Il corso di filosofìa avrà per oggetto quest'anno una esposizione critica della filosofia kantiana. Questo metodo di esporre un corso di filosofia ha bisogno di una giustificazione. Emanuele Kant, che fu anche un grande maestro di filosofia, nel suo progamma del 1766 dichiara essere suo proposito insegnare a pensare, non ad accogliere una dottrina già fatta. Su questa proposizione, purché venga intesa con buon senso, è impossibile non essere d’accordo. Certo un filosofo insegna sempre da un punto di vista filosofico; quindi insegna sempre una filosofìa; ma altro è il risultato se egli si propone deliberatamente di inculcare un determinato punto di vista, altro invece se si propone di fare, per quanto è possibile, astrazione dal suo punto di vista personale. Cosi una storia è sempre fatta da un certo punto di vista; ma altro è se è fatta con spirito volutamente partigiano, altro se si è cercato di dare, per quanto allo spirito umano è possibile, un quadro obbiettivo.
Ora per insegnare a pensare è meglio l’esposizione di un sistema personale o un’esposizione storico-critica dei problemi? Considerando la cosa sotto l’aspetto dell’educazione universitaria la risposta non è dubbia — un’esposizione sistematica è senza dubbio più comoda anche per chi impara; ma essa va contro al fine dell’educazione filosofica che è di eccitare il senso critico, la facoltà della ricostruzione personale. Essa crea dei ripetitori, i quali generalmente finiscono per imprimersi nell’animo gli schemi e le concezioni così ricevute da farne quasi una seconda natura intellettuale dalla quale non possono più uscire. Ed a ciò contribuisce anche l’abito mentale di chi così insegna. Ogni filosofo ha i suoi concetti, le sue divisioni, i suoi schemi caratteristici; chi insegna, chiuso in essi, finisce per contribuire anch’egli a questa specie di isolamento; onde nasce poi quello spirito di scuola così funesto allo spirito della verità. Basta considerare per es., quello che avviene nell’insegnamento delle scuole tradizionali del tomismo, del materialismo scientifico, dell’hegelianismo.
Inoltre bisogna considerare qui anche il carattere particolare della filosofia. Ogni scienza riconosce un certo numero di principii e si può riassumere in un certo numero di proposizioni che vengono considerate come universalmente valide e perciò possono costituire un sistema che si può insegnare.
Ciò non costituisce del resto un vantaggio della scienza sulla filosofia. Ma la filosofia è la scienza senza presupposti: anche le constatazioni da cui parte sono qualche cosa che deve sempre essere rinnovato nella coscienza di chi lo pone: p. es. il principio cartesiano. Ed anche le conclusioni cui arriva non hanno il carattere di obbiettività che hanno le conclusioni della scienza; ad esse inserisce sempre qualche cosa di subbiettivo e di personale; sono un tentativo, non un risultato definitivo.
Non si creda che io voglia con questo contrapporre la filosofia come qualche cosa di subbiettivo alla obbiettività della scienza. Questa obbiettività apparente è una inferiorità, è una subbiettività che ignora se stessa; è una subbiettività nella quale possono concordare le intelligenze umane, finché non si decidano a ricercare i fondamenti di questa subbiettività comune; ma dinanzi alla ricerca della ragione essa perde la sua pretesa obbiettività assoluta. Per es., il principio di causalità, il principio della costanza delle leggi, sono principii dell’obbiettività scientifica; ma per la filosofia sono problemi. Ed anche la subbiettività della filosofia non deve essere intesa come una subbiettività assoluta: anzi è un tendere verso un’obbiettività veramente assoluta. Non vi è mai stato tra i due filosofi un accordo sostanzialmente così pieno come per es. tra Spinoza e Kant; e tuttavia essi sembrano differire profondamente nelle loro dottrine.
L'unità della filosofia è un’unità intravveduta che si crea progressivamente ma non si raggiunge mai completamente. Quindi la filosofìa, pur essendo il tentativo più alto di raggiungere l’obbiettività assoluta del sapere, è sempre ancora un tentativo subbiettivo, la creazione di una personalità.
Ora il filosofo può fissare questa sua visione personale purché rimanga come un momento ed un aspetto del pensiero dell’umanità, non può imporla nell’educazione filosofica come una verità assoluta e definitiva, dinanzi a cui debba tacere il pensiero critico. Il filosofo non deve illudersi che il suo pensiero sia come la conclusione del pensiero dell’umanità; è un momento che rappresenta per lui una conclusione, ma che senza perdere il valore eterno che esso ha avuto per quell’individuo in quel momento, non sarà più per quelli che verranno dopo se non lo strumento e la materia di nuove creazioni.
Appunto per questo il filosofo che insegna non deve cercare di soffocare questa legittima ed inevitabile iniziativa personale, con lo imprimere come un suggello nelle tenere menti, una visione personale, esclusiva, cercando di tener lontano con la polemica, con le critiche ingiuste ed anche con lo scherno, tutto ciò che potrebbe condurre di là da questa visione.
Un insegnamento di questa natura sarebbe contrario allo spirito stesso della filosofìa. Sarebbe contrario anche sotto un altro rispetto, sotto il rispetto del carattere personale ed intimo che la convinzione filosofica riveste in chi la professa, e che si oppone ad una esposizione esplicita ed aperta come ad una profanazione. Mosè Maimonide nell’introduzione alla Guida degli Erranti dice che bisogna, su questo punto, imitare Dio, il quale non ha rivelato le più profonde verità che per mezzo di simboli e di allegorie. La verità è come una sfera d’oro, chiusa in una fitta rete d’argento: il volgare s’arresta a questa prima esteriorità, solo il saggio vede risplendere l’oro attraverso le maglie. Dare la verità a tutti, degni e indegni, è cosa inutile: e di più è una specie di profanazione che offende e degrada colui stesso che la compie. Bisogna quindi seguire il precetto talmudico che vuole sia riserbata la conoscenza della verità a pochissimi; quindi bisogna esporla in modo che essa sia intravveduta, non veduta. D’altronde la natura stesa della filosofia, dice Maimonide, esige questo metodo. L’uomo, anche sapiente, non afferra mai tutta la verità; questa ora ci appare in un modo da sembrarci chiara come il giorno, ora è velata dalle cose materiali, e siamo come l’uomo che in mezzo alle tenebre vede quache volta brillare dei lampi. Perciò anche nell’insegnare il filosofo non solo non deve, ma non può tracciare un quadro luminoso sempre uguale, ma deve procedere per tentativi successivi, ordinati in modo che la verità ne trasparisca; visibile solo all’occhio di chi è capace di afferrarla.
Sotto ogni riguardo quindi il metodo migliore per l’insegnamento filosofico è l’esposizione indiretta per mezzo del metodo storico critico che ha il vantaggio di mettere la dottrina che si insegna in rapporto con le grandi correnti storiche; di avviare in un certo senso senza costringere, di svolgere anzi il senso critico e l’iniziativa personale, ed infine permette anche di segnare le grandi linee della dottrina senza entrare nei particolari. Due mezzi: l’esposizione storico critica dei problemi, o l’esposizione storico-critica di un grande filosofo? Ho adottato ora uno ora l’altro. Il primo ha il vantaggio di lumeggiare un problema sotto ogni aspetto: il secondo di dare una concezione completa, una sintesi. Questo anno adotteremo il secondo svolgendo nella sua totalità il pensiero di Emanuele Kant. Lasceremo perciò da parte ogni ricerca erudita, lasceremo nell’ombra le parti che hanno perduto ragione d’essere; e mostreremo anzi come deve essere svolto e continuato il suo pensiero per essere in armonia con le esigenze del nostro.
Non intendo qui tessere una biografia propriamente detta in tutti i suoi particolari, ma riferirne solo i punti più salienti.
1°) Fonti. — Le principali sono sempre le tre notizie di Borowski, Jachmann e Wasianski edite nel 1804 (tre scolari famigliari di Kant, dei quali il Wasianski, diacono in una chiesa di Konisgsberg assistè Kant negli ultimi anni) e le informazioni raccolte dal Prof. di eloquenza Samuele Gottlieb Wald per il discorso commemorativo solenne tenuto nel 23 aprile 1804; che furono pubblicate nel 1860. Si vedano del resto le notizie di antichi biografi di Kant del Vorländer, (1918) edite nei fascicoli dei Kantstudien; che è anche l’autore d’un eccellente biografìa edita nel 1911, riveduta ed estesa nel 1924 in due volumi.
2°) Noi sappiamo poche cose sulla famiglia e sui suoi primi anni; ciò che sappiamo da Kant stesso è la sua giovinezza che si formò in un ambiente profondamente morale e religioso, per opera specialmente della madre; Kant se ne ricordava sempre con commozione viva. «Si dica del pietismo quello che si vuole; ma coloro che ne erano seriamente penetrati, possedevano ciò che di più alto può possedere l’uomo: quella quiete, quella serenità, quella pace interiore che nessuna passione poteva turbare. Nessuna privazione, nessuna persecuzione li addolorava, nessun contrasto li induceva all’ira od alla inimicizia». Si noti che questo vivo senso di religiosità non si deve confondere con la bigotteria delle pratiche esteriori quale era uso nel ginnasio Fridericiano, retto da pietisti: che anzi l’avversione che esse destavano allora nel giovane Kant ebbe un’eco per tutta la sua vita: Kant ebbe sempre in avversione il canto religioso e la preghiera. Questo senso di religiosità profonda fu l’anima di tutto il pensiero kantiano; Kant non fu il filosofo mondano, brillante, non ha nulla di comune con i filosofi cortigiani che circondano Federico II di Prussia; la sua filosofia ha la gravità e la fede commossa d’una riforma religiosa.
3°) Nato il 22 aprile 1724, la sua vita trascorre per molto tempo in mezzo a gravi difficoltà. La famiglia sua era povera; la madre morì nel 1737, il padre nel 1747 e furono sepolti entrambi da poveri. (Still und arm). Dovette aiutarsi con le lezioni e pensare per tempo a sè. Dopo gli anni universitari passò circa otto anni come precettore privato; poi visse dei suoi corsi privati all’università.
Kant si vantò di essere vissuto sempre indipendente e in condizioni umili, ma non misere; certo è che attraversò periodi tristi e in qualcuna delle sue lettere di questi periodi, traspare l’amarezza per il faticoso lavoro a cui il bisogno lo condannava. Anche la carriera fu lunga e faticosa. Nel 1756 chiese la cattedra di straordinario di filosofia lasciata vacante dal suo maestro Knutzen; ma fu soppressa per economia. Nel 1758 durante la occupazione russa si fa vacante la cattedra di logica e metafisica; ma è assegnata dal governatore russo ad un docente più anziano, certo Giovanni Buck. Solo nel 1770, essendo il Buck passato alla cattedra di matematica, Kant può essere nominato ordinario di logica e metafisica; aveva 46 anni.
Ma anche la posizione di professore universitario era allora assai modesta; e Kant rimase ancora per molto tempo quasi un ignoto; ancor nel 1780 a Gottinga i professori, tra cui Feder, considerano Kant come un dilettante da poco. Chi ne riconobbe per tempo il valore è il ministro von Zetlitz (cui è dedicata la Critica della Ragion Pura) che tenne con Kant una viva corrispondenza e nel 1778 fece il possibile per indurlo a passare ad Halle con condizioni molto migliori. Egli si procurava le lezioni di Kant e frequentava a Berlino le lezioni di Herz; scolaro di Kant. Ma era anche un ministro degno di Kant; in una lettera chiede a Kant consiglio sul modo di indurre gli studenti anche delle altre facoltà a formarsi un poco di coltura filosofica.
4°) La sua fama comincia con la pubblicazione della Critica della Ragion Pura; ed anche non subito. La diffusione del suo nome e della sua dottrina comincia con la fondazione della Litteraturzeitung di Jena ispirata in filosofìa alle idee kantiane (1785) e con le lettere di Reinhold (in stile popolare) sul Mercur (1786-7). La sua dottrina comincia allora ad estendersi; e comincia la persecuzione; nel 1786 è ufficialmente proibita come scetticismo a Marburg; è bandita dall’Austria; si diffonde anche nelle Università cattoliche.
Dopo il 1790 si estende la fama di Kant anche fuori di Germania; nel 1798 è nominato membro di una Accademia a Siena. Con questa rapida diffusione pare contrasti il non meno rapido oblio; verso il 1810 Kant appare ai più come un filosofo oltrepassato; i grandi idealisti sembrano averlo fatto dimenticare. Ma in realtà la diffusione fu un fatto superficiale; nè fautori nè avversari seppero cogliere ciò che vi era di vitale e di profondo nella filosofìa kantiana. Essa non era un sistema; ma piuttosto una indirizzo fondamentale del pensiero verso nuove vie. Invece fu considerata come sistema; le opere dei suoi primi discepoli sono in generale ripetizioni pedantesche senza profondità e senza valore; un mucchio di servili e brutali ripetitori, li chiama Fichte. Ma anche Fichte e gli altri che si considerarono come continuatori e superatori del kantismo, in realtà deviarono sotto altre influenze, dall’indirizzo fondamentale kantiano. E lo stesso avviene anche nella più vasta cerchia dei profani; il kantismo è accolto con fervore, come una rivoluzione salutare, come una promessa d’una nuova vita; i giovani e le donne stesse si avviano piene di fervore per la nuova via ma dopo il primo entusiasmo si sentono come delusi, sentono l’insufficienza dei risultati ottenuti.
In fondo è accaduto a Kant come a Spinoza; egli non fu pienamente compreso ed apprezzato secondo il suo vero valore che quasi un secolo dono. Dopo la crisi spirituale della metà del secolo XIX, caratterizzata dal razionalismo e dal materialismo, il pensiero è tornato a Kant; e se non abbiamo più kantiani nel senso della scuola, oggi il pensiero kantiano è il fondamento di ogni pensiero vivente. Spogliato delle sue accidentalità periture esso non sta nel passato, sta dinanzi a noi come un indirizzo ideale della nostra vita filosofica e religiosa.
5°) Il solo fatto veramente notevole della sua vita è il conflitto con la reazione prussiana dopo il 1788. Morto Federico II nel 1786 gli succede Federico Guglielmo II, spirito debole, inclinato al misticismo, alla superstizione ed alla intolleranza. Non è tuttavia per un azione personale che muta l’ambiente spirituale di Prussia; un inizio di reazione si era già accennato anche negli ultimi anni del regno di Federico II, contro il razionalismo e le sue degenerazioni. Anzi nei primi anni del nuovo regno si mantiene un certo spirito liberale; ancora nel 1788 il Kiesewetter è mandato a spese del governo a studiare la filosofia kantiana a Königsberg. Nello stesso anno però succede allo Zetlitz il Wöllner, un reazionario; segue poco dopo la pubblicazione dell’Editto sulla religione e di un Editto che istituisce una rigorosa censura. Però Kant non è ancora considerato come nemico; nel 1789 riceve dal nuovo re un soprassoldo di 220 talleri annui; egli seguita a scrivere liberamente.
È negli anni successivi, forse anche in dipendenza delle ripercussioni politiche, che l’orizzonte si oscura; il governo comincia a sentire prevenzioni politiche e religiose contro di lui, ma non osa colpirlo; Kant che è informato dal Kiesewetter dell’andamento delle cose a Berlino, prevede oscuramente qualche aspra misura, ma si consola filosoficamente con la coscienza di fare il proprio dovere. Il conflitto comincia nel 1792 quando Kant intraprende la pubblicazione sulla Rivista Mensile berlinese della sua filosofia religiosa. La prima parte — sul male radicale — venne lasciata passare dalla censura, come cosa puramente filosofica; ma la seconda — sul conflitto del principio buono e cattivo nell’uomo— venne inesorabilmente vietata. Kant pubblicò il tutto in un libro nel 1793 valendosi del privilegio di sottoporlo alla censura d’una facoltà filosofica universitaria (Jena), ma nel 1794 la reazione si inasprisce; il re stesso dichiara che è ora di farla finita anche con Kant ed infatti al primo ottobre 1794 Kant riceve un rescritto reale che minaccia severe misure, se Kant continua nella sua opera demolitrice della religione e del cristianesimo. Kant nella risposta si difende dicendo di aver fatto semplicemente opera di filosofo e non di teologo; ma come fedele suddito del re promette di astenersi da ogni pubblicazione sulla religione. La morte del re nel 1797, liberò Kant da questa promessa; col nuovo regno comincia una nuova era di relativa libertà per la Prussia. Questo contegno di Kant è stato variamente giudicato, e in generale severamente giudicato. Bisogna tuttavia considerare più cose; Kant non disdisse nulla; continuò a scrivere; pubblicò nel 1795 lo scritto sulla Pace Perpetua; nel 1797 la Dottrina del diritto e la Dottrina della morale, dove espone liberamente il suo pensiero sulle questioni politiche e sul rapporto dello Stato e della Chiesa. Egli poteva considerare come suo dovere il tacere; conosceva personalmente il re e ne aveva avuto dei favori; era d’altronde sua dottrina che si deve ubbidire agli ordini delle autorità, anche se ingiusti. Di più bisogna considerare la cosa dal suo punto di vista : ossia da quello del suo tempo. Che Kant fosse preparato anche a lasciare la Pussia è certo; nel 1794 scrive ad un suo amico che si troverà bene qualche cantuccio di terra per ospitarlo. Ma che egli dovesse ribellarsi o fare un gesto, è molto discutibile. Ciò è del resto cosa che solo la sua coscienza poteva decidere.
6°) L’ultimo periodo della vita di Kant è profondamente triste; periodo di decadenza, di solitudine, di abbandono. Verso il 1790 comincia la decadenza. Ancora nel 1789 scrive a Reinhold e dice di lavorare alacremente tutta la mattina; ma nel 1791 avviene come un'improvvisa e rapida decadenza delle forze. Continua tuttavia le lezioni, ma con sforzo. Fichte trova «schläfig» la sua esposizione; fu anzi forse questo sforzo troppo protratto delle lezioni che ne causò la decadenza senile. Salì la cattedra l’ultima volta il 23 luglio 1796. Nel 1798 pubblicò (a 74 anni) l’ultimo grande scritto, la Disputa delle facoltà; le ultime pubblicazioni sono del 1800. Ma allora era già cominciata la decadenza anche nello spirito; del 1802 è l’ultima lettera; gli ultimi anni non furono che un lento morire, con qualche lampo ancora dell’antica intelligenza; morì alle 11 antimeridiane del 12 febbraio 1804.
Leggendo il racconto degli ultimi suoi anni nella relazione del Wasianski, un suo antico scolaro, diacono in una chiesa di Königsberg, non possiamo esimerci da un senso di pena nel vedere la solitudine e l’abbandono in cui è lasciato. Chi lo assiste è la vecchia sorella, di quattro anni più giovane di lui, e un nipote; ma sono gente rozza. Il Wasianski viene qualche ora al giorno per dare le disposizioni necessarie, ma in realtà Kant è abbandonato; nessuno ha la delicata pietà di liberarlo dalla curiosità malsana dei viaggiatori che vanno a vederlo come rarità di Königsberg.
