare con dedica qui sono aggiunte le parole: - les prémisses une fois accordées - [ una volta accettate le premesse ]

*12. Nell'esemplare con dedica le parole: à des terrains inférieurs [in terreni di qualità inferiore] sono corrette in: à la terre [nella terra]

*13. Nella traduzione tedesca del 1885 i due periodi seguenti (fino a: "del suo reddito") sono soppressi, e questo periodo è così completato: il capitalista industriale, che sfrutta il terreno per mezzo dei suoi salariati e che paga come affitto al proprietario fondiario l'eccedenza sulle spese di produzione, compreso il profitto capitalistico.

*14. James Mill, padre di John Stuart Mill.

13. Marx si riferisce con tutta probabilità a James Mill, Elements of political economy, London, 1821; Antoine Elisée Cherbuliez, Riche ou pauvre. Exposition succincte des causes et des effets de la distribution actuelle des richesses sociales, Paris, 1840; e Richard Hilditch, Aristocratic taxation: its present state, origin, and progress, with proposal for reform: comprising prools of the justice and expediency of a land tax for redemption of national debt..., London-Manchester, 1842.

14. Marx si riferisce a William Petty, e precisamente a Political arithmetic or a discourse concerning the extent and value of lands, people, buildings..., redatto nel 1676-1677, pubblicato nel 1683 con lacune senza il consenso dell'autore e soltanto nel 1690, postumo, con l'autorizzazione dell'autore. Marx fece alcuni estratti del saggio di Petty nel luglio 1845 a Manchester, e precisamente dall'antologia degli scritti intitolata Several essays in political arithmetic (London, 1699).

*15. Nella traduzione tedesca del 1885: i sindacati

15. Léon Faucher, Les coalitions condamnées par les ouvriers anglais. La citazione di Proudhon-Faucher fatta da Marx è passibile di fraintendimento. Proudhon infatti polemizza con Faucher e i suoi presunti operai inglesi. Engels in un primo tempo (1845) giudicò i lavori di Faucher positivamente (cfr. La situazione della classe operaia in Inghilterra, in Marx-Engels, Opere, v. IV, Roma, 1972, pp. 423-424).

*16. Alla buon'ora

16. Le leggi allora vigenti in Francia, la cosiddetta legge Le Chapelier del 1791, approvata dalla Costituente durante la Rivoluzione francese, e il Codice penale elaborato sotto l'impero napoleonico vietavano agli operai, minacciando severe condanne, di riunirsi in associazioni e di organizzare scioperi. Il divieto dei sindacati fu abolito in Francia nel 1884.

*17. Cioè quelli di allora: i fourieristi in Francia, gli owenisti in Inghilterra. F.E. [Nota di Engels all'edizione tedesca del 1885.]

17. L'attività di questa Associazione nazionale dei sindacati uniti, fondata nel 1845, si limitava alla lotta economica per migliorare le condizioni salariali e la legislazione sulle fabbriche. Essa esisté fino agli inizi degli anni settanta, ma già dopo il 1851 non aveva più molta importanza nel movimento sindacale inglese.

18. Qui Marx non distingue ancora nettamente, come farà più tardi, tra "strumenti di produzione" e "forze produttive".

*18. Stati qui nel significato storico di stati dello Stato feudale. Stati con privilegi determinati e limitati. La rivoluzione della borghesia abolì gli stati insieme ai loro privilegi. La società borghese non conosce più che classi. La designazione del proletariato quale "quarto stato" era perciò in assoluta contraddizione con la storia. F.E. [Nota di Engels all'edizione tedesca del 1885.] (Engels allude qui a Ferdinand Lassalle, e precisamente alla sua conferenza "Sul particolare rapporto tra l'attuale periodo storico e l'idea dello stato operaio", tenuta il 12 aprile 1862 all'Associazione artigiana di Berlino e pubblicata poi in opuscolo per lo più con il titolo Programma operaio.)

19. Dal romanzo di George Sand Jean Ziska apparso prima a puntate sulla Revue Indépendante nel 1843 e poi in volume (Bruxelles, 1843).

 


Ultima modifica 9.10.2000