I discepoli sono scomparsi; lo Herz, il Kiesewetter (che disse Kant essere stato suo maestro e padre); i vecchi e provati amici sono morti. Questa mancanza di un amico affezionato e fedele si vede anche nel destino delle sue reliquie. Esse sono vendute all’incanto e naturalmente ad alto prezzo come curiosità; il suo berrettino da mattina è venduto a 10 sterline ad un inglese; dei suoi bianchi capelli si fanno anelli che sono venduti e in breve ci sono in giro più anelli di quanti capelli Kant avesse avuto; da ogni parte; anche dall’estero arrivano commissioni per acquisto di qualche cosa delle reliquie di Kant a qualunque prezzo. Ma intanto le sue carte manoscritte sono abbandonate al libraio Nicolovius e dopo la sua morte sono vendute col resto delle vecchie carte a peso ai bottegai di Königsberg; e solo per un caso fortuito se ne salvò una parte. Un predicatore trovò presso un merciaio un esemplare delle Riflessioni sul bello e sul sublime con fogli e aggiunte di mano di Kant. E in mezzo a tanto entusiasmo nessuno si trova a salvare dalla profanazione la casa di Kant, che è trasformata in un caffè; la stanza dove aveva scritto «la Critica della ragion pura» diventa una sala di bigliardo. E nel 1893 la casa è distrutta per rinnovamenti edilizi. Così la Germania ha saputo custodire la reliquie del più glorioso dei suoi figli.
7°) Anche la vita privata di Kant non ci offre particolarità notevoli; fu un uomo semplice che condusse una vita regolare e modesta, tutta confinata nella sua città, nella sua Università e nei suoi studi. La casa presso il castello, che egli si era comperata coi suoi risparmi, nel 1783, era semplice, anzi più che semplice, povera. La sua giornata era strettamente divisa nelle varie occupazioni; si alzava alle cinque e il fedele domestico aveva ordine di non lasciarlo finché non si fosse alzato. Nel mattino attendeva ai lavori ed alle lezioni; faceva lezioni nella sua stessa casa ordinariamente dalle 7 alle 9 di mattina. Dopo pranzo faceva regolarmente la sua passeggiata; generalmente solo; è in queste passeggiate che sorsero i pensieri fondamentali della Critica. Alla sera meditava nel suo studio guardando dalla finestra l’orizzonte. Un suo biografo narra che avendo alcune piante del giardino del vicino chiusa la vista, egli pregò il vicino di reciderle, ciò che questi cortesemente fece. Di questa regolarità di vita si è voluto fare una specie di mania pedantesca; come quella del suo amico Green, l’uomo dell'orologio. Ma non è vero. Kant stesso ci conferma che il suo carattere era impulsivo, facile a cedere per bonarietà alle esigenze altrui; egli si fece volontariamente un sistema di norme perchè ciò era necessario all’opera sua. La sua disciplina nella vita fu una voluta economia dello sforzo; un istinto provvidenziale della sua natura geniale che lo spingeva ad eliminare tutte le perdite di tempo e di energia; questo ci spiega il suo sistema di vita regolare e sedentaria, la sua precisione, la cura rigorosa e sistematica della propria salute. Anche come filosofo il suo carattere è ugualmente semplice. Egli aveva alta coscienza del valore della sua filosofia ed avrebbe potuto ripetere con Spinoza: «Scio me veram philosophiam tenere»; nella prefazione della Dottrina del Diritto (ediz. Vorlärder, pag. 5) vi è una pagina che arieggia all’orgoglio Hegeliano: una sola filosofia è vera filosofia — la filosofia critica —. Prima di essa non ci è stato che dei tentativi i quali hanno avuto ciascuno il suo merito, ma che non possono dirsi filosofia, per la semplice ragione che la filosofia, come la verità, è una sola. Ma questa concezione non si traduce in alterigia ed arroganza personale, egli è lontano dalla posa dei romantici di Fichte e di Schelling; la sua modestia è profonda e sincera, come in Socrate manca in lui completamente l’ostentazione e la vanità; l’istrionismo filosofico desta in lui soltanto un disprezzo ironico.
Herder scrive: «nei tre anni che l’ascoltai quotidianamente non notai in lui la minima traccia di arroganza». Darò un esempio di questa modestia. Nel 1784 il prof. Schütz di Jena, seguace di Kant, gli annuncia l’apparizione della Litteraturzeitung e ne chiede la collaborazione. Kant accetta di scrivere la recensione delle Idee di Herder e la manda pregando di inserirla solo se i direttori della Rivista lo trovano conveniente. Lo Schütz gli risponde quasi indignato: «Come? Ella può credere che una recensione come la sua possa essere non conveniente? A me caddero le lacrime quando io lessi questo. Una tale modestia in un uomo come Lei! Io non posso descrivere il sentimento che ho provato. Era gioia, spavento e indignazione tutto insieme; ma specialmente indignazione, quando io penso alla burbanza di certi scrittori che non sono nemmeno degni di slacciare ad un Kant le scarpe» (Briefwechsel, ediz. Acc., vol. XI, pag. 375).
Un altro tratto merita di essere rilevato nel suo carattere: la sua umanità, la sua bontà. È ben noto che l’anima sua fu aperta all’amicizia; tra i più fedeli ed intimi amici ebbe due negozianti inglesi, il Green c il Montheröy; poi più tardi il suo discepolo e collega Kraus che per un certo tempo visse anche con Kant nella sua stessa casa; negli ultimi anni, (dopo il 1787) prese l’abitudine di invitare ogni giorno qualcuno dei suoi amici. Questo senso di cordialità e di umanità verso i suoi amici non escludeva però, specialmente negli ultimi anni, un certo amore della solitudine ed un senso di avversione verso gli uomini procedente dall’amara esperienza della loro miserabile natura.
Kant visse solo; pensò qualche volta al matrimonio, ma non seppe mai decidersi, non sembra che sia stato sempre del tutto insensibile al fascino femminile; una certa Lucia Rebecca Fritz (1746) si vantava più tardi, spesso e molto, di essere stata amata da Kant. Ma in genere la vita passionale non turbò eccessivamente la sua vita. Anche nei rapporti con la sua famiglia ci appare quasi freddo. Aveva un fratello, pastore in un borgo della Curlandia e tre sorelle di cui una, la più giovane, nata nel 1731, gli sopravvisse e lo assistette negli ultimi anni. Ora Kant compiè verso di essi tutti i doveri; aiutò le sue sorelle e le loro famiglie; e alla morte del fratello, sovvenne la vedova e la famiglia con una pensione di 200 talleri. Ma è fuori di dubbio che li tenne un poco lontano da sè, e stette lunghi periodi senza comunicare con essi; ciò che indusse molti a giudicarlo un carattere naturalmente freddo, apatico, morale solo per dovere. Ora anche questo non è vero. La poca espansività di Kant nei rapporti famigliari non dice nulla; il suo riserbo era dovuto forse alle circostanze che noi, nella nostra completa ignoranza circa il carattere dei suoi famigliari, non siamo in grado di valutare. Del resto tutti sappiamo quale dolorosa, spesso tragica separazione porti nelle famiglie l’elevazione di qualcuno dei suoi membri.
A noi, secondo l’epistolario, Kant appare tutt’altro che uno spirito freddo e arido; anzi ci appare come pervaso da una bontà semplice ed ingenua, che ebbe di rado un condegno compenso. Si veda per es. con quale premura e delicatezza si ingegna di soccorrere Fichte; eppure Fichte, che allora scrisse delle lettere piene di venerazione e di devozione verso Kant, gli si rivolse contro più tardi con espressioni irriverenti ed ingrate, dimenticando che ad ogni modo Kant un giorno lo aveva sfamato. Così con quali premure si occupa dei suoi discepoli prediletti, l’Herz, il Kraus, il Jachmann! procura loro raccomandazioni, borse di studi, prestiti dai suoi amici, non disdegnando di chiedere per loro, egli che per sè non aveva mai chiesto nulla. Si veda per es. il contegno suo col suo discepolo, il Flessing che aveva dovuto fuggire da Königsberg per debiti e per disordini, lasciando una ragazza incinta. Sono curiose le lettere che questo discepolo scappato rivolge a Kant, parlandogli dei suoi amori e dei suoi affari per scusarsi e averne aiuto. Nel 1792 dopo 9 anni gli scrive una lunga lettera per rendergli i 30 talleri che Kant aveva sborsato per lui e chiede il nome di altra persona, che per intercessione di Kant gli aveva anticipato una somma maggiore, per restituirla. (Fu professore a Duisburg e pubblicò opere di storia e filosofia antica, curiose e forse non senza valore, ma oggi del tutto dimenticate). E in generale Kant fu molto male rimeritato. Negli ultimi anni gli amici e i discepoli più beneficati sono assenti; solo il Wasianski gli fa l’elemosina di un’ora o due al giorno per regolare i suoi affari. Il Kiesewetter (che chiamò Kant suo maestro e padre) mentre Kant muore è in vaggio di piacere.
8°) Accennerò brevemente a Kant come scrittore e come insegnante. I primi scritti di Kant ci rivelano uno scrittore ben diverso da quello che generalmente si conosce. Lo stile è chiaro, grazioso, soffuso di lieve ironia; si vedano per es. i «Sogni d’un visionario». Tutt’altro è nelle sue opere capitali. Questo mutamento è dovuto sopratutto alla sua preoccupazione di essere preciso, coscienzioso, completo. La prima conseguenza di questa preoccupazione è una pedanteria sistematica spinta talvolta fino all’inverosimile. Una ricerca appariva a Kant completa ed esauriente solo quando era stata compiuta in modo sistematico (non rapsodico). Ma il male è che queste forme sistematiche sono attinte alla tradizione e perciò spesso coartano lo svolgimento del suo pensiero. Per es. la distinzione della «Critica della Ragion Pura» in Estetica e Logica e poi in Analitica e Dialettica in fondo è uno schema arbitario e straniero al contenuto. Certo l’ingegnosità di Kant è grande; il modo con cui riconnette le tre idee alle tre forme di raziocinio è meravigliosamente abile; ma ciò non toglie che sia un'incrostazione esteriore, inutile. Tutto ciò rende difficile penetrare il pensiero vivo di Kant, che non si ha col rendere pedissequamente l’ordine da lui stabilito. E per di più questa forma sistematica trapassa da un’opera all’altra, come in un letto di Procuste. Nello stesso schema della «Critica della Ragion pura» deve adagiarsi anche la «Critica della Ragione Pratica», la «Critica del Giudizio», onde dei ravvicinamenti e delle teorie forzate che nascondono il suo vero pensiero. Questo vale poi anche pei particolari: la tavola delle categorie diventa spesso una ragione di partizione forzata, esteriore che costringe la materia a schemi a cui essa rilutta. Una seconda conseguenza è l’indugiarsi in distinzioni ed analisi sottili di concetti che rendono più difficile la visione dell’insieme. Specialmente nelle sue teorie più nuove ed oscure, Kant non abbandona un concetto senza avere escogitato tutti i possibili aspetti sotto cui può presentarsi; onde le ripetizioni, il tornare sullo stesso argomento da un punto di vista leggermente diverso, le digressioni imbarazzanti, il che rende difficile la visione d’insieme del suo pensiero. Questa difficoltà è accresciuta da un terzo fatto: che realmente Kant stesso non è chiaro, non è conclusivo nei punti decisivi e lascia così la via aperta ad una molteplicità di interpretazioni. In effetto egli ha aperto la vita, ma non si è inoltrato fino al termine. Di qui il singolare destino della sua filosofìa; nessun filosofo può essere tale senza passare attraverso il suo pensiero; ma nessuno può arrestarsi in esso. Bisogna svolgerlo e completarlo. Un’ultima causa di difficoltà è la poca cura dello stile e della terminologia. Specialmente la terminilogia tecnica; così le parole: trascendentale, oggetto, fenomeno e simili, sono usate in più sensi: spesso Kant parla secondo il linguaggio volgare anche se questo contraddice alla sua teoria; (p. e. gli oggetti che causano le affezioni del senso) per cui egli non va interpretato da una espressione; ma tenendo presente l’insieme di tutte le teorie.
Kant ha esercitato un’azione sul suo tempo forse più con le lezioni che con gli scritti; certo esse furono la fatica più dura della sua vita. Lesse per 41 anni (82 semestri) dal 1755 al 1796, e su materie più varie, anche matematica, fisica, geografia-fisica; questa anzi era uno dei suoi corsi più celebrati. Insegnò 28-30 ore per settimana da principio, più tardi 12-16 ore, alla fine 8 ore. Leggeva generalmente dalle 7 in poi. In una sua lettera del 1759 si legge: «quanto a me, io seggo quotidianamente dinanzi all’incudine della mia cattedra e maneggio con ritmo sempre uguale il pesante martello delle monotone lezioni. Qualche volta si leva in me una aspirazione più alta, ma l’implacabile bisogno mi ricaccia con voce imperiosa all’aspro lavoro senza tregua». L’Arnoldt ha dedicato nei suoi Kritische Exkurse (1894) più di 400 pagine all’opera di Kant come insegnante. Quanto alla forma esse non erano soltanto lezioni, ma anche conversazioni critiche, dispute; sul modo non sappiamo nulla di preciso. Le lezioni erano tenute su testi per obbligo; ciò era stato prescritto per abolire l’uso dei dettati. Kant si serviva generalmente dei testi della scuola wolfiana; ma con la massima libertà; essi erano solo l’occasione. Ci è stato conservato qualcuno di questi testi, interfogliati e ricoperti di annotazioni. Certo ne doveva risultare un tutto non facilmente penetrabile pel giovane discepolo. Alcune di quelle lezioni sono state pubblicate nei manoscritti degli scolari (lezioni di metafìsica, di filosofia della religione, di morale, nel 1924); ma in essi chi conosce la dottrina kantiana, la vede come in ombra. L’adattamento forzato alle divisioni tradizionali ha un effetto poco vantaggioso sull’esposizione; e forse esso ha avuto una influenza funesta anche sulla redazione delle opere personali e sull’importanza che in esse hanno gli schemi e le divisioni tradizionali.
Quanto alle lezioni bisogna ricordare che esse si rivolgevano a studenti di tutte le facoltà e per ciò avevano per fine di svolgere in loro l’attitudine alle considerazioni filosofiche delle cose. Kant vedeva chiaramente il pericolo delle specializzazioni ed in modo particolare della specializzazione prematura; il compito di insegnante di filosofia è appunto quello di sviluppare la facoltà filosofica. Kant assimila i dotti chiusi nella loro specialità ai ciclopi, perchè vedono le cose sotto il solo aspetto della loro specialità. Compito della filosofia è di aggiungere il secondo occhio. Tanto più si comprende allora come l’insegnamento di Kant mirava non ad inculcare una dottrina, ma a svolgere la capacità filosofica. D’altronde, come sappiamo, la filosofia non può, secondo Kant, essere insegnata. Ogni filosofia è una costruzione personale; ma se anche vi fosse una vera filosofia, essa non potrebbe venire imparata; una filosofia imparata sarebbe sapere storico non filosofico. La filosofìa della scuola crea dei pappagalli, pieni di burbanza e di presunzione, peggiori che gli ignoranti. Per costruire una filosofia è necessario prima un certo sapere storico e naturale; a ciò dovevano servire i corsi di antropologia e di geografia-fisica, destinati a fornire i fatti e i dati. E per poter essere in grado di elaborali, bisogna appropriarsi la tradizione filosofica; quindi la discussione critico-storica dei problemi e delle varie correnti. Con queste vedute Kant inaugura un metodo di insegnamento filosofico che è in parte oggi ancora un desiderio; e che del resto venne dimenticato nella sua stessa scuola dai suoi impari seguaci.
Il pensiero di Kant è penetrato da due tendenze fondamentali in cui si esprime, più o meno chiaramente del resto, ogni mente veramente filosofica. La prima è un senso vivo, religioso del trascendente, una tendenza religiosa, mistica. Non è vero che Kant sia stato anche sotto il rapporto religioso sentimentalmente arido; l’avversione sua contro ogni forma di fanatismo e di entusiasmo è l’avversione contro le degenerazioni plebee dello spirito religioso. E ciò perchè in lui il senso religioso si collega con un alto senso critico. Dal secolo XVIII° viene a lui quella che è stata la grande conquista di quel grande secolo; l'esigenza di tutto sottoporre alla ragione; non di credere che tutto sia accessibile in modo chiaro alla ragione, come il razionalismo superficiale vorrebbe, ma che di tutto deve decidere la ragione, e perciò anche dei suoi limiti e della possibilità che essa ha di condurci fino ad un certo punto, di là del quale cessa per noi la possibilità di giudicare e di conoscere. Ma in tutto ciò che è nel campo del nostro conoscere, bisogna che la ragione rifletta la sua luce: che tutto sia chiarito, vagliato, giudicato dalla ragione.
Appunto per questo Kant doveva trovare miserando lo stato della metafìsica del suo tempo, asservita a prevenzioni teologiche, piena di affermazioni dogmatiche, di principii ingiustificati, di affermazioni avventate e criticamente insostenibili, onde lo spettacolo d’una scienza che vorrebbe essere tale, anzi vorrebbe essere la scienza assoluta, e che nello stesso tempo non riesce a conquistare nulla di stabile e sembra destinata ad essere preda dello scetticismo. Questo scetticismo verso la metafìsica dogmatica del tempo era uno stato d’animo diffuso negli spiriti, più chiaroveggenti. Nicolas de Beguelin, matematico e filosofo della corte di Federico II, membro dell’Accademia (che visse dal 1714 al 1789) in una serie di memorie sui principii di metafisica (1755-68) tratta della metafisica negli stessi termini di Kant nella celebre prefazione alla «Critica della Ragion Pura»; ne deplora la mancanza di certezza, di progresso, e perciò l’indifferenza del pubblico. E propone due mezzi: o che ciascuno costruisca il suo sistema di filosofia rinunciando a farne propaganda; o che si faccia una revisione imparziale dei principii, che se ne fissi i limiti ed il valore; con il che si avrebbe almeno un piccolo nucleo di sapere sicuro ed un criterio per giudicare dei sistemi. Così il matematico Abramo Kastner di Gottinga (1719-1800) rispondendo ad una raccomandazione di Kant in una lettera del 1790 parla del profondo discredito in cui era caduta la metafisica e giudica severamente wolfiani ed eclettici. Kant aveva anch’egli veduto ben presto l’inanità di questi filosofi e ne parla spesso con ironia nelle opere precritiche. Così nel Tentativo di introdurre il concetto di grandezze negative nella filosofìa (1763) parla ironicamente della discutibile sapienza dei metafisici. Ma l’opera in cui assume un deciso atteggiamento scettico è «I sogni d’un visionario». A pag. 46 (trad. it.) li considera come dei sognatori che sognano con la ragione. Aristotile dice in qualche punto
«quando siamo svegli abbiamo un mondo comune, ma quando sogniamo ciascuno ha il proprio. Mi pare che si potrebbe benissimo invertire l’ultima proposizione e dire: se di diversi uomini ciascuno ha il suo mondo proprio, è da credere che essi sognino. Su queste basi, se noi consideriamo quei fabbricanti di castelli in aria ciascuno dei quali costruisce a sè un mondo del proprio pensiero e lo abita tranquillamente escludendo gli altri, quelli per es. che abitano il sistema del mondo come lo ha fabbricato Wolf con poco materiale empirico, ma con abbondanza di concetti surretizi, e quelli che abitano mondi tratti dal niente da Crusius, grazie al potere magico di qualche sentenza sul pensabile e l’impensabile, attenderanno con pazienza, date le contraddizioni delle loro visioni, che questi signori abbiano finito di sognare. E quando finalmente, come Dio vuole, essi saranno svegli, quando cioè apriranno l’occhio ad uno sguardo che non escluda l’accordo con altri intelletti umani, allora nessuno di loro vedrà cosa che non possa apparire egualmente manifesta e certa a chiunque altro, e i filosofi abiteranno un mondo comune come quello che già da tempo occupano i matematici; avvenimento importante che non può più farsi attendere a lungo, se si deve credere ai segni che si mostrano sull’orizzonte della scienza» (pag. 47).
La prima prefazione della Critica della Ragion pura comincia anch’essa con la stessa constatazione.
Ora quale è la causa di questo deplorevole stato di cose? Anche qui lo sguardo di Kant vide sin da principio profondamente la causa della degenerazione della metafisica e non della metafisica soltanto: cioè l’intrusione di concetti sensibili nell’ordine suprasensibile. Kant è nell’indirizzo suo fondamentale un platonico; un platonico secondo la tradizione leibniziana; perciò distingue nella conoscenza, come nella realtà, due ordini: il sensibile e l’intelliggibile. Ora, qualunque sia la scienza che possiamo avere e non avere dell'intelligibile, insieme. La scienza sta dal punto di vista concreto e deve rifuggire da ogni ricorso all’azione finale; qualunque ipotesi più temeraria è preferibile a questa violazione dell’ordine naturale. E così nella stessa opera, infine, Kant esprime la sua simpatia per il concetto della trasmigrazione cosmica, che ha avuto le simpatie anche di Lessing, Lichtemberg, Hume, ma lo tratta come una fantasia personale che non ha nulla da vedere con la scienza.
Un avicinamento alla netta distinzione è già nella «Nova Dilucidatio» del 1755 dove pone nettamente che altro è la coesistenza delle sostanze, altro il loro rapporto spaziale.
Questo concetto della separazione si concreta meglio nelle opere del decennio successivo, nel concetto d’una critica della metafisica, d’una critica della nostra facoltà di apprendere il soprasensibile (ragione pura). Nell’introduzione alla «Ricerca sulla chiarezza dei principi della teologia naturale e della morale» (1763) si propone appunto il compito di un esame critico della metafìsica fatto indipendentemente dalla metafisica, cioè d’una critica preventiva.
E la conclusione sua è che la metafisica deve limitarsi ad un’analisi precisa e rigorosa dei propri concetti, dalla quale potrebbe ricavare un piccolo numero di cognizioni modeste e limitate, ma sicure. In senso più decisamente scettico si pronunziano invece già i «Sogni d’un visionario» dove il patrimonio della metafisica è ridotto quasi a zero. Un esempio della critica dei concetti metafisici ci dà il capitolo 1°) nell’analisi del concetto di spiriti; ma essa ha per risultato di dimostrare che questo concetto è una formazione arbitraria, posta la quale se ne può dedurre tante belle cose, anche la possibilità della visione del mondo spirituale; ma che con tutte le sue conseguenze è una posizione arbiraria, non imposta dalla ragione, non sostenuta dall’esperienza. La mente umana comincia con ardore ad occuparsi di tante questioni alte e profondamente interessanti come la realtà spirituale, la libertà, la predestinazione, la vita futura, etc.; ma ben presto la ragione critica si avvede che queste sono larve di conoscenza, e che questi oggetti giacciono fuori della sfera del conoscere umano.
Analizzare l’esperienza, ridurne le variopinte apparenze a un certo numero di rapporti e di forze fondamentali; ecco quanto può fare la filosofia. Ma quando essa crea nuove forze od esseri non dati dall’esperienza, essa entra in un mondo di chimere. Può darsi che nel mondo futuro si disvelino a noi altre realtà; ma per ora qui sono chimere, (Sogni d’un visionario, trad. Ita., pag. 55-56 e 72-75).
Nei «Sogni» Kant sembra quindi accostarsi ad una specie di agnosticismo scettico verso la metafisica. Vi è una realtà soprasensibile e verso di essa ci conduce la fede morale delle anime ben nate; ma tutto quello che possiamo qui conoscere è soltanto l’esperienza. Subì Kant dopo il 1765 l’influenza dei «Nuovi saggi» di Leibniz, pubblicati appunto in tale anno? (Leibniz è morto nel 1716).
Ciò è possibile, ma non bisogna nemmeno esagerare la influenza di queste azioni esterne. Certo è che Kant riprende in esame la possibilità d’un sapere intellettuale puro e ne ammette la possibilità, naturalmente entro limiti molto ristretti. La scienza che contiene questi concetti puri della ragione è la metafisica; ad essa serve di propedeutica la dottrina che distingue la conoscenza del senso da quella dell’intelletto (Critica della ragione). I concetti puri della ragione vengono acquisiti, risvegliati in noi per mezzo dell’esperienza, ma non ne derivano (per es. i concetti di possibilità, realtà, necessità, sostanza, ecc.).
Il fine dei concetti intellettivi non è solo quello di ordinare logicamente l’esperienza, ma anche di rivelarci il mondo soprasensibile. Però qui, mancando di esperienza, l’errore è molto facile; specialmente per l’insinuarsi di concetti sensibili. Perciò il principio metodico della metafisica è che i concetti sensibili non trapassino il loro limite e non affettino le conoscenze intellettive. Soggetto d’un predicato sensibile può essere solo un soggetto sensibile; se è intelligibile ciò vuol dire che la proposizione è solo una trascrizione soggettiva (simbolica) che rende possibile una conoscenza relativa del soggetto. Il riferimento assoluto dei predicati sensibili al soggetto intelligibile dà origine a conoscenze surrettizie che sono l’inizio degli errori della metafisica. E poiché, sensibile è uguale a spaziale e temporale, gli errori della metafisica nascono dal riferimento di predicati spaziali e temporali alle realtà intelligibili.
Kant divide questi errori in tre classi. La prima riguarda affermazioni che pongono le condizioni della nostra intuizione come condizioni dell’esistenza stessa degli oggetti. Per es. tutto ciò che è per noi in un tempo e in uno spazio. Ed allora si cerca la sede dell’anima, si pensa Dio come onnipresente, si cerca il quando della creazione del mondo, si disserta sulla cognizione che Dio ha delle cose future, ecc.
La seconda sta nel pensare che le condizioni nostre della possibilità d’un concetto siano anche quelle della sua realtà. Noi qui concepiamo la grandezza come addizione successiva e perciò non vi è mai una totalità assoluta; ma per noi ciò non vuol dire che una totalità assoluta sia impossibile. (Siamo qui alla difficoltà capitale che verrà svolta nella dottrina delle antinomie).
La terza classe sta nel credere che la realtà intelligibile debba riprodurre gli stessi rapporti che noi riferiamo qui ai concètti sensibili. Ad evitare questi errori è necessaria una critica della filosofia, che separi nettamente i due campi. Quest’opera, che fu poi «La Critica della ragion pura», nelle lettere ad Herz del 1771-1772 porta ancora il titolo «I limiti della sensibilità e della ragione».
Ma nel decennio che antecede la pubblicazione della Critica, questo concetto subisce ancora una modificazione radicale che ci introduce nella filosofìa critica vera e propria. L’analisi dei concetti della ragione, mostra a Kant che, tolto ad essi rigorosamente ogni contenuto sensibile, essi si risolvono in astrazioni senza realtà; le sole conoscenze pure che abbiano una vera consistenza sono le idee morali (Diss., parag. 7). Già nella Dissertazione appare inoltre questa considerazione; che l’intelletto stesso può in certe sue applicazioni essere relativo all’uomo (Diss., Parag. 30). È su questo punto che le osservazioni di Hume (con la sua analisi del concetto di causa) svegliarono Kant dal sonno dogmatico e diedero un altro indirizzo alla sua speculazione.
Ma allora a che cosa serve la ragione, a che cosa serve il conoscere? Non siamo rigettati in un fenomenismo scettico da cui difficilmente si salverebbero anche i concetti morali? Ciò che pare a Kant un punto d’appoggio sicuro contro lo scetticismo è il concetto della scienza. L’analisi che Hume aveva dato del concetto di causa non solo rendeva nulla ogni possibilità della metafisica, ma aboliva il concetto di legge e di necessità fisica. Non vi erano più leggi, ma regole empiriche; non necessità, ma consuetudine soggettiva; non certezza, ma verosimiglianza. La matematica si era salvata perchè Hume l’aveva considerata come un’analisi di concetti; ma se ne avesse visto il vero carattere, anche la matematica avrebbe avuto lo stesso destino.
Ora, è stata sempre profonda convinzione di Kant il valore della scienza matematica e fisica; dell’universalità e necessità delle leggi matematiche e fisiche egli non poteva dubitare. Come conciliare allora la condanna dell’uso reale dei concetti della ragione con l’assoluto riconoscimento del loro uso logico nella scienza? E come conciliare questo valore logico assoluto con il carattere fenomenico della realtà? Come può costituirsi in queste condizioni il conoscere, ed a che serve? Kant credette di poter risolvere queste difficoltà ed anzi trovare la ragione di queste apparenti contraddizioni in un nuovo concetto del conoscere. Mentre il conoscere era prima un essere formato, un ricevere, diventa per Kant un formare, un agire, un’attività dello spirito. Sarebbe facile ricercare gli antecedenti di questo concetto nella filosofia moderna; basti ricordare il concetto dell’imaginatio che in Spinoza compone il mondo sensibile; le funzioni dell’immaginazione in Hume e il concetto di conoscenza fenomenica in Leibnitz. Ma con questo problema si complicava per Kant il problema della matematica. Vi è in noi una potenza creatrice occulta che suscita questo mondo caratterizzato dall’ordine spaziale e temporale, ma come accade che le leggi di questo ordine (leggi matematiche) sono da noi conosciute a priori? E che cosa sono il tempo e lo spazio? (Altra famosa controversia del tempo). Queste difficoltà sono rimosse se si considera il tempo e lo spazio come forme di questa potenza creatrice sensibile, forme necessarie della realtà fenomenica. Allora si spiega come in un mondo di fenomeni abbiamo le leggi immutabili della matematica.
Questa concezione, che nella Dissertazione si estende solo al senso, è nella Critica estesa a tutto il conoscere. Ogni conoscenza è un formare, un plasmare secondo fórme unificatrici insite allo spirito; la conoscenza è attività unificatrice secondo forme necessarie dello spirito, le quali nel caos di fenomeni creano un ordine, un mondo stabile, il mondo obbiettivo della esperienza e della scienza, per quindi pervenire in esso alla coscienza chiara di sè e dei propri compiti che trascendono la realtà fenomenica. Che Kant avesse coscienza di questa rivoluzione che egli introduceva nel concetto del conoscere e della realtà conoscibile, lo dimostra il paragone di sè con Copernico; il centro non è più il mondo delle cose, ma l’io (Kuno Fischer: Kant, I, p. 6-9).
Strano è clic questo paragone ricorre già in un matematico filosofo dell’Accademia di Berlino, Premont-val, che in una memoria del 1761, si chiama il Copernico della metafisica e per la stessa ragione di Kant.
Naturalmente questa creazione della realtà da parte dello spirito non è che una creazione relativa, una creazione che consiste nell’apprendere la realtà assoluta secondo l’imperfetta natura, e costruisce il mondo relativo a noi sotto la direzione di quelle forme inerenti allo spirito che ci dirigono in questa costruzione, e fanno sì che essa sia una costruzione obbiettiva, valida per tutti gli spiriti, un’esperienza. La realtà che è unita, ci è data nella sua massima dispersione come molteplicità sensibile, che lo spirito con la sua attività sintetica ricollega ritorna verso l’unità; in ciò sta la sua attività sintetica, creatrice.
Il mondo è una sintesi a priori. Il vero processo creatore della conoscenza è perciò, secondo Kant, la sintesi, il giudizio sintetico; il processo analitico è solo un processo secondario, sussidiario che scompone per chiarire, armonizzare ciò che la sintesi ha creato. Questo è il senso vero e profondo della famosa e tanto discussa distinzione fra giudizi sintetici ed analitici.
Due obiezioni capitali furono mosse: a) Ilgiudizio è sempre analitico. Quando dico: alcuni uomini sono neri — per alcuni uomini intendo i negri; perciò — i negri sono neri — il che è giudizio analitico. Ma questa obiezione confonde la proposizione che esprime il giudizio con il giudizio come atto mentale, il quale necessariamente lo antecede ed è una vera sintesi, b) L’obiezione più nota è quella della relatività. Un giudizio è sintetico per l'ignorante, mentre è analitico pel dotto. (Es.: l’oro è un metallo dal peso specifico di 19,3). Ma Kant non riferisce la distinzione all’individuo, bensì all’esperienza normale. In questa vi sono collegamenti necessari di elementi, i quali concorrono nell’unità del concetto (per es. i caratteri fìsici, chimici, ecc. dell’oro): essi danno origine ai giudizi analitici. Vi sono pure collegamenti, necessari o non (es. il triangolo ha la somma dei due lati sempre maggiore del terzo) che non sono e non possono essere implicati nel soggetto: questi danno origine ai giudizi sintetici (a priori ed a posteriori).
L’essenziale ad ogni modo per noi è questo: che la conoscenza si costituisce per atti successivi di sintesi: (anche le unità conocettuali derivano da atti di sintesi trascendentale). Questa progressione sintetica ha per Kant tre gradi che sono: il senso, l’intelletto e la ragione. I due primi sono le facoltà teoretiche umane per eccellenza: essi creano il mondo obiettivo dell’esperienza. La ragione invece è l’attività sintetica che cerca di elevarsi al di sopra del mondo sensibile, che fondandosi sui concetti della esperienza cerca di stringere nelle sue idee l’intelligibile puro, e che perciò appunto — essendo nell’uomo la conoscenza legata indissolubilmente al dato sensibile — conduce alle aberrazioni ed alle contradizioni della metafìsica. Bisogna notare che anche questa terminologia fondamentale in Kant non è costante. Per ragione Kant intende spesso l'attività sintetica in tutti i suoi gradi (Critica della ragione pura); in senso meno ampio l’intelletto e la ragione.
Questa sintesi aviene secondo leggi dello spirito che sono leggi della sua direzione verso l’Uno e perciò valgono obbiettivamente e sono anzi condizioni della validità del conoscere; essa è una sintesi a priori. Sotto questa forma Kant rinnovava e riabilitava l’antico concetto della filosofìa platonica; che vi è un sapere che lo spirito porta con sè e che non deriva da alcuna impressione e da alcuna esperienza. Egli si riconnette qui al concetto leibniziano che l'anima ha il potere di derivare da sè il mondo (Tentativo di introd. le grandezze negat., ediz. Vorländer, pag. 108). Sapere a priori è sapere per mezzo della ragione indipendente dall’esperienza. Il volgare è scettico di fronte a tale asserzione: la prima teoria è l’empirismo. Ma è una teoria di menti grossolane: gli empirici geniali, come Hume, si sono ben guardati dal ridure tutto all’esperienza. Si veda per es. il concetto di causa: come può derivare dall’esperienza se l’esperienza causalmente connessa lo presuppone? Così è dei concetti morali: come possono derivare dall’imitazione, se ogni obbligazione già li presuppone? Il padre dell’apriorismo è Platone: e la teoria platonica delle idee innate si trasmette attraverso tutta la storia della filosofia fino a Leibniz. Naturalmente non si tratta di conoscenze preesistenti: esse si risvegliano, secondo Platone, in occasione dei sensi. Sono, secondo Leibniz, virtualità dello spirito che si svolgono in occasione dell’esperienza. Ma noi abbiamo veduto ehe Kant contesta o almeno mette in dubbio la facoltà di conoscere con la pura ragione: in questo hanno la loro origine tutte le miserie della metafisica. Con lui comincia infatti il nuovo concetto dell’a priori. L’a priori non è più conoscenza oggettiva, esprimente una realtà, ma legge, funzione unificatrice, elemento essenziale dell’esperienza che senza di essa non sussiste come sapere reale.
Come Kant sia giunto a porre questo fattore a priori della conoscenza, noi l’abbiamo veduto, è il suo alto concetto della scienza, la sua concezione che la scienza non è solo un cumulo di probabilità sorte dalla ripetizione dell’esperienza, ma un sistema di vere leggi, cioè di principii universali e necessari. Ma la sua giustificagione naturalmente è più profonda. La peggiore disgrazia che potrebbe capitarmi, dice ironicamente Kant in un passo delia «Critica della ragion Pratica», sarebbe che alcuno potesse dimostrare che non vi è un a priori. Ma da questa parte egli aggiunge, non vi è pericolo perchè sarebbe come un voler dimostrare con la ragione che la ragione non esiste. Perchè ogni minima affermazione, che abbia la pretesa di valere obbiettivamente, cioè in modo universale e necessario, trascende ogni esperienza possibile, perciò già implica anche mentre la nega, la facoltà dello spirito di fondare — per eccitazione della esperienza — leggi e principi in cui gli elementi materiali sono dati, ma il collegamento necessario è imposto da una legge dello spirito e perciò è a priori.
Ogni esperienza perciò, quando venga analizzata con sagacia, si presenta come una tale sintesi di dati, secondo funzióni non ricavabili dal dato. Quindi il principio metodico che ricorre sempre nelle opere di Kant: che dove abbiamo una affermazione universale necessaria, lì abbiamo un’azione d’un principio a priori.
L’elemento a priori del conoscere è assimilato da Kant alla forma aristotelica che è l’elemento universale tipico, essenziale delle cose. Soltanto la dualità della forma e materia deve essere dalle cose trasportata nella costituzione della conoscenza. La molteplicità dei dati sensibili che si aggrega e si unisce secondo lé leggi funzionali dello spirito è la materia: queste leggi funzionali dello spirito sono le forme. Poiché vi sono tre gradi di sintesi e ciascuno ha le sue leggi funzionali, così vi,sono tre specie di forme a priori: forme del senso, dell’intelletto e della ragione. Di ciascuna di esse vedremo a suo tempo, e in tale occasione determineremo meglio il concetto di forma.
Così abbiamo visto come si è venuto determinando e mutando il primitivo progetto di Kant di stabilire una netta separazione fa i concetti del senso e quelli della ragione — tra la fenomenologia e la metafisica. Egli ha dovuto constatare che non vi sono concetti veri e proprii della ragione: perchè se si spogliano del contenuto sensibile, non ci restano che delle astrazioni. Questo non vuol dire che siano abbandonati al fluire della sensazione; la funzione teoretica della ragione non sta tanto nell’avere conoscenze proprie, quanto nel collegare con leggi e principii fondamentali le sensazioni, dando così origine al mondo dell’esperienza obbiettiva; questo è quell’aspetto della ragione che Kant dice intelletto, mentre riserba il nome di ragione alle sintesi supreme del pensiero.
E poiché l’esame del senso ci ha rivelato in esso anche mi elemento fondamentale, subbiettivo, a priori, così tutto il conoscere si rivela come mi processo sintetico che ha per risultato valido ed obbiettivo la costituzione del mondo dell'esperienza; mentre il suo coronamento, nel conoscere razionale puro, ci conduce solo in mezzo alle illusioni ed alle contraddizioni. Quindi il compito attuale è di seguire in tutti i suoi gradi questa attività sintetica — che è la ragione pura — per vedere come è costituita e come nel senso e nell’intelletto dia risultati obbiettivi; questa conoscenza della sua natura ci mostrerà anche come e perchè nella sua funzione metafisica conduce all’errore. E poiché questo errore non può essere nella funzione stessa, ma nell’uso che ne facciamo, si tratterà di vedere a che cosa serve la funzione metafisica nell’uomo; come deve essere diretta. (Estetica, Analitica, Dialettica).
Questa ricerca dell’elemento razionale puro è quella che Kant chiama ricerca trascendentale. Questa parola derivata dalla scolastica, ha in Kant un senso tutto speciale e relativo ai costituenti a priori dell’esperienza, ed è perciò specialmente riferita alla ricerca, alla conoscenza delle facoltà e funzioni conoscitive, appunto in quanto costituiscono questi elementi a priori (immaginazione, appercezione trascendentale), o dei loro atti (schema, principio, sintesi). Anzi Kant chiama la-sua filosofia idealismo trascendentale, in quanto la sua filosofia è caratterizzata appunto da ciò che essa vuol essere riflessione del conoscere sulle sue attività, sulle; sue funzioni a priori. Chiara è perciò la differenza da trascendente. Noi diciamo trascendente tutto ciò che sorpassa, va al di là di ogni possibile esperienza; e si oppone ad immanente che vuol dire «compreso nei limiti dell’esperienza possibile» cioè non solo dell’esperienza realizzata, ma anche di quella futura o non realizzabile (per es. il centro della terra). Trascendente è perciò Dio e le sue proprietà.
Il trascendentale ha questo di comune con l’immanente: che non oltrepassa l’esperienza, perchè ne è un costituente; ma vi si oppone in quanto non deriva dall’esperienza, anzi può venir pensato in astratto, separato dall’esperienza. Questa affinità ci spiega come in Kant stesso abbiamo alcune volte una confusione dei due concetti: perchè il soggetto trascendentale, in quanto non sia considerato come pura lunzione, è certo una realtà trascendente. Onde in Kant talora trascendentale è uguale a trascendente. Questa ricerca non deve naturalmente essere confusa con una ricerca genetica, storica o psicologica; l’analisi del processo conoscitivo non ne è la storia. Senza dubbio la storia è una preparazione ed un aiuto all’analisi, ma non è la stessa cosa.
Per es. nel diritto la storia mostra come da uno stato che si avvicina allo stato di natura sorge la società; ivi essa mette in luce la continuità causale. Ma questo non vuol dire che la società sviluppata non contenga idealmente nulla di più di quanto vi era nello stato di natura, che cioè si tratti di un puro processo meccanico, di spostamento d’elementi. Si svolgono nel corso del divenire concreto nuove forme di vita; principii ideali che erano pure potenze si esplicano come principii dominatori; entrano in azione i fattori non contenuti materialmente nell’inizio. L’analisi chiede quali di questi principii o fattori è il più essenziale, che dirige anche come potenza tutto lo svolgimento. Qui è necessario un occhio ben più sagace che quello dello storico.
Così nella conoscenza: dalla rappresentazione dell'animale al pensiero del filosofo la storia ci mostra una continuità; ma l’analisi prende il fatto nella sua complessità più alta per indagare ciò che in esso è direttivo ed essenziale, e per quest’analisi anche la storia è una conoscenza come un’altra. È vero che in apparenza anche quest’analisi ci rappresenta sempre la conoscenza come un processo storico, una sintesi progressiva; ma questo deriva solo dal fatto che noi dobbiamo rappresentarci tutto nel tempo. E se pensiamo che anche il tempo è un momento di questa sintesi, ciò vuol dire che non è un processo storico, ma una gradazione e sistemazione di valori e di realtà.
Ma se non è una constatazione storica, come avviene questa analisi? Su che si fonda se non sull’esperienza di ciò che avviene? Su l’autocoscienza trascendentale. Come nel fatto morale la coscienza della legge morale e la coscienza della volontà istintiva non sono constatazioni dello stesso grado, fatte da un io esteriore ad esso, ma un diverso grado di vita dell’io a cui s’accompagna un diverso grado di coscienza; così l’autocoscienza dei principii razionali s’impone come qualche cosa di necessario e di assoluto di fronte alla molteplicità sensibile. È l’autoriconoscimento dell’io razionale. La coscienza di pensare, in quanto pensiero, dice Kant, è coscienza trascendentale, non esperienza. In ciascuno dei gradi della sintesi, le rispettive forme o funzioni unificatrici costituiscono un sistema di principii puri, costituente la scienza pura. Le forme del senso costituiscono la matematica, le forme dell’intelletto la fìsica pura; le forme della ragione aspirano almeno a costituire la metafìsica. L’esistenza di queste discipline pure è per Kant una controprova della realtà delle forme a priori; senza di cui il loro valore apodittico sarebbe inesplicabile.
L’esame dei diversi gradi della sintesi conoscitiva può anche essere fatto sotto questo aspetto; e allora si comprende la posizione del problema nei «Prolegomeni»: come è possibile la matematica pura? Come è possibile la fisica pura? È possibile la metafisica, e se è possibile, come? La ragione della diversità di quest’ultima domanda non ha bisogno di schiarimenti. Ma la critica della ragione, nell’indagare la natura dell’elemento razionale puro e delle sue creazioni dirette, mette in luce anche la sua funzione principale che è la costituzione dell’esperienza; la Critica della Ragion pura è anche una teoria dell’esperienza. Da questi preliminari generici sul punto di vista di Kant è già possibile vedere quale sia stata la rivoluzione da lui introdotta nel pensiero filosofico.
Esso apre veramente un’era nuova, l’era del riconoscimento che l’io ed il mondo non sono entità assolute, ma creazioni dello spirito. La realtà assoluta è il limite inaccessibile della nostra conoscenza; ma ogni spirito finito è questa realtà assoluta medesima che imperfettamente si pensa e che, aspirando a ristabilire quest’unità, crea dal mondo caotico che porta in sè un’unità relativa; da questa creazione hanno origine l’io ed il mondo che noi conosciamo. Quindi i segreti più alti li portiamo in noi, nell’attività nostra medesima, che è ciò che deve servirci a comprendere tutto il resto, perchè tutto ne dipende.
Svanisce quindi l’antico dogmatismo che considerava queste creazioni nostre come realtà assolute e perciò erigeva in realtà assolute, non solo ciò che esse hanno in sè di assoluto, ma anche le forme sensibili, umane, che per noi necessariamente rivestono e velano l'assoluto. Di qui la soggettività, le contraddizioni e le assurdità della metafisica tradizionale, che cela in sè una profonda verità, ma la nasconde in un grossolano antropomorfismo. Svanisce del pari la negazione opposta, l’empirismo, che si acquieta in questa creazione finita e, misconoscendo l’attività assoluta che in essa si esplica, nega ogni valore assoluto. Anch’esso nella negazione d’ogni affermazione assoluta riesce infine alla contraddizione ed alla negazione di se stesso. Questo contrapposto del dogmatismo e dello scetticismo, in cui si erige come terzo momento il criticismo, è una classificazione nuova, propria del kantismo; essà ricorre nella prefazione della Critica ed è stata ripetuta innumerevoli volte nella scuola.
Questa classificazione è vera e profonda e va oltre il campo della filosofia. Anche nella religione abbiamo da una parte il dogmatismo che afferma una verità ma l’avvolge di elementi inferiori, dall’altra lo scetticismo che per effetto di questa degenerazione respinge anche la verità che il dogmatismo contiene.
Il pensiero critico si accorda con lo scetticismo nella negazione dell’elemento dogmatico, ma si accorda con il dogmatismo nel riconoscimento della verità trascendente. Esso non è una soluzione determinata, ma un avviamento, un’eccitazione a superare le fasi infantili del pensiero religioso che è caratterizzato appunto da questa opposizione. E così in filosofia il pensiero critico non è un sistema, ma un indirizzo, un nuovo piano di pensiero che ci pone dinnanzi a nuovi problemi ed a nuove soluzioni, ad un’opera che Kant ha appena iniziato. Per ciò esso è la condizione d’ogni pensiero vivo, che guardi verso l’avvenire.
L’elaborazione del conoscere fenomenico ha due gradi qualitativamente distinti dalle rispettive forme: il senso e l’intelletto. Qui Kant non fa che ritornare all'antica distinzione scolastica tra le proprietà dell’ente che si riferiscono all’esistenza — spazio e tempo — e le proprietà che si riferiscono all’essenza «unum verum et bonum». Kant nell’analitica critica le categorie intellettive tradizionali.
Egli rigetta la teoria leibniziana secondo cui il senso non era che la visione confusa del conoscere intellettivo. (Critica Rag. Pura ediz. Valentiner, pag. 9697). I leibniziani stabilivano tra il senso e l’intelletto una semplice distinzione quantitativa di chiarezza: la conoscenza sensibile è la conoscenza d’un grande numero di elementi che lo spirito abbraccia d’un colpo e perciò in modo confuso e indistinto; la stessa conoscenza quando venga dall’analisi ristretta ad un solo elemento diventa chiara e distinta, e dicesi conoscenza intellettiva. Secondo Kant invece non vi è transizione insensibile, ma differenza specifica.
Il primo grado di conoscenza è la conoscenza del senso non ancora intellettivamente elaborato. È una astrazione perchè la nostra conoscenza empirica è già tutta intessuta dalle categorie, ed in questo primo grado è già elaborazione formale e unificazione. Le forme elaboratrici sono: lo spazio ed il tempo. La teoria che identifica la realtà sensibile con la realtà spaziale-temporale non è nuova: Kant non ha fatto che determinarla con maggior rigore. Anche in Malebranche e Spinoza la estensione divina è estensione intelligibile, che è ben altro dall’estensione divisibile, sensibile. Leibniz ha eliminato questa distinzione insostenibile relegando la spazialità nell’ordine fenomenico.
Qui sorgono molte questioni. La prima è questa: come Kant distingue il tempo e lo spazio nel seno dell’esperienza dal resto del dato? È una semplice constatazione psicologica od una conclusione logica? È una constatazione trascendentale; nell’io che afferma il loro carattere formale si afferma l'autoposizione stessa delle forme; è una distinzione trascendentale logica.
Questa natura trascendentale si rivela a se stessa per i caratteri dell’essere trascendentale: l’universalità e la necessità. E questi sono i caratteri che Kant nella deduzione metafisica (distinzione trascendentale) pone in rilievo per dimostrare il carattere formale dello spazio e del tempo.
Prendiamo l’esperienza data ed eliminiamo tutto quello che è ordine intellettivo; quello che resta è ciò che Kant chiama l’intuizione empirica. Ora in essa noi troviamo una molteplicità di elementi, ciascuno dei quali esprime per sè un contenuto puramente quantitativo, che sono ordinati secondo un duplice ordine: il tempo e lo spazio. Che cosa sono questi due ordini? Il problema occupa in particolar modo la filosofia del XVIII secolo. La soluzione comune è che siano come due entità assolute, che sono per accogliere tutto il reale in sè, e non sono, tolto questo, nulla di reale. È la soluzione del realismo. (Eulero - Riflessioni sullo spazio e sul tempo, 1748). Per Leibniz sono sistemi di rapporti tra le unità elementari fenomeniche; ma questi rapporti hanno dei caratteri ben particolari e si rivelano come due grandi sistemi in cui ciascun singolo rapporto è collegato necessariamente con la totalità.
Kant adduce a questo proposito quell’esempio, che già era stato utilizzato da lui in una memoria del 1768: «Del fondamento della distinzione delle direzioni nello spazio», dove mostra che negli oggetti simili, ma incongruenti, i rapporti interni sono identici, ma differiscono nella direzione, cioè nel rapporto con la totalità. Di più ci appaiono come qualche cosa di universale e di necessario. Prendiamo come esempio il tempo. Ogni elemento ci appare necessariamente in un ordine, che non è qualche cosa di risultante dagli elementi, ma qualche cosa di preesistente. Possiamo annullare col pensiero gli elementi; ci resta il tempo vuoto come astrazione; ma tolto il tempo sono tolti gli elementi. Un dato ordine temporale non può essere mutato senza mutar gli elementi; ma si possono mutare gli elementi senza toccarne l’ordine temporale. In terzo luogo, il tempo ci appare come qualche cosa di infinito; ogni tempo limitato ci appare come una limitazione che presuppone una totalità infinita. Infine i rapporti suoi sono qualche cosa di necessario nel senso che possono venire espressi in leggi costitutive a priori, indipendenti dall’osservazione; l’apriori della matematica.
Da queste considerazioni Kant è tratto alla conclusione che spazio e tempo sono forme a priori dell'intuizione; leggi secondo le quali si costituisce la realtà dell’intuizione sensibile. Come debba essere inteso cioè, è quanto vedremo ora poco per volta. Ma prima dobbiamo accennare alla questione: perchè queste due forme? Il senso non è forse unico? Kant risolve la questione ponendo due attività del senso: il senso interno (tempo) e il senso esterno (spazio).
Questa teoria del senso interno è uno dei punti contestabili e controversi della dottrina kantiana circa la conoscenza sensibile. Sta di fatto, almeno secondo la constatazione più immediata, che tutto il contenuto di tutta la nostra conoscenza è, come tale, un sentire interno, un fatto dell’io; ma che una parte di questo contenuto può anche essere considerato a sè, come indipendente dal nostro apprendere; e questo contenuto è quello che noi diciamo allora «senso esterno».
Questo stato di fatto è da Kant interpretato in questo senso: che le nostre rappresentazioni sono condizionate dalla forma dello spazio; perciò noi apprendiamo il mondo della realtà come un mondo di estesi coesistenti. Ma l’attività stessa dell’io come attività rappresentativa, non perviene alla coscienza dell’io che in quanto essa affetta l’io, onde ha un vero senso interno; ossia l’attività stessa dell’io non è appresa se non per mezzo d’un’unificazione formale che ci dà il tempo. Quindi, e questa è la conseguenza più importante per Kant, anche l’io è appreso soltanto fenomenicamente e non già come è in sè. Il mondo delle rappresentazioni ci appare come esteso nello spazio, ma questo mondo e l’attività nostra per cui lo rappresentiamo ci appare poi anche come esteso nel tempo, che è la forma più universale, in quanto si estende e al contenuto delle rappresentazioni dell’io, ed alla attività rappesentativa dell’io. Vi è in questa teoria kantiana più di un punto debole; senza che tuttavia ciò contrasti con la teoria generale della sensibilità. Certo essa sembra contrastare con il concetto comune che vorrebbe che noi apprendessimo direttamente nel nostro io la realtà in sè: teoria di Lotze e di Schopenhauer.
Tuttavia anche per Schopenhauer la volontà non è infine ancora la realtà in sè; è sempre vista nel tempo. Il Simmel dimostra che in realtà ogni atto interno è la posizione d’un io-soggetto, che ad esso si contrappone: per es. quando noi consideriamo il nostro passato o ci osserviamo.
Ad ogni atto interno è inerente un certo grado di attenzione; ora l’attenzione è la posizione d’un io che osserva. Come dobbiamo dunque risolvere la questione? In realtà tutti gli atti del senso debbono essere considerati sotto un duplice aspetto; come contenuto e come attività funzionale. Come contenuto tutto si subordina all’unità spaziale; e quest’unità spaziale ci si presenta già fatta e formata (il mondo), ma la sua formazione è ancora trasparente. Non solo noi distinguiamo tra gli elementi su cui questa nostra intuizione spaziale sembra direttamente fondata (sensazioni tattili e visive) e quelli che si sono ad essa posteriormente subordinati (sensazioni di altri ordini); ma nella stessa sua costi -tuizione definitiva vi è una parte che ha l’apparenza di una conclusione. (La teoria della proiezione, l’inferenza di Helmholtz, gli errori dei sensi, ecc.).
Come attività funzionale tutto si subordina alla forma del tempo. E perchè anche il contenuto vi si subordina? Perchè inconsciamente lo interpretiamo sull’analogia dell’attività funzionale; questo è l’inconscio idealismo di ogni realismo. Vi è quindi un costante parallelismo delle due forme come i due aspetti della nostra rappresentazione sensibile: in quanto essa ci presenta il dato rappresentato come il nostro io (tempo) e ce lo presenta, nel suo contenuto, come un non io (spazio) che pure non può essere pensato che nella forma dell’io (onde anch’esso è nel tempo). Questo parallelismo si estende per tutto il contenuto interiore, in quanto per tutto il contenuto si estende il parallelismo tra conoscere ed agire. Anche le passioni, i sentimenti, ecc. non sono senza un contenuto rappresentativo, e questo è spaziale. Anche l’immaginazione ha un contenuto spaziale; gli spazii immaginari si sommano allo spazio reale in un solo spazio. E così è anche del pensiero astratto: anche se qui è messo in rilievo l'aspetto funzionale esso vale sempre solo d'una realtà spaziale. Vi è solo un punto nella coscienza che si sottrae al tempo ed allo spazio: il centro, l’io trascendentale. Per esso pensiamo che l’io abbraccia tutto lo spazio e il tempo, ma esso non ha contenuto e può solo essere pensato, non rappresentato. È l’unità formale nella sua purezza. Questo è un aspetto che Kant non considera nè nell’estetica, nè nell'analitica. In complesso quindi la teoria kantiana non può essere sostenuta letteralmente; ma nelle sue conclusioni fondamentali è vera.
Un’altra questione deve essere, se non risolta, eliminata, prima di procedere oltre. Donde viene allo spirito nostro il molteplice sensibile? È fuori di dubbio che le espressioni di Kant sembrano autorizzare la teoria di una azione delle cose, degli oggetti sopra di noi. Ora la parola oggetto ha in Kant due sensi (come già la parola obiectum nella «Dissertazione» del 1770), spesso confusi.
Ora designa l’oggetto fenomenico; e in questo senso non si può evidentemente parlare di un’azione dell’oggetto sul senso perchè l’oggetto è costruito dall’intelletto. Quando noi riferiamo un contenuto della sensazione ad un oggetto, non facciamo in realtà che subordinare questo contenuto — come un non io — ad una unità concettuale; l’azione causale è solo una espressione figurativa ed impropria che rappresenta il rapporto tra noi e le cose sull’analogia dell’azione tra due oggetti fisici.
Ora designa l’oggetto in sè, oggetto metafisico, noumenico. Anche in questo caso non si può parlare di un’azione delle cose in sè sull’io; la categoria di causa è inapplicabile a rapporti noumenici. Questa difficoltà verrà in particolar modo apposta dai primi critici: Schulze, Schopenhauer, Beck, Maimon. Che cosa voleva dire dunque Kant con quest’azione? E come dobbiamo pensare l'origine del dato sensibile? Con questa espressione Kant ha voluto solo opporre il carattere passivo del dato alla spontaneità dello spirito; è ciò a cui ci troviamo di fronte senza cooperazione nostra; è la realtà quale è opposta nello stato originario del nostro spirito; è la forma iniziale di identità dell’essere nostro e delle cose, identità che tosto noi ripudiamo perchè la convertiamo per mezzo delle forme in una identità più alta; è la comunione di vita che ci è data senza cooperazione nostra e quindi in fondo non nostra e non definitiva. Questo diverrà più chiaro in seguito. Ad ogni modo per ora basta eliminare il sospetto d’una posizione contraddittoria. Il mondo ci è dato come coscienza; ma nello stesso tempo come realtà che si supera e che siamo chiamati a penetrare ed a immedesimarci. La molteplicità sensibile è la prima forma di questo dato; la elaborazione delle forme dello spazio e del tempo è il primo tentativo di ridurla ad unità e di assimilarla alla unità che è in noi.
Tutto ciò che Kant dice della recettività del senso, dell’azione esercitata dalle cose su di noi (nel senso esterno) e dallo spirito stesso su di sè (nel senso interno) non è che un adattamento didattico; certo però non è giunto qui a conclusione definitiva e precisa, onde le difficoltà che presentò subito ai primi oppositori.
Veniamo ora a determinare il concetto di forme a priori. Il punto di partenza per Kant è quello che abbiamo veduto: che la realtà empirica può essere scomposta di un indefinito numero di elementi (la materia del conoscere) e in un certo numero di rapporti unificatori che tendono a stringere questi elementi, in quanto sono considerati come processi della coscienza nell’unità del tempo, in quanto considerati nel loro contenuto nell’unità dello spazio. Questi rapporti costituiscono perciò due sistemi; tutti i rapporti spaziali fanno parte d’un unico spazio e tutti i rapporti di tempi d’un unico tempo. A questa attività unificatrice Kant dà il nome di forme. La distinzione di materia e di forma è classica nella filosofia; la forma è l’elemento universale, tipico, essenziale, unificatore; Kant non ha fatto che richiamare ed applicare specificatamente al processo conoscitivo l’antico concetto aristotelico.
Il fatto stesso che le forme sono processi che ordinano il molteplice sensibile in sistemi di rapporti, dice che esse sono attività unificatrici. Anche qui Kant non è sempre costante. Questo è stato il suo concetto originario. Nella «Dissertazione» la forma del senso è detta: lex quaedam, menti insita, sensa ab obiecti praesentia orta sibimet coordinandi (Par. 4).
Questo è in contraddizione con l’opposizione che spesso Kant introduce fra la recettività pura — riferita al senso — e la spontaneità propria dell’intelletto. Ed è anche in contraddizione con l’azione da Kant riferita alle categorie della qualità e della quantità, che non fanno se non ripetere l’azione coordinatrice delle categorie del senso. È questo uno dei punti nei quali Kant non è giunto a completa chiarezza.
Se tuttavia noi vogliamo tener ferma la distinzione fondamentale tra senso e intelletto, — in corrispondenza alla distinzione fra rappresentazione e concetto — poiché nella determinazione dei rapporti qualitativi e quantitativi non vi è nulla di concettuale (almeno in via essenziale), così dobbiamo qui considerare il tempo e lo spazio come forme unificatrici, alla cui azione è dovuta l’organizzazione matematica della realtà.
Sono per di più forme unificatrici a priori: anche qui le espressioni di Kant potrebbero indurre nell’opinione che si tratti di rappresentazioni innate. Questo è falso. Esse non sono rappresentazioni che antecedono nel tempo, ma che condizionano ogni conoscenza sensibile. Sono sistemi di leggi, di rapporti necessari che si svolgono contemporaneamente alla conoscenza sensibile ed a cui questa deve subordinarsi. Ma questa apriorità è anche intesa spesso nel senso di subbiettività; sono come le forme inerenti al soggetto con cui questo traveste il dato.
Anche qui bisogna che ci arrestiamo. Kant nella sua critica accentua la soggettività; e ciò si comprende. Egli vuol accentuare che lo spazio e il tempo non appartengono alle cose in sè, non sono nulla d’assoluto; perciò mette in rilievo che sono forme della recettività, appartenenti ai fenomeni, condizionate dal soggetto e dal suo modo di intuire le cose. Certo essi hanno realtà empirica, vale a dire valgano per il mondo dei nostri sensi; ma hanno idealità trascendentale; vale a dire che, come si esprime il Liebmann:
«essi sono e valgono solo nel mondo delle nostre rappresentazioni, per il nostro senso, e quello degli esseri simili a noi; e che cessando di esistere questi esseri, essi cessano di essere così come sono».
Kant però si esprime un po’ diversamente e dice che, fuori di noi non sono più nulla; il che sembra implichi che essi sono puramente e semplicemente modi nostri puramente subbiettivi e che falsano, travestono le impressioni. A questa falsa interpretazione hanno contribuito spesso gli impropri paragoni; Schopenhauer le intende in questo modo. Ma questa interpretazione è falsa. Soggettivo in vero e proprio senso, è solo il mondo dei dati della sensazione; il formale è ciò che lo obbiettiva; le forme dello spazio, e del tempo lo dispongono in una serie temporale, in un mondo esteso; esse hanno già qualche cosa di obbiettivo perchè sono quelle che rendono possibili i rapporti matematici. Le forme sensibili anziché predisposizioni soggettive che ci separano dalla realtà, ci avvicinano anzi alla realtà, non travestono il molteplice sensibile, ma lo traducono in una sintesi che è forse ancora inadeguata alla realtà ed a forme più alte di sintesi, ma in ogni modo sono già un potenziamento la cui necessità a priori non deriva dal fatto che ineriscono all’individuo, ma dal fatto che sono la realtà vera di fronte alle parvenze del molteplice.
Certo ciò non esclude che di fronte ad un grado superiore, decadono al grado di pure forme relative; questa è la loro vera subbiettività. Ma l’in sè non è l’in sè nudo d’ogni potenziamento formale, bensì l’in sè come vertice del potenziamento formale.
Allora si risolve anche la difficoltà sollevata da Herbart; perchè vediamo qui quest’oggetto rotondo, là quadrato? Ciò sembra avere una ragione empirica. Ma lo spazio e il tempo non sono due forme nude che lo spirito getti sulle cose, sono unificazioni formali; la loro diversificazione ha la sua ragione materiale nel fattore materiale, ma ciò non detrae alla loro unità e purezza formale; come la diversificazione dei doveri nei singoli individui non toglie all’unità e purezza della legge. Per cui è in perfetto accordo quando Kant considera lo spazio e il tempo come specie di visione nel senso dell’unità divina. Lo spazio è detto nella «Disertazione» (parag. 22) «omnipraesentia phenomenon», il tempo «aeternitas phaenomenon».
Lo spazio è come la presenza di Dio nella molteplicità sensibile; è l’unità che collega spazialmente (c temporalmente) le cose, è come il simbolo sensibile dell’unità divina. Questa è una concezione che risale alle prime origini del pensiero kantiano e che Kant ha sempre mantenuto, naturalmente modificandola secondo le varie fasi del suo sistema. Ancora nelle sue «Lezioni di metafisica» del 1790 ripete le espressioni della «Dissertatio»; respinge la teoria di Newton che ne fa una specie di organo della presenza divina. Perciò ancora nella «Disertazione» del 1770 poteva considerare come affine (proxime adest) la teoria di Malebranche che vede tutto in Dio; vedere le cose nell’unità dello spazio è in un certo senso vederle in Dio. Ciò, è facile vederlo, conduce ben lontano dalla teoria dello spazio e del tempo come pure forme assolute soggettive della reattività.
Kant chiama le forme a priori del senso intuizioni pure od a priori; è questa denominazione che ha dato origine a tante false interpretazioni. Poiché esse costituiscono la parte pura dell’intuizione sensibile, Kant le chiama intuizioni pure (Critica della ragion pura, ediz. Valent., pag. 76-77). Egli le chiama anche così per distinguerle dai concetti. Le forme pure dell'intelletto hanno per risultato di costituire delle unità concettuali, per es. le categorie di sostanza formano l’unità concettuale dell’essere sostanziale individuale (concetto individuale) che è già qualche cosa di generale rispetto alle rappresentazioni singole dello stesso; le forme del senso costituiscono delle unità sensibili assolutamente singole. Le unità concettuali sono legate fra loro da rapporti concettuali; le unità sensibili sono legate da rapporti come la parte al tutto. Perciò Kant attribuisce alle forme a priori del senso un carattere intuitivo. (Critica della ragion pura, ediz. Valent., pag. 80-87). Ma questo non vuol dire che lo spazio e il tempo siano realmente intuiti a priori, che noi possediamo anteriormente ad ogni rappresentazione sensibile una rappresentazione intuitiva dello spazio e del tempo infinito; un vero assurdo. Noi non abbiamo mai il tempo e lo spazio come due oggetti separabili realmente dal contenuto; essi sono due astrazioni, due sistemi di rapporti che si svolgono simultaneamente alla esperienza ed alla scienza, ma non ne derivano; questo vuol dire Kant quando dice che noi li possediamo a priori. Credere che la intuizione a priori dello spazio sia la vaga rappresentazione dello spazio sensibile o d’uno spazio immaginario sarebbe come credere che la forma geometrica del circolo sia uno spazio circolare reale o immaginario. La forma geometrica del circolo è un sistema d’innumerevoli relazioni implicite che il tracciato d’una circonferenza adombra soltanto, e che vengono a poco a poco scoperte e portate alla coscienza. Per questo soltanto Kant può dire che le intuizioni a priori dello spazio e del tempo sono fondamento di un sistema di scienze formali della matematica; ciò che non avrebbe diversamente alcun senso.
Già abbiamo veduto che l’esistenza della matematica era stata per Kant come lo scoglio contro il quale veniva ad infrangersi ogni tentativo scettico di risolvere il conoscere in un fluire di rappresentazioni soggettive. Il rigore e la validità assoluta delle proposizioni matematiche non avrebbero importanza se la matematica fosse una disciplina deduttiva; si capisce che, poste certe premesse, se ne ricavi poi con assoluto rigore una serie di conclusioni. Ora la concezione che dominava al tempo di Kant (e che domina ancora oggi tra i matematici) faceva della scienza matematica una deduzione logica, derivata da un certo numero di concetti semplicissimi ricavati con un certo arbitrio dall’esperienza, di convenzioni fondamentali. Lo spazio sensibile è secondo Leibniz una traduzione secondo il senso d’un ordine intelligibile; ma in ogni modo è solo una traduzione; e noi la conosciamo solo per via di esperienza. La matematica riposa perciò su astrazioni derivate dall’esperienza, come ogni concetto empirico, ed ha una chiarezza ed evidenza maggiore solo per l’estrema semplicità e trasparenza delle sue nozioni fondamentali. Quindi le sue deduzioni possono avere una necessità logica intrinseca senza che possano pretendere ad un’assoluta validità obbiettiva. Per es. la matematica deduce l’assoluta divisibilità della materia: ciò non vuol dire che realmente essa sia tale.
Contro questa concezione Kant oppone: 1) che la matematica è una costruzione sintetica; 2) che la matematica è una costruzione a priori.
1) La matematica non è una deduzione logica, non è costruita per via di raziocinii partendo da concetti; ma è costruita per un processo di sintesi. Kant si è esteso troppo brevemente sui metodi della matematica ed anche qui ci posiamo estendere poco. (Si veda nella «Logica» del Wundt il capitolo relativo, vol. II, 3ª ediz., pag. 117-119). Non si può parlare anzi d’un metodo della matematica ma dei metodi; in linea generale si possono però ridurre ad una costruzione per sostituzioni, procedente da intuizioni sintetiche fondamentali. Prendiamo per es. la costruzione della moltiplicazione. Si parte dal postulato che ad un numero N si può sempre aggiungere una unità, N + 1 onde l’addizione. Chiamando N' il N +1, si ha di nuovo N' + 1 e così, sostituendo, N + 1 + 1 = N'', ecc. Così possiamo avere N + N che è N + 2, ecc. In questa costruzione si ha un punto di partenza: il postulato N+1, che è in realtà una intuizione sintetica, non un concetto generale. Inoltre la sostituzione è anche possibile solo per una intuizione sintetica dell’omogeneità della serie delle unità. La matematica nasconde sotto varii nomi — postulati, assiomi, definizioni, ecc. — queste intuizioni sintetiche che sono il punto vero di partenza; nè, traviata da preconcetti, è giunta in generale ancora a perfetta chiarezza circa il loro numero e il loro contenuto.
2) Di più, secondo Kant, queste intuizioni sintetiche sono assolutamente valide a priori, onde il valore assoluto delle matematiche, sebbene esse non siano affatto una deduzione sillogistica. Anche qui la matematica medesima, seguendo l’empirismo leibniziano nega questo valore assoluto e vuol vedere solo delle convenzioni utili e delle definizioni verbali. La confusione qui è favorita dall’istintivo realismo; per es. quando si suppone che la costituzione dell’universo sia tale che non sia possibile prolungare indefinitamente una retta. La estensione dell’universo è possibile solo nella mia immaginazione secondo intuizioni fondamentali; anche la realtà all’infinito è da me immaginata in accordo alle intuizioni dello spazio piano. Pensare è un’altra cosa; ma non si può mescolare pensiero e intuizione. In ogni modo ogni sistema spaziale presuppone un certo sistema stabile di leggi, una costituzione senza di cui è il caos; cioè un certo numero di intuizioni sintetiche assolute, non di convenzioni puramente arbitrarie. In un puro caos non è concepibile nemmeno un ordine arbitrario. Su questo punto non credo possa cadere, quando sia nettamente inteso, alcun dubbio. L’attuale nostra intuizione del mondo è soggetta ad un certo numero di principii fondamentali, che, relativamente allo stesso, non sono convenzioni ma principii a priori che ne esprimono la natura assoluta.
Che sia possibile pensare altre intuizioni in astratto, è fuori di dubbio, ma ciò non altera il valore dei principii dell’intuizione. Che la forma umana dell’intuizione non sia qualche cosa di eterno è vero; ma il fatto stesso che si dice che il tempo deve mutare col tempo, che cosa vuol dire?
Non vi è un mutare insensibile, ma per gradi: ed ogni grado ha la sua natura (relativamente) assoluta. Quelli che credono di poter fondare gli assiomi della matematica sull’esperienza sia d’una convenzione o sia d’una particolarità della struttura fisiologica, non tengono abbastanza presente che i fatti da loro invocati presuppongono già tutta quella costituzione particolare del mondo che se ne vorrebbe derivare.
L’istintivo realismo li trascina in un circolo vizioso, che presuppone già lo spazio e il tempo per derivarne la visione temporale e spaziale.
Questo ci permette di toccare di passaggio l’importante questione delle speculazioni metageometriche che secondo alcuni hanno segnato la condanna definitiva della teoria kantiana.
Secondo molti matematici attualmente la geometria euclidea è solo la più comoda e semplice, come il sistema metrico decimale. In realtà già Kant aveva preveduto una «Scienza di tutte le forme possibili dello spazio» e spesso parla di altre forme possibili dell’intuizione. Ciò vuol dire che le intuizioni pure non sono necessità logiche, sono necessarie per la nostra intuizione, ma potrebbero essere altre.
Quindi noi possiamo intuitivamente rappresentarci un mondo a due dimensioni, ma non possiamo rappresentarci un mondo a quattro dimensioni o un mondo a costituzione diversa dal nostro. Scrive benissimo il Simmel: «Gli assiomi geometrici sono così poco logicamente necessari come la legge causale; si possono pensare spazii, e quindi geometrie nei quali valgono tut-t’altri assiomi che i nostri, come ha mostrato la geometria non euclidea nel secolo dopo Kant. Ma essi sono incondizionatamente necessari per la nostra esperienza, perchè essi solamente la costituiscono. Helmholtz errò quindi completamente nel considerare la possibilità di rappresentarci senza contraddizione spazi nei quali non valgono gli assiomi euclidei, come una confutaziont* del valore universale e necessario di questi, da Kant affermato. Poiché l’apriorità kantiana significa solo universalità e necessità per il mondo della nostra esperienza, una validità non logica, assoluta, ma ristretta alla cerchia del mondo sensibile. Le geometrie antieuclidee varrebbero a confutare l’apriorità dei nostri assiomi solo quando alcuno fosse riuscito a raccogliere le sue esperienze in uno spazio pseudosferico od a riunire le sue sensazioni in una forma di spazio nel quale non valesse l’assioma delle parallele» («Kant, IV ediz., pag. 21).
Per confessione stessa di Kant fu precipuamente il valore della matematica che lo mise sulla via della riforma critica; il fatto che noi siamo per essere in possesso d’un sapere assoluto, indipendente dall'esperienza e non riducibile ad una deduzione logica, lo condusse a vedere che il sapere nostro è una organizzazione progressiva diretta da leggi insite allo spirito ed aventi in sè un valore che trascende l’esperienza. Questa considerazione venne da lui naturalmente estesa poi anche al di là della matematica; anche le scienze fisiche (sebbene con differenze che a suo tempo rileveremo) si costruiscono per lo stesso procedimento della sintesi matematica. La concezione poi di questa costituzione formale del sapere gli permise a sua volta di ritornare sul fatto della matematica, e di chiarirne la costituzione e la formazione, di darci nelle sue linee fondamentali una filosofia della matematica che è oggi ancora, in ciò che ha di essenziale, intatta.
Questa filosofia della matematica costituisce come un corollario di una dottrina dello spazio e del tempo. Posto che i dati sensibili dell’esperienza si organizzano a priori in un sistema di leggi che non ci sono date ab initio nella loro totalità, ma si svolgono simultaneamente all’esperienza, si concepisce come sia possibile isolare queste leggi, e, svolgendone la necessità interiore, costituire, indipendentemente dall’esperienza, un sistema a cui l’esperienza dovrà necessariamente obbedire. Ora questo è appunto il sistema della matematica. Questo corollario, che è come una conferma della verità della dottrina sullo spazio e sul tempo, è da Kant chiamato analisi trascendentale. Sull’assegnazione delle discipline matematiche alle due forme Kant si è espresso in modo ambiguo; noi possiamo seguire qui la soluzione che, dopo il matematico G. Schulz, è stata generalmente adottata: al tempo corrisponde il calcolo (aritmetica, algebra, analisi), allo spazio la geometria. Una scienza come la matematica, che è costituita da atti di sintesi a priori, può solo essere fondata su d’im certo numero di sintesi a priori, cioè di collegamenti intuitivi e necessari che sono il fondamento della nostra visione delle cose nell’unità del tempo e dello spazio.
Come sarebbe infatti possibile spiegare altrimenti la matematica? (Crit. Rag. Pura, ediz. Valent., pag. 99100). Come si spiegherebbe altrimenti che noi siamo in possesso di verità universali e necessarie che valgono per la realtà a noi nota nell’esperienza (altrimenti non sarebbero conoscenze) e tuttavia per la loro natura ci rinviano ad una fonte altra dall’esperienza? Una tale spiegazione è possibile solo dal punto di vista trascendentale. Queste leggi universali e necessarie sono le stesse leggi costitutive che lo spirito nell’esigenza dell’unità dà all’esperienza. Lo spazio per es. non è un misterioso recipiente a cui lo spirito rimane estraneo, ma è una costruzione a priori dello spirito; allora si capisce come le leggi, che il matematico trova quando studia questa funzione dello spirito astraendo dal contenuto che in esso viene ordinato, valgono necessariamente per le cose spaziali, perchè queste sono il risultato della stessa funzione che è studiata dal matematico. Ricapitoliamo ora in breve e con chiarezza i risultati.
Ogni atto di conoscenza è, come sappiamo, una sintesi; lo spirito ricostituisce nell’atto del conoscere dai frammenti dispersi del senso l’unità della realtà ultima. Ma questo processo non può giungere fino ad essere la riproduzione ideale della realtà in un’unità logica perfetta; esso è sempre condizionato nell’uomo dalla presenza degli elementi che sono il punto di partenza; i quali vengono bensì dallo spirito subordinati all’unità espressa nelle forme a priori e così avvicinati formalmente all’unità del sistema intelligibile, ma anche così non rappresenta mai altro che un compromesso, una forma simbolica e provvisoria dell’unità. Questo sistema formale degli elementi sensibili ha, secondo Kant, due gradi qualitativamente irreducibili che potremo dire la .sintesi sensibile (o intuitiva, o matematica) e la sintesi intellettiva (concettuale, filosofica). La legge fondamentale della sintesi sensibile è la legge dell’omogeneità; il molteplice del senso, in quanto viene spazialmente e temporalmente caratterizzato, viene raccolto in un sistema di sintesi formali che tende a costituire una totalità unica, penetrata da un solo ritmo, da un solo ordine e perciò nella sua apparente eterogeneità omogenea; tutti i tempi tendono a costituire un solo tempo —aequabiliter fluens —, tutti gli spazi tendono a costituire un solo spazio perfettamente omogeneo. Invece la legge fondamentale della sintesi concettuale è la legge dell’identità; le unità spaziali e temporali (cose ed eventi) in quanto sono unificate dall’intelletto tendono a costituire delle unità che non sono più in sè direttamente determinate dallo spazio e dal tempo, anzi possono venire isolate dalle condizioni spaziali e temporali e fissate in immagini simboliche estensibili ad un numero indefinito di individui; queste sono le unità concettuali. In ciascuna di esse le unità concorrenti non sono poste l’una accanto all’altra come parti d’un’unità omogenea, ma accentrate ed unificate in un principio unico ed identico; il quale alla sua volta si raccoglie in altre unità superiori, e così per ultimo in un principio supremo nella cui unità identica si raccoglie tutto quanto la molteplicità delle cose ha di reale.
I due gradi dell’unificazione differiscono profondamente anche in questo: che nel grado sensibile la sintesi è qualche cosa di compiuto; la realtà ordinata nel tempo e nello spazio è un sistema di sintesi intuitivamente data che, se anche scomposta nei suoi elementi e negli elementi degli elementi, ci rinvia sempre ad unità sintetiche subordinate; il dato è qui la sintesi e l’elemento non può essersi dato, ma solo può essere pensato in astratto dalla riflessione. Nel grado intellettivo invece la sintesi è qualche cosa che si compie; le unità spaziali e temporali ci rinviano alle unità logiche, concettuali, ma queste non sono date per se stesse; esse debbono sem. pre venire pensate e rappresentate simbolicamente. Il dato qui è l'elemento, e la sintesi non ci è ancora data, ma può essere pensata. (Non vi è un’intuizione intelligibile).
Però questa distinzione fra sintesi sensibile e sintesi intellettiva non coincide in modo preciso con la distinzione fra conoscènza sensibile e conoscenza intellettiva Anzitutto perchè la conoscenza intellettiva implica sempre, come elementi simbolici, i dati sensibili; poi perchè anche nell’attuale nostra conoscenza sensibile sono già sempre intessuti elementi intellettivi, che ci sono dati simultaneamente all’intuizione sensibile (per es. i collegamenti causali elementari, le sintesi concettuali elementari dei concetti individuali).
Il carattere trascendentale della nostra ricerca non esige, ma nemmeno esclude per sè una storia psicologica dei gradi di estensione e di perfezione successivamente rivestiti dalla sintesi sensibile concreta. Noi ci arresteremo alla coscienza umana. I gradi più semplici ed immediati sono quelli che potremmo denominare il tempo psicologico e lo spazio psicologico immediato. Il tempo psicologico è rappresentato dal presente (psicologico), da quella breve e sempre mutevole unità fluente che stringe in un complesso, tutto presente alla coscienza, un limitato numero d’impressioni; e lo spazio dallo spazio psicologico immediato, dalla realtà spaziale immediatamente presente e limitata dall’orizzonte che si estende dinnanzi ed ai lati del nostro centro di visione.
Lasciamo da parte la descrizione psicologica e le questioni connesse. L’uno e l’altro (tempo e spazio) rappresentano due sistemi concreti, che noi possediamo nella loro totalità in modo immediato, ma che, anche nella loro semplicità, sono già la risultante di sintesi semplicissime ed immediate, ond’essi ricevono le loro leggi costitutive e la loro natura. In un grado superiore abbiamo il tempo e lo spazio immaginativo che noi costruiamo intorno e sul fondamento del tempo e spazio psicologico con l’aiuto della memoria e dell’immaginazione. Essi costituiscono delle unità realmente più comprensive, ma sempre limitate, benché indefinitamente estensibili. Di più in essi l’omogeneità non è ancora perfetta. I singoli tempi e i singoli spazii che entrano a comporli non sono necessariamente omogenei, e la riduzione in unità omogenee si compie per mezzo di una coordinazione interiore che elimina come pure «illusioni» le sintesi non riducibili in unità secondo leggi comuni. La relatività dei tempi è perciò un dato di fatto; ma l’unità omogenea del tempo è esigenza formale rispetto a cui quella è semplice illusione. La riflessione, astraendo dal dato concreto, ricava le astrazioni matematiche del tempo matematico e dello spazio geometrico. Esse sono ben diverse, come si comprende, dallo spazio e tempo immaginativi (che sono sempre ancora in qualche modo colorati sensibilmente); astraendo da ogni dato sensibile si danno le funzioni onde hanno luogo le sintesi formali intuitive, ma considerate astraendo da ogni dato empirico, e perciò come funzioni, come sintesi formali intuitive considerate in se stesse senza riguardo alla natura degli elementi collegati. Perciò Kant chiama queste sin tesi formali intuizioni pure, non perchè con esse intuiamo qualche cosa, ma perchè per mezzo di esse abbiamo le intuizioni sensibili.
La riflessione matematica non solo astrae dal dato sensibile, ma analizza anche l’intuizione complessiva nei suoi elementi, cercando di risalire alle sintesi elementari indecomponibili che essa introduce nelle più svariate forme come definizioni, postulati, ecc. e di mettere in luce i principii universali secondo i quali esse si compongono nella sintesi totale — che sono gli assiomi, e i principii esprimenti il carattere della totalità cosi costituita. Mentre perciò la filosofia (come totalità del sapere concettuale) è tentativo di risalire dagli elementi intuitivamente dati ad un’unità pensata, la matematica è tentativo di ridiscendere dall’unità intuitivamente data ai suoi clementi e alle leggi costitutive, e di ricostituire l'unità formale del reale nella coscienza riflessa. Onde il genio matematico è essenzialmente analitico, che divina i fattori e la loro composizione dove il volgare non vede che l’unità intuitiva del dato; il genio filosofico è essenzialmente sintetico e divina nel molteplice e nel diverso l’unità dell’idea.
Tutta la matematica è una ricostruzione formale della realtà sensibile, che cerca di ridurre l’organizzazione formale sua ai più semplici elementi intuitivi per via di successive estensioni e costituzioni, partecipando cosi alle più complesse formazioni la chiarezza intuitiva dei suoi elementi. In questo senso, non altrimenti, si può parlare per esempio d'una geometria intuitiva (contro Schopenhauer). Al qual riguardo è irrilevante per il filosofo l’esaminare fino a qual punto il matematico possa restringere il numero delle sue intuizioni fondamentali, e ridurre un’assioma ed un postulato a proposizioni dimostrative; resta sempre un certo numero irriducibile di sintesi intuitive irriducibili a verità logiche e che è vano voler mascherare sotto la finzione di definizioni o di convenzioni.
La risultante di questo processo di riflessione è il tempo e lo spazio matematico — che non sono il tempo, e lo spazio vuoto, ma due unità infinite, estremamente complesse e tuttavia perfettamente omogenee — che non sono concetti astratti, ma intuizioni astraenti da ogni contenuto.
Le costruzioni della matematica si riferiscono perciò non ad uno spazio costruito per astrazione da noi, ma allo stesso spazio (e tempo) dell’esperienza sensibile, che qui è considerato nella sua concreta realtà in unione col dato sensibile, là è considerato in sè astrattamente dal contenuto, nella sua apriorità e necessità, nella sua purezza. L’applicazione della matematica alla realtà è perciò perfettamente concepibile; la sola differenza sta in ciò: che nella matematica abbiamo artificiosamente isolati gli schemi ai quali la realtà, nella sua infinita complicazione, sembra adattarsi sempre imperfettamente.
Noi ci serviamo, per rappresentare le sintesi formali, di immagini in cui l’elemento empirico è ridotto al minimo; Kant le chiama schemi dell’immaginazione pura. (Crit. Ragion pura, ediz. Valent., pag. 181-186). Il numero è lo schema del tempo, non delle grandezze in genere, come vuole Kant.
Resta qui che si accenni ad un grave problema della filosofia matematica kantiana; quale è la parte che ha l’intelletto nella costituzione del sapere matematico? Certo che la matematica in quanto è scienza, è costituita da concetti; il matematico parla del triangolo come il chimico dell’oro o del ferro. Ma alla scienza concettuale ciò che è essenziale è il collegamento in unità; l’opera sua sta precisamente nel passare dai casi singoli e particolari all’unità logica, concettuale, a cui l’intuizione particolare può servire d’esemplificazione soltanto. Invece nella matematica i rapporti espressi nelle sue proposizioni non sono rapporti fra i concetti, ma fra le intuizioni a questi corrispondenti; in questo sta il momento essenziale, e l’espressione concettuale è soltanto uno strumento di espressione. Perciò i rapporti espressi per mezzo .dei concetti non possono venir messi in evidenza se non quando lo spirito costruisce mentalmente per mezzo di schemi sensibili i rapporti espressi dai concetti; onde Kant dice che la conoscenza concettuale è conoscenza di concetti, la conoscenza matematica è conoscenza per costruzione di concetti.
Ma Kant attribuisce all’intelletto anche un’opera sussidiaria più essenziale. Abbiamo veduto che per Kant il senso è recettività; l’intelletto solo è spontaneità, attività. Perciò Kant attribuisce anche l’atto della sintesi nella matematica all’intelletto. Nell’Estetica trascendentale egli certo parla della conoscenza matematica come procedente a priori dalle forme del senso; ma nell'Analitica egli vi unisce le categorie matematiche della qualità e della quantità. Questo è un punto nel quale Kant è oscuro c discorde con sè stesso. Già abbiamo veduto che anche le forme del senso sono attività sintetiche; perciò possiamo ad esse riferire anche l’origine dell'obbiettività matematica senza ricorrere, come ad un inutile duplicato, alle categorie matematiche. Nella «Disertazione» lo spazio è detto «Omnis veritatis in sensualitate externa fondamentum»; nulla vieta perciò di considerare già le forme pure dell’intuizione come un primo grado di attività unificatrice ed obbiettivatrice.
Spetta alla matematica, non alla filosofìa, svolgere le leggi particolari dell’unificazione formale, nel tempo e nello spazio. Però la filosofìa può segnare il passaggio alla considerazione puramente matematica fissando quei principii generali che procedono direttamente ed universalmente dal carattere delle forme e che Kant chiama principii matematici (Critica Ragion pura, ediz. Valent., pag. 199).
Il primo prinepio generale è quello che Kant pone come principio degli assiomi dell’intuizione e formula così: tutte le intuizioni sono grandezze estensive (Crit. Ragion pura, ediz. Valen, pag. 202). Ogni intuizione risulta da una composizione del molteplice in una totalità temporale e spaziale; quindi avviene per una giustapposizione dei componenti, come parti, in una totalità omogenea, la quale ha per questo fatto un’estensione nel tempo e nello spazio, cioè è una grandezza estesa. «Chiamo grandezza estesa, dice Kant, quella in cui la rappresentazione delle parti rende possibile la rappresentazione del tutto; ossia che risulta per giustapposizione di parti omogenee» (loc. cit., pag. 202-203).
Al di là di questo primo principio generale Kant non ha con chiarezza determinato altri principii della matematica (Crit. Rag. pura, ediz. Valent., pag. 203-204). La stessa determinazione dei caratteri essenziali del tempo e dello spazio, che egli dà nella «Ricerca metafisica» avrebbe tuttavia facilmente potuto dargliene gli elementi, se egli non si fosse arrestato dinanzi alla distinzione dell’opera del senso e dell’intelletto nella costituzione della matematica. Enunciamo qui sommariamente gli altri principii che ne discendono.
Il secondo principio è quello dell’unità — e si potrebbe così formulare: ciascuno dei due sistemi di grandezze estensive, (tempo e spazio) costituisce una totalità unica. (Non vi sono più tempi e spazi; ogni tempo e spazio limitato è parte dell’unico tempo e dell’unico spazio).
Il terzo principio è quello dell'infinità. — Ciascuna di queste totalità è potenzialmente infinita; perciò ogni grandezza finita può essere indefinitamente accresciuta.
Il quarto è quello dell’omogeneità ed è quello che rende possibile il procedimento della sostituzione. Ciascuna di queste totalità è assolutamente omogenea. Perciò due grandezze uguali sono sostituibili.
Il quinto è quello della continuità. (Kant ne tratta nella Crit. della Rag. Pura, ediz. Valent, pag. 208-210). Ciascuna di queste totalità in quanto sintesi (e non aggregato) non può mai essere divisa in parti non estese (non più temporali o spaziali); quindi è una quantità continua. Il problema non è la possibilità delle quantità continue, ma delle quantità discrete che non sono, secondo Kant, vere quantità, ma aggregati di unità quantitative.
Il sesto è quello della gradazione. Ciascuna di queste totalità si presenta come il limite assoluto d’una progressione di grandezze estensive che dallo zero progredisce indefinitamente verso il limite assoluto per una serie di addizioni successive. Kant non si occupa di questo principio che sotto l’aspetto qualitativo (Crit. Rag. Pura, ediz. Valent, pag. 206-214).
Le leggi del tempo — cioè del numero —valgono originariamente solo per le rappresentazioni come processi — ossia (come Kant si esprime) come fatti interni mentre pel contenuto delle rappresentazioni, ossia per le stesse come fatti di esperienza esterna, valgono le leggi geometriche dello spazio. Ma per un’inconscia interpretazione idealistica anche i contenuti sono posti come processi; onde le leggi numeriche del tempo vengono applicate anche all’esperienza esteriore, sia sotto l’aspetto della forma sia sotto l’aspetto del contenuto. Nel primo aspetto abbiamo l’applicazione del calcolo alla geometria; nel secondo abbiamo l’applicazione del numero al contenuto qualitativo considerato come costituito anch’esso di successive addizioni e cioè come grado. Onde in ogni rappresentazione il contenuto sensibile ha sempre anche (oltre alla grandezza esteriore) una grandezza intensiva, ossia un grado (Crit. Ragion Pura, ediz. Valent, pag. 205).
Come corollario finale, Kant trae qui la sua prima conclusione rispetto al mondo sensibile ed alla sua natura; che esso è una realtà puramente fenomenica, relativa allo spirito umano. Il carattere fenomenico non si estende solo a quelle qualità sensibili che sotto il nome di qualità seconde in ogni tempo la filosofia ha relegato nel soggetto (colori, suoni, ecc.) ma anche alle qualità prime, alle cose estese e moventesi nello spazio e nel tempo. Questa distinzione può aver valore in quanto distingue ciò che appartiene in modo essenziale al senso umano in genere e ciò che è relativo solo alla particolare organizzazione d’un senso; ma la distinzione avviene sempre nel seno della realtà fenomenica. Così da questo punto di vista i colori dell’arcobaleno possono essere considerati come l’apparenza delle goccie di pioggia, ma colori e goccie sono egualmente una realtà fenomenica.
Come conferma di questa relatività del nostro conoscere empirico, Kant richiama anche questa considerazione: che le cose sensibili ci sono date sempre solo come rapporti; i quali ci rinviano costantemente l’uno all’altro e infine al soggetto come centro e fondamento di tutti i rapporti, ma non ci fanno mai conoscere niente in se stesso. E ciò vale, come si è detto, anche del nostro io; che non è una intuizione diretta dell’essere nostro, ma una rappresentazione del suo contenuto nella forma del tempo e perciò di carattere fenomenico tanto quanto la rappresentazione del mondo esterno. (Crit. Rag. Pura, ediz. Valent., pag. 258). Questo è ben lungi dall’equivalere a dire che il mondo si risolve in pura apparenza L’affermazione dell’idealità del mondo non è per così dire un deprezzamento della realtà empirica; per la fisica, p. es., è affatto indifferente che il mondo, che essa studia, sia considerato come un mondo di cose in sè o di fenomeni; questa è una pura considerazione filosofica che rimane ad essa estranea. Anche ciò che è accaduto (secondo la fisica) prima dell’esistenza d’una coscienza umana è reale, nel senso che è rappresentato così come una coscienza umana lo avrebbe veduto. La parvenza subbiettiva è un fenomeno che non si accorda con le leggi generali da cui è retta ed organizzata l’esperienza; perciò la distinzione tra realtà ed illusione è una distinzione che avviene ulteriormente nel seno stesso della realtà fenomenica.
In questo senso possamo dire che il mondo esterno è per la coscienza umana assolutamente reale. Anzi Kant non si limita a difendere la propria posizione dall'accusa d’illusionismo: esso attacca la concezione realistica comune e mostra che essa riduce le cose a mere apparenze. Quando si pensano le cose sensibili come un in sè esterno (extra nos et praeter nos) è naturale allora il chiedere: come mai esse migrano in noi? E come delle realtà inestese (le rappresentazioni) possono rappresentare delle realtà estese? Allora si apre veramente tra le cose e noi un abisso insuperabile ed il mondo è ridotto ad un’apparenza subbiettiva. Questa è quella forma d’idealismo che Kant respinge e combatte; questo ci spiega come in Kant, padre dell’idealismo moderno, troviamo una «confutazione dell’idealismo». La preoccupazione di Kant di difendersi dall’accusa d’illusionismo e di delimitare bene il suo idealismo contro l’idealismo tradizionale, da lui non sempre esattamente riprodotto, non gli lascia vedere chiaramente il vero punto della distinzione; e cioè che la sua filosofia è più radicalmente idealistica dell'idealismo antico. Essa non differisce dall’idealismo tradizionale perchè ammette le cose in sè, perchè questo vale per ogni forma di idealismo, tolto forse solo l’assoluto fenomenismo; ma essa differisce essenzialmente in due punti:
1°) In quanto considera il mondo interno e il mondo esterno come costruzioni fenomeniche; le quali hanno perciò dal punto di vista relativo uguale realtà, ma dal punto di vista assoluto sono pure costruzioni soggettive tanto l’una quanto l’altra. Mentre quindi l’idealismo empirico nelle sue varie forme crede d’avere nell’esperienza interiore la conoscenza d’una realtà assoluta e nell’esteriore solo la traduzione subbiettiva d’un mondo obbiettivo esterno, per l’idealismo kantiano la stessa esperienza esteriore è già quel mondo obbiettivo e non un’apparenza subbiettiva che debba attendere dall’esterno la conferma del suo valore; ma l’una e l’altra esperienza non sono che manifestazioni fenomeniche. Il vantaggio dell’idealismo kantiano è sotto questo riguardo più apparente che reale. Certo esso assicura la realtà immediata del mondo di fronte all’io empirico; ma e il mondo e Pio empirico che cosa sono in fondo, se non apparenze? Il mondo non è il sogno dell’io, ma l’io e il mondo non sono essi allora insieme il sogno dell’inconoscibile io puro?
2°) Più solida invece è questa difesa: che la realtà fenomenica non è abbandonata all’arbitrio del soggetto empirico, ma ha un’obbiettività propria per virtù dei principii formali a priori che costituiscono con i dati sensibili il mondo dell’esperienza. Sotto questo rispetto Kant amava chiamare il suo idealismo, idealismo formale. Se il mondo sensibile è un complesso di rappresentazioni in un soggetto, che cosa significa ancora il dire che sono vere o false, il distinguere tra la rappresentazione vera e l’illusione o il sogno? Il realismo comune cerca il fondamento della distinzione nel rapporto delle rappresentazioni con la realtà trascendente. Ma allora si pone subito il problema: come possiamo venire a contatto di questa? Come possiamo uscire per così dire dal nostro io, metterci faccia a faccia con l’in sè per paragonarlo con la nostra rappresentazione? Tra noi e le cose in sè vi è un abisso insuperabile. Ecco perchè allora il realismo conduce a dubitare della nostra capacità di conoscere gli oggetti e, riducendo il mondo delle rappresentazioni ad una dubbia apparenza soggettiva, viene a coincidere con l’idealismo empirico.
L’idealismo formale fonda invece l’obbiettività su di un certo ordine interno delle rappresentazioni ad esse imposto a priori dalle leggi dello spirito; queste creano un ordine, una connessione che esclude da sè ciò che non vi si accorda e riceve da questa unità interiore quel carattere d’obbiettività per cui noi, pure riconoscendone il carattere fenomenico, possiamo vedere ui esso una realtà obbiettiva, come un mondo d’oggetti, che si contrappone all’irreale apparenza subbiettiva, e ci dà il criterio per decidere della verità delle rappresentazioni.
Così l'idealismo formale dà ragione del valore obbiettivo da noi attribuito all’esperienza esterna in confronto del sogno e dell’illusione e la legittima. L’affermazione che la conoscenza sensibile ha solo carattere fenomenico, pone inevitabilmente la quistione: quale è la realtà che vi è di là dai sensi nostri? La concezione che prima si suggerisce, è quella di pensare una realtà noumenica concepita più o meno esplicitamente sul tipo delia realtà a noi nota, che causa le sensazioni. Ma questa realtà in sè non deve essere nello spazio, non nel tempo, e perciò non può subire mutamenti, non può essere causa.
Come pensarla allora? D’altronde Kant stesso dice che «noi chiamiamo la causa intelligibile dei fenomeni oggetto trascendentale solo per avere qualche cosa che corrisponda alla sensibilità come recettività» (Crit. Rag. Pura, ediz. Valent., pag. 441). D’altra parte un relativo per sè stante è assurdo; la realtà relativa del senso implica come correlativo necessario una realtà assoluta. Ma noi possiamo solo pensarla, non conoscerla, perchè ogni nostra conoscenza è condizionata dalle forme dell’intuizione sensibile. Essa è quindi solo il correlativo logico della realtà empirica, che ha una funzione essenzialmente negativa; di ricordarci che la realtà empirica non è la realtà assoluta. È essa qualche cosa di più; o almeno possiamo noi conoscere ed affermare qualche cosa di più? Questo punto essenziale della dottrina kantiana è uno dei più controversi: la difficoltà d’una decisione è ancora accresciuta dalle oscillazioni e dalle incertezze nelle quali Kant stesso è intricato. Ad ogni modo su questo problema, che qui soltanto accenniamo, dovremo ritornare di proposito nel capitolo dell’Analitica.
Passiamo ora all’analisi del sapere intellettivo, concettuale, che è oggetto della seconda parte della Critica, l’Analitica trascendentale. È la parte più confusa dell’opera kantiana, dove più abbondano le oscurità e le ineguaglianze, come le ripetizioni e le digressioni; dove forse anche più involuto, confuso ed incompleto è il pensiero kantiano. Vediamo di sceverarne i concetti fondamentali.
Kant parte anche qui dallo stesso concetto del conoscere applicato nell’Estetica; e per le stesse ragioni. La concordanza dei nostri pensieri con le cose si può solo spiegare ammettendo, o che i pensieri nostri si modellino sulle cose o le cose sui nostri pensieri. Nel primo caso sarebbe impossibile ogni conoscenza intellettiva a priori, ogni legge universale e necessaria delle cose, ogni affermazione apodittica; ciò che sarebbe una contraddizione. Senza dubbio noi attingiamo le leggi empiriche dall’esperienza; ma in ciascuna legge sono implicate affermazioni che valgono a priori e che costituiscono l’elemento puro della scienza. Quest’elemento è ciò che conferisce alle leggi della scienza il loro valore apodittico; e perciò non può come tale venire dall’esperienza. Vi è quindi un complesso di leggi che lo spirito impone alle cose; quel sistema per cui le cose costituiscono un tutto regolare, una natura. Ciò non vuol dire naturalmente che il nostro pensiero possa prescrivere leggi arbitrarie alla natura; vuol dire che lo spirito ha costruito secondo leggi proprie, secondo esigenze sue assolute la realtà; questa necessità è quella che riscontriamo nella natura come necessità naturale. Di qui l’accordo tra la natura e l’intelletto; nella nostra elaborazione logica imperano le stesse leggi secondo le quali lo spirito ha creato la natura.
In che cosa consistono queste leggi, queste forme intellettive? Analizziamo una parte qualunque del nostro conoscere. Prendiamo per esempio il salire del mercurio in un termometro. Vi è qui l’elemento sensibile, materiale, le sensazioni collegate; vi è l’elemento matematico, la misura, il grado; che però anche qui è qualche cosa di dipendente; l’elemento essenziale è la formulazione del rapporto necessario tra la temperatura e la dilatazione del mercurio, che io poi misuro. Qui abbiamo più che una coesistenza ed una successione un rapporto causale che ha la sua espressione più perfetta nella legge. Questo collegamento non è un’opinione, una apparenza soggettiva, ma un fatto oggettivo; cioè esprime un rapporto universale e necessario. Questo rapporto universale e necessario non si trova nel dato sensibile onde Hume ne negò la realtà e solo ammise un’associazione pratica. Anche Kant riconosce che non si trova nel dato; ma è per lui assurdo il voler ridurre il rapporto ad un’associazione pratica; vi è quindi un’elemento a priori che è ciò che collega fra loro gli elementi sensibili spaziali e temporali nell’unità di una esperienza. Come per il senso, vi sono per l’intelletto delle unificazioni necessarie, delle forme a priori che stringono fra loro gli elementi dell’esperienza in un lutto razionalmente concatenato, cioè connesso da rap porti universali e necessari.
Di qual natura è questo collegamento? Quale è l'unita nuova a cui dà origine questo nuovo grado di unificazione? Ciò che caratterizza l’esperienza logicamente concatenata di fronte alle immagini sensibili è la sua obbiettività. L’osservazione della realtà si rispecchia in noi per mezzo d'una serie di immagini frammentarie, irregolari, miste ad elementi puramente subbiettivi, che è sempre ben diverso da ciò che consideriamo come la realtà, il corso obbiettivo delle cose. Come arriviamo a questo ordine obbiettivo? Perchè noi non possiamo supporre che questo preesista e che non abbiamo che da modellare le nostre cognizioni su di esso. Quindi dobbiamo così interpretare la domanda: come noi costruiamo un ordine che diciamo obbiettivo? Come l’umanità, dall’immagine fantastica del mondo dell’uomo primitivo, è arrivata alla concezione scientifica che è per noi l’ideale dell’obbiettività? Eliminando l’elemento subbiettivo, sostituendo al collegamento subbiettivo, collegamenti universalmente validi. E perciò la creazione d’una realtà obbiettiva è la creazione dello spirito collettivo: essa è la realtà dello spirito collettivo. Questo dice anche Kant quando afferma che la realtà dell’intelletto è la realtà quale è per la coscienza «ueberhaupt», per la «coscienza generica» che non è appunto se non la coscienza intellettiva nella sua universalità ed impersonalità. Vale a dire è il passaggio verso una forma superindividuale della coscienza. Come debba essere interpretata questa coscienza generica Kant naturalmente non dice; e la corrente naturalistica del criticismo naturalmente non vede in essa che una finzione sussidiaria. Ma era ben più nel vero Maimon quando vedeva in questa coscienza generica l’anima del mondo, o quell’intelletto attivo che Averroè considera come un’unità superiore in cui si unificano tutte le intelligenze umane.
Una grave difficoltà sembra venire qui dal fatto che anche la matematica ci dà un sistema di verità obbiettive; anzi le più obbiettive di tutte. Si può divergere nelle teorie; ma 2 + 2 = 4 per tutti. Che cosa vi è di più obbiettivo? Il fatto che Kant fa partecipare l’intelletto alla costituzione della matematica non toglie la difficoltà; perchè il fondamento essenziale della matematica e della sua obbiettività è dato indiscutibilmente dalle forme dell’intuizione. Senza dubbio la matematica è una scienza e come tale concettualmente espressa; ma anche Kant rileva che qui non sta il suo momento essenziale; essa è una scienza non di concetti, ma di costruzione di concetti — cioè di intuizioni pure. Tuttavia è già significativo che i matematici stessi considerino la loro scienza come costruita su convenzioni; ora, che cosa di meno obbiettivo che una convenzione?
L’obbiettività della matematica è di altra natura dell’obbiettività del sapere intellettivo; e non è, nel vero e proprio senso, obbiettività. Le verità matematiche si presentano rivestite di un’assoluta necessità; perchè si tratta qui di forme la cui organizzazione è definita pel nostro spirito. Quindi posti gli assiomi fan-damentali, la costruzione si svolge con necessità assoluta; mentre la costruzione logica è un tentare, un provare vie diverse, un cercare attraverso le rappresentazioni subbiettive la verità obbiettiva. Ma la costruzione matematica è individuale, non ha bisogno del suffragio della ragione collettiva; l’accordo è dato dall’identità dei principii delle intuizioni fondamentali. E queste come intuizioni sono essenzialmente individuali; in questo senso ha una certa legittimità la teoria che fonda la matematica su d’una convenzione; l’accordo è realmente una convenzione.
Quindi la matematica è obbiettiva nel senso che svolge dinnanzi all’individuo un sistema di assoluta necessità; ma non crea l'accordo delle intelligenze, non implica una coscienza generica comune. E ciò tanto è vero che la sua verità non è logicamente necessaria; noi possiamo pensare altre intelligenze che abbiano un’intuizione sensibile fondamentale diversa; non possiamo pensare che per esse non valgano le leggi universali dell’intelligenza. Questo concetto, che l’elaborazione intellettuale abbia per fine di creare una realtà comune a tutte le intelligenze, è anche il pensiero che sta a fondamento della deduzione trascendentale, da Kant così faticosamente ed oscuramente rielaborata più volte. Riguardo allo spazio ed al tempo noi abbiamo potuto chiederci quale era il senso che sottostà alla loro forma; ma non abbiamo dovuto certo chiederci se era legittimo farne uso; noi non possiamo vedere le cose altrimenti. Per le forme intellettive la questione è diversa. Certo noi le applichiamo, in parte spontaneamente, al dato sensibile; così solo abbiam un mondo. Ma questa applicazione non è completa nè coerente. Noi applichiamo il principio di sostanza alle cose; ma dobbiamo procedere oltre e porre una sola sostanza? E così per la causa. Tanto è vero che questa applicazione ulteriore è contestabile, che l’empirismo la nega; la sola vera realtà è il dato particolare. Ed allora è inevitabile il dubbio anche sull’applicazione spontanea.
Ha un senso od è un’illusione l’atto per cui facciamo d’un aggregato di sensazioni una «cosa»?
L’attività intellettiva ha bisogno perciò d’una giustificazione. Quanto alla sua validità Kant l’ha già posta fuori di dubbio con la sua teoria fondamentale del valore dell’a priori nella conoscenza; l'empirismo assoluto è una contraddizione. Ma a noi incombe pur sempre di chiarire a che serve l’elaborazione intellettiva. Perchè solo l’elaborazione intellettiva ci dà un sapere necessariamente ed universalmente valido ?
La risposta di Kant è prolissa, oscura e contorta. Tutte le nostre conoscenze debbono, per essere tali, essere riferite all’unità della coscienza, unificate nell’io; senza di ciò non sarebbero nostre conoscenze.
Ora quest’io, che è come il punto centrale della coscienza e che Kant esprime anche col verbo «io penso», non è identico con l’io del senso interno, che è l’io empirico ed ha un contenuto; esso è una pura unità intellettiva, senza contenuto, un soggetto formale, una funzione, non una sostanza. Kant la chiama unità sintetica dell’appercezione trascendentale. Ma appunto perciò essa è impersonale, è l’unità della coscienza in genere, una coscienza sopraindividuale, identica per tutti i soggetti empirici. Ogni rappresentazione deve quindi potersi riferire ad una coscienza universale; perciò deve collegarsi colle altre in rapporti fissi in modo che ne risulti un unico sistema accentrato nell’unità dell’appercezione trascendentale. Questo compie appunto l’elaborazione intelletiva per mezzo delle categorie.
Qui Kant confonde in una sola cosa il riferimento all’io formale — che è proprio di ogni atto della coscienza — e il riferimento all’io formale generico, alla coscienza superindividuale. La funzione specifica della unificazione intellettiva è di creare una realtà obbiettiva; cioè una realtà valida per una coscienza generica superindividuale. È una esigenza della nostra natura che noi usciamo per così dire dalla nostra limitazione individuale e dalla nostra visione delle cose per assurgere ad una visione valida ugualmente per tutti; questa esigenza della validità universale è il presupposto d’ogni affermazione, d’ogni teoria, della sua stessa negazione. Questa è la vera giustificazione dell’unificazione intellettiva; essa crea un sapere valido universalmente e il nostro conoscere deve necessariamente, sotto pena di contraddizione, avere questo cafattere. Come ora l’unificazione intellettiva procede? Quale è il mezzo di cui si serve per trasformare il sapere puramente individuale in un sapere di valore universale?
Kant segue qui una via complicata, poco perspicua e non accettabile in tutti i suoi risultati. L’intelletto ha per funzione di aggiungere un momento concettuale, astratto, una forma astratta ed universale di rapporti, che Kant chiama categoria. Per es.: la causa per cui i rapporti tra le rappresentazioni sono sottratti all’arbitrio soggettivo, fìssati, come irrigiditi in modo stabile e valido per tutte le intelligenze. Le categorie non sono quindi concetti, anzi sono forme astratte che senza un contenuto empirico non hanno senso; i concetti senza in tuizione sono vuoti. Sono invece forme concettuali, modi di collegamento aventi una validità universale.
Quali e quante sono queste forme intellettive? I collegamenti creati da esse hanno la loro espressione nei giudizi; la classificazione tradizionale dei giudizi è il filo che Kant segue per tracciare la sua tavola delle categorie:
(Quantità) Unità, molteplicità, totalità.
(Qualità) Realtà, negazione, limitazione.
(Relazione) Sostanza, causa, azione reciproca.
(Modalità) Possibilità, esistenza, necessità.
Non è il caso di discutere qui questo ravvicinamento cosi arbitrario, nè di discutere la tavola delle categorie che offrirebbe materia e tante considerazioni. È pressoché inutile dire che questa è una delle parti della dottrina kantiana, parte del resto non essenziale, che non è più ricordata se non storicamente. Delle dodici categorie kantiane, due sole sono oggi universalmente riconosciute come tali: la sostanza e la causa. Dalle categorie deriva un sistema di principii, i quali esprimono le leggi supreme dell’applicazione delle categorie alle rappresentazioni sensibili.
Alle prime due classi di categorie corrispondono i principii che Kant dice matematici; i quali sono già stati da noi passati in rassegna come principii supremi dell’unificazione matematica sotto le forme pure del senso. I più importanti sono quelli che corrispondono alla terza classe delle categorie e particolarmente i due primi, il principio di sostanza e il principio di causa. (I fenomeni sono il fluire delle determinazioni d'un substrato permanente, i mutamenti avvengono secondo la concatenazione di causa e di effetto).
Kant ne dà una dimostrazione interessante; che è una specificazione della giustificazione generale delle categorie. Essi sono necessari perchè si abbia un mondo obbiettivo, cioè un mondo per una coscienza superindividuale, perchè la coscienza possa uscire dalla subbiettività della coscienza individuale. Prendiamo per esempio il principio di causa. Se tutte le rappresentazioni fossero semplicemente legate dalla successione nella coscienza, non ci sarebbe nessuna differenza tra la successione per cui io considero lo svolgersi di un evento e quella per cui io considero ad uno ad uno gli alberi di una foresta o le case d’una via. Allora si avrebbe una fantasmagoria diversa nei singoli individui e nei singoli momenti; se noi vogliamo avere un mondo stabile e comune dobbiamo avere un’esperienza costituita da successioni stabilmente e necessariamente determinate che siano come l’ossatura della realtà e in base alle quali io possa comprendere anche le altre; cioè che il mondo sia costituito da una concatenazione causale universale.
Ma il numero delle forme intellettive e dei loro principii in fondo non ci interessa essenzialmente. Quale è (chiediamoci piuttosto) il risultato di questa elaborazione, quale è la figura del mondo che ne risulta? Il risultato dell’elaborazione per le forme sensibili è il mondo esteso nel tempo e nello spazio; il risultato dell’elaborazione intellettiva è il mondo concettuale dell’esperienza. Come noi per l’attività intellettiva aspiriamo in certo modo a costituirci un’anima comune a tutti gli esseri pensanti, per la quale vi sia un mondo unico ed identico, così non possiamo costituire questa realtà identica se non cercando di penetrare nelle cose, fino a quell’unità che corrisponde all’unità dell’anima generica, fino a quelle unità identiche che sono le idee. L’anima è un’idea e l’oggetto adeguato suo sono le idee, diceva Platone.
Così per Kant l’oggetto adeguato dell’anima generica comune a tutti gli esseri pensanti è l’unità interiore comune ad una molteplicità di individui: il concetto. Se noi avessimo costituita questa unificazione intellettiva, come lo spirito nostro ha costituito l’unificazione matematica, noi avremmo un’intuizione intellettuale — vale a dire non avremmo più dinnanzi a noi questo mondo di cose disperse, ma, come Faust desiderava, il mondo delle essenze e delle forze che tengono insieme il mondo: la realtà concettuale pura. Noi invece elaboriamo, non possediamo l’unificazione intellettiva; noi viviamo nel senso e tendiamo verso la natura intellettiva; perciò le unità concettuali sono da noi apprese non come cose ma come unità formali, che non hanno contenuto se non simbolico, e di esse ci serviamo per organizzare l’esperienza sotto un sistema concettuale.
Sotto il qual riguardo l’attività dell’intelletto è duplice. In primo luogo esso costituisce le unità concettuali. Costituisce le unità dei concetti individuali, distribuendo gli elementi sensibili in certi gruppi stabili che sono le cose, oggetti dotati di proprietà. Queste unità, così costituite dall’intelletto, non sono esseri concettuali, ma esseri intermedi, realtà sensibili unificate sotto una forma concettuale — che è pura forma. Quindi contengono un duplice elemento: primo, l’unità introdotta dall’intelletto, che è un’unità formale non afferrabile in sè, una semplice «regola di sintesi di percezioni» (Crit. Rag. Pura, ediz. Valent, pag. 606, nota), che è per la natura sua qualche cosa di generale, d’estensibile ad un rumerò infinito di elementi sensibili; secondo, il rivestimento sensibile, le qualità, le determinazioni temporali e spaziali. Per il primo, anche il concetto individuale è già qualche cosa di generale, un tipo, che si presta anche a diventare segno di una molteplicità di individui, e per questo è già un vero concetto. Per il secondo sempre incarnato in un qui ed in un ora, è intuizione. Per la trasmissione e l’uso, l’unità concettuale non ha bisogno di avere sempre con sè il simbolo sensibile completo, basta una parte essenziale, un ideogramma, un segno, una parola.
In secondo luogo può collegare le unità concettuali fra loro e con le rappresentazioni. L’intelletto isola le verità concettuali (espresse dal segno) dal contenuto intuitivo; ciò dicesi pensare. «Per l’intuizione che corrisponde al concetto, l’oggetto è dato; senza di essa è solo pensato». Queste unità concettuali così isolate diventano mezzo del conoscere, ma di un conoscere indiretto, discorsivo, quando io le riferisco a rappresentazioni o ad altri concetti per determinare meglio questi con il contenuto delle prime; per es. dico: Tizio è uomo; il mercurio è liquido. Questo secondo atto è quello che Kant dice giudizio; la facoltà di decidere se un particolare debba o non debba venir subordinato ad una certa unità (Crit. Rag. Pura, ediz. Valent, pag. 58).
Qualche volta Kant fa una cosa sola del giudizio e dell’intelletto; altre volte (e già nella stessa Critica della ragion pura) è distinto dall’intelletto e posto accanto ad esso come una facoltà intermedia tra l’intelletto e la ragione.
Il compito dell’intelletto nostro è quindi di tendere a costituire una realtà per un’intelligenza pura, e così un mondo di intelligibili. Ma dico «tendere» perchè il nostro mondo di concetti non è ancora un mondo di intelligibili. Il momento essenziale, tuttavia, del concetto è nel suo aspetto intelligibile, come forma, come unità; in quanto non è solo una forma astratta e nostra, ma un’unità interiore, una vita intelligibile; perciò sol- tanto può immedesimarsi con l’anima universale, che anch’essa è un intelligibile. Ma per noi questo intelligibile si incarna sempre in una realtà sensibile. Onde il precetto sul quale Kant insiste numerose volte: che pensare non è ancora conoscere, che un pensiero che non si riferisca ad un contenuto sensibile o non possa tradursi in esso, è un esercizio a vuoto, senza valore. Ogni costruzione concettuale deve potersi tradurre in termini intuitivi; perchè l’intuizione soltanto è per noi sorgente di conoscenze reali.
La realtà così concettualmente ordinata è ciò che diciamo il mondo dell’esperienza, che non è più qualche cosa di assolutamente empirico, di accidentale, ma nemmeno qualche cosa di perfettamente intelligibile, di costruibile a priori. Quindi è qualche cosa di intelligibile e di necessario, ma solo sotto un certo aspetto: posti gli elementi dati, quel collegamento formale che diciamo esperienza è assolutamente necessario. Perciò in un senso è vero che l’esperienza non dà assoluta necessità: di fronte all’intelligibile non è necessaria; di fronte all’elemento puramente empirico è un collegamento necessario ed universalmente valido. Bisogna però anche notare che la parola «esperienza» non ha in Kant un senso costante. Normalmente designa il collegamento sintetico delle rappresentazioni sotto i concetti intellettivi puri; talora però è presa nel senso di «puro dato sensibile». È un’ambiguità che si estende alle parole «empirico» ed «a posteriori» che designano ora l’aposteriori puro, le impressioni non ancora organizzate dall’intelletto, ora l’aposteriori dell’esperienza, cioè il sapere già organizzato dall’intelletto. Resta ancora un’ultima questione. Da quali criteri è guidato l’intelletto nella sua unificazione delle rap presentazioni? Noi abbiamo dinanzi a noi la molteplicità delle immagini; l’intelletto le raggruppa coi suoi principii in «cose». Ora perchè l’intelletto raggruppa per es. in una «cosa» gli elementi a, b, c, e in un’altra «cosa» gli elementi d, e, f? Per il realismo la questione è facilmente risolta (con un assurdo); ma se noi pensiamo che gli oggetti sono creati appunto dall’intelletto ci dobbiamo chiedere che cosa lo guida in questa operazione? Kant procede qui contrariamente al solito per la via psicologica ed affida ad una facoltà intermedia, all'immaginazione, il compito di preparare i collegamenti che poi l’intelletto sanzionerà. È la teoria dello schematismo trascendentale che Kant premette alla trattazione dei principii. Noi non dobbiamo credere che l’intelletto crei di suo arbitrio; ci deve essere una ragione per cui l’intelletto applica questa piuttosto che quell’altra forma di unità. Ora per Kant questa ragione sta in una preformazione del materiale sensibile da parte dell’immaginazione trascendentale, la quale prepara il materiale sensibile in modo che l’intelletto non ha più se non da confermare e ratificare i rapporti già preesistenti, sebbene, in altro grado, nello stesso materiale sensibile. L’organizzazione dell’esperienza in gruppi di coesistenze e di successioni è l’opera d’una sintesi inconscia dell’immaginazione — che è l’azione prima dell’intelletto sul senso — e che ordina questi elementi secondo certi rapporti temporali che Kant chiama schemi trascendentali. Così per es. la persistenza nel tempo è lo schema della categoria di sostanza, la regolarità nelle successioni è lo schema della categoria di causa e così via. Vi è quindi un’attività logica inferiore che crea il mondo subbiettivo della coscienza personale; l’intelletto vero e proprio gli dà poi la propria impronta e lo trasforma in un sistema obbiettivo di rapporti necessarii. Alla prima corrispondono i giudizi percettivi che esprimono un collegamento subbiettivo ma non pretendono «che io in ogni tempo e ogni altro percepiamo la stessa cosa»; alla seconda i giudizi d'esperienza che stabiliscono una connessione necessaria.
La soluzione, come si vede, risiede nel porre un termine intermedio, che poi è sempre ancora l’intelletto stesso. La questione non è affatto risolta. Più significativa è un’altra espressione di Kant; laddove parla della affinità dell’elemento sensibile (che non comprende cose straniere, ma rappresentazioni dell’io) con le unità intellettive.
I fenomeni sono già essi stessi dei processi spirituali e l’ordine che lo spirito vi introduce non è qualche cosa di straniero; anzi lo spirito non è un’attività estranea, ma solo il potenziamento, la realtà intima dei fenomeni stessi. Dove risiede allora l’affinità? Nel tendere verso l’unità. I fenomeni non sono una molteplicità obbiettiva alla quale ogni ordine sia indifferente, ma sono, in una molteplicità che lo cela, già l’ordine stesso dell’intelletto; il quale ne esprime la verità e la realtà. Perciò l’ordine intellettivo non è un ordine arbitrario, nè ha la sua base in un ordine extra-intellettivo, ma è il coronamento naturale di un processo teleologico.
Da questo concetto dell’attività intellettiva discendono ora due conseguenze. La prima è che è possibile un sapere a priori della realtà (parallelo a quello della matematica), per via dell’astrazione dei concetti puri dall’esperienza. Non è paragonabile alla matematica; non abbiamo intuizioni fondamentali, non assiomi, non è possibile una costruzione; ma è possibile enunciare un certo numero di principii, che Kant riassume col nome di Fisica pura. Questi principii sono anzitutto i principii dell’intelletto; e si applicano questi principii a certi concetti empirici mantenuti costanti; per es. il concetto di materia. Kant ce ne dà l’esempio nei suoi «Principii metafisici della fisica» (1786).
Ma la più importante conseguenza per noi è questa: che nessuno dei concetti puri, in quanto sono soltanto unità formali destinate a collegare i dati sensibili dell’esperienza, ha valore per la realtà assoluta. Le categorie isolate dal materiale intuitivo sono vuole; esse servono solo a costituire l’esperienza in vista d’una possibile esperienza. Esse non sono limitate come il tempo e lo spazio nel mondo della nostra intuizione, ma valgono per tutti gli esseri intelligenti; però siccome per noi i limiti dell’esperienza , coincidono con i limiti del nostro tempo e del nostro spazio, così per noi la validità delle categorie è anche chiusa in questi confini. Ora, poiché tutta la nostra attività conoscitiva consiste nell'organizzare e unificare per mezzo dei concetti e dei principii dell’intelletto, e poiché questi perdono ogni concreto significato quando vengono- separali dal materiale delle intuizioni sensibili, è forza concludere che il nostro conoscere vero e proprio è limitato al campo dell’esperienza. Essendo un conoscere condizionato dal materiale empirico, è un conoscere relativo a noi, fenomenico; e come tale presuppone necessariamente un essere in sé delle cose, una realtà noumenica; la quale però, non avendo noi un’intuizione altra da quella del senso, è tutta fuori del campo dell’applicazione delle categorie e perciò è un concetto negativo, un inconoscibile.
La questione della realtà del noumeno è stata in ogni tempo, come è ben noto, uno dei punti più controversi della filosofia kantiana; ed anche oggi le interpretazioni sono lungi dall’essere concordi. La difficoltà maggiore sta nell’affermare che le categorie non sono applicabili al noumeno; perchè allora possiamo affermare che è qualche cosa, che è il fondamento e il correlativo della realtà empirica? Già si è veduto che l’interpretazione grossolana secondo la quale i noumeni sarebbero altrettante realtà che causerebbero le sensa zioni in noi deve, nonostante numerose espressioni di Kant in questo senso, essere respinta. Kant si vale spesso, troppo spesso, del linguaggio realistico che ora ci urta; ma la sua teoria non va interpretata secondo queste infelici trascuratezze di espressioni. Da più di un punto della dottrina kantiana traspare infatti l’identità del noumeno con l’io trascendentale; la concezione simbolica che noi ne abbiamo è quella d’un regno degli spiriti perfetti e liberi: da ogni parte siamo come segretamente rinviati al concetto platonico e leibniziano di un mondo ideale degli spiriti. Ma anche se queste erano le private opinioni di Kant, dal punto di vista filosofico egli insiste nel modo più energico nell’affermazione che noi ne abbiamo solo un concetto negativo, vale a dire che limita, determina la nostra realtà come fenomenica, lasciando, per così dire, il posto vuoto di là da essa, ma senza nulla determinare circa questo al di là. «Quanto alla causa per la quale noi, non paghi del substrato sensibile, aggiungiamo ai fenomeni i noumeni, che solo l’intelletto puro può pensare, essa sta in questo. La sensibilità e il suo campo vengono limitati dall’intelletto in questo senso, che essi non ci danno cose in sè, ma solo cose in quel modo che possono apparire, data la nostra costituzione soggettiva. Ora dal concetto stesso di fenomeno in genere deriva che debba ad esso corrispondere qualche cosa che non è fenomeno, perchè il fenomeno non è niente in sè fuori del nostro mondo di rappresentazione: quindi se non vogliamo avvolgerci in un circolo senza fine, la parola fenomeno denota già un riferimento a qualche cosa che deve essere un oggetto indipendente dai nostri sensi .Donde sorge il concetto d’un noumeno, ma non in senso positivo; che designa non una data conoscenza di qualche cosa, ma solo il pensiero di un qualche cosa in genere, nel quale io fo astrazione da ogni forma dell’intuizione sensibile». (Crit. Rag. Pura, ediz. Valent., pag. 280).
Perciò Kant dice che il concetto del noumeno è un concetto limite, in quanto limita la nostra sensibilità; ma senza nulla stabilire su ciò che limita, aprendo di là della sfera dei fenomeni un campo, che almeno per la nostra ragione teoretica è del tutto vuoto, indeterminabile. Kant si sforza di escludere il più che sia possibile ogni elemento positivo da questo concetto. «Il concetto del noumeno non è il concetto d’un oggetto, ma il problema inevitabilmente connesso con la limitazione della nostra sensibilità, se non vi possano essere oggetti del tutto indipendenti dalla nostra intuizione sensibile: la quale questione non può avere che una risposta del tutto indeterminata: e cioè che, poiché la intuizione nostra non si estende a tutte le cose senza eccezione, vi è posto per altri oggetti che non possono essere assolutamente negati, ma in mancanza d’un determinato concetto (poiché nessuna categoria vi è applicabile) non possono nemmeno essere affermati come oggetti per il nostro intelletto» (Crit .Rag. Pura, ediz. Valent, pag. 310).
Certo la ragione si lascia facilmente traviare a credere di avere una conoscenza positiva o coll’erigere tale astrazione in entità reale (che è assolutamente priva di contenuto e di senso) o (come più spesso avviene) col completarla per mezzo di elementi empirici che vi introducono una contraddizione: ma con ciò non riesce che ad avvolgersi in un mondo di esseri fantastici e contradditori. A che cosa serve allora? Almeno a questo: a limitare la nostra conoscenza sensibile, a tener lontana ogni concezione superstiziosa che è una forma di naturalismo anche essa ed ogni infondata negazione naturalistica (che è anche essa una forma di superstizione). E se sotto l’aspetto teoretico il mondo noumenico è per noi vuoto, esso acquista però un contenuto per mezzo della ragione pratica, che non ce lo fa conoscere, ma ne fonda la realtà e ne autorizza la rappresentazione simbolica. Questo rigoroso concetto negativo del noumeno è perfettamente in accordo con la meticolosa cautela speculativa di Kant. Ma esso è sostenibile? Non si può invero dire che il concetto del noumeno sia puramente negativo; una pura negazione sarebbe l’ignorare questo concetto e il porre esplicitamente o non il mondo fenomenico come solo esistente. Non è dunque una pura negazione l’atto per cui apprendiamo, non è un atto che elimini da sè ogni traccia d’una qualche affermazione positiva: è un atto che negando il carattere assoluto della realtà sensibile pone qualche cosà d’altro, il noumeno.
La forma negativa dell’espressione cela un contenuto positivo. Ma allora quale è questo e come enunciarlo se ogni contenuto del nostro conoscere è di origine empirica e perciò inadeguato? Da una parte se il noumeno è qualche cosa di positivo, quando lo pensiamo in qualche modo sia pure inadeguato, lo conosciamo; dall’altra il conoscere è condizionato dalle forme e categorie che hanno la loro esclusiva funzione nella conoscenza obbiettiva dell’esperienza che non può arrivare al noumeno; come si risolve questo contrasto? Vi deve essere una forma di conoscere improprio che trascende l’esperienza: il presentimento (Ahnung) di Fries. Non è tuttavia necessario creare accanto alle altre una forma speciale di conoscenza, quasi mistica, della quale sarebbe difficile escludere l’arbitrio soggettivo e la fantasia. La difficoltà si presenta già, se ben avvertiamo, nella conoscenza degli elementi stessi di questo intelligibile, che noi facciamo servire alla nostra conoscenza della realtà empirica e che entrano come elementi formali nell’esperienza, nella conoscenza dei concetti. Noi non abbiamo un’intuizione intellettiva dei concetti, noi ne abbiamo solo conoscenza come d’un’entità formale e ce ne serviamo come d’una regola per organizzare le rappresentazioni. Che cosa vuol dire che li conosciamo come unità formali? Che siamo indirizzati da un’unificazione di elementi sensibili, senza che la possediamo in sè, nè possiamo sperare di possederla mai. Noi non possediamo la realtà intelligibile nè nella sua totalità, nè in alcuno dei suoi infiniti aspetti che noi crediamo di poter fissare nelle unità concettuali. Queste ci sfuggono. Ma noi abbiamo nel corso dell’esperienza una conoscenza definitiva ed oggettiva perchè, dato un numero di elementi sensibili, abbiamo una regola che ne fissa il rapporto per cui essi sono aggruppati in una organizzazione stabile: l’unità concettuale non ci fa conoscere quello che essa è in sè, ma serve a dare alla subbiettività del senso un poco di stabilità, necessità ed universalità dell’intelligibile, ciò che appunto diciamo obbiettività. Ora, questo medesimo principio formale è quello che ci sospinge verso l'unità noumenica. Ma noi dobbiamo andare verso di essa, non come verso la causa delle rappresentazioni, grossolana figurazione della relatività del mondo empirico, — ma perchè questo è un sistema di rapporti secondo principii che ne esigono l’unità assoluta. Quindi sono ancora le categorie che, come Kant mostra benissimo nella Dialettica, ci spingono verso l’unità intelligibile e ce la fanno in un certo modo conoscere. La conoscenza è anche qui la conoscenza di un’unità formale; e cioè simbolica ed impropria. Ma con questo di più, che le categorie qui perdono il loro senso. Esse sono unità tra i fenomeni, e sono inadeguate ad esprimere l’unità dei fenomeni, p. e., il concetto della causa assoluta. Perciò qui la conoscenza simbolica non ha più alcun corrispondente obbiettivo; in questo senso si può dire che la categoria qui non ha più alcun valore. Ma essa conserva il suo valore come designazione simbolica dell’intelligibile, non in quanto ci dia una conoscenza vera e propria nel senso del conoscere obbiettivo, ma nel senso che è per noi la direzione verso cui deve progredire, l’aspetto soggettivo rivolto a noi d’una realtà che in sè non è tale, ma che da noi può e deve essere così concepita. Nel che senza dubbio si rivela l’esigenza pratica (in lato senso) del conoscere, da Kant accentuata.
Quindi le categorie non sono solo strumento dell’esperienza; sono in sè espressioni puramente formali dell’intelligibile, che ci indirizzano verso di esso, ma non ce lo fanno conoscere che attraverso una veste empirica. Nello stesso tempo costruiscono l’esperienza, rendono possibile un mondo obbiettivo, che è anch’esso strumento dell’unità dello spirito.
Quindi nel loro uso immanente sono essenzialmente strumenti della conoscenza obbiettiva, della costituzione della realtà obbiettiva e della vita spirituale che essa rende possibile (la vita morale). Nel loro uso trascendente perdono questo compito obbiettivo, ma conservano, anzi accentuano, la funzione metafisica pur essendo sempre solo unità formali. Il «presentimento» di Fries non è che il conoscimento per mezzo della categoria potenziata. Il noumeno è quindi una realtà positiva ed è possibile una certa conoscenza (simbolica) dello stesso.
In questo senso va corretta anche tutta la caratterizzazione puramente negativa della Dialettica, il cui esame dobbiamo ora intraprendere.
Con i risultati dell'estetica e dell'analitica la quistione fondamentale circa il valore della metafisica è virtualmente decisa. Noi abbiamo veduto che il concetto del conoscere come di un formare secondo forme a priori (le quali esprimono l’esigenza dell’unità) non solo spiega la loro costituzione e il valore dell’esperienza, ma ci dà la sola esplicazione possibile del valore della matematica e degli elementi puri della scienza. Ma nello stesso tempo esso ci ha condotto alla conclusione che ogni conoscere è sempre relativo, è sempre la costituzione d’una realtà fenomenica; la quale ci rinvia ad una realtà assoluta, ma la pone nello stesso tempo come inconoscibile. La metafisica, nel senso tradizionale di un sapere delle realtà ultime, è quindi una chimera; e questo ci chiarisce la ragione delle contraddizioni e delle lotte incessaati dei sistemi metafisici, senza un risultato definitivo. Kant aveva dinanzi alla mente sopratutto la metafisica dogmatica delle scuole del suo tempo; essa non è che una pseudoscienza.
Ma con ciò non è risolta ogni difficoltà. Dovremo noi porre al posto della matifisica una semplice critica negativa che sia come una coscienza riflessa del sapere scientifico e dei suoi limiti insuperabili? Questa è stata la conclusione d’una parte dei kantiani, ma non è quella di Kant. Anche condannando la metafisica egli insiste sul valore che hanno i suoi problemi per lo spirito umano; la metafisica dogmatica è dovuta senza dubbio ad un’illusione della ragione; ma non è men certo che l’uomo non può rinunziare alla metafisica. Non basta perciò concludere all’impossibilità della metafisica dogmatica; bisogna ricercare le origini del bisogno metafisico dell’uomo e in qual modo ed entro quali limiti esso può condurre a risultati accettabili.
La metafisica è l’opera della ragione; ci bisogna quindi esaminare i procedimenti ed i limiti della ragione. L’attività sintetica dello spirito comprende tre gradi: il senso, l’intelletto e la ragione. Abbiamo passato in rassegna il senso e l’intelletto con le rispettive forme: dobbiamo adesso distinguere la ragione dall’intelletto. L’intelletto è la facoltà delle regole, la facoltà di generalizzare, di creare unità concettuali. Nella sua funzione logica, empirica, l’intelletto parte dall’esperienza e costituisce i concetti empirici; questa sua attività è studiata dalla logica. Ma noi sappiamo che questa funzione dell’intelletto è possibile solo perchè esso è attivo principio di unità; questa attività si esplica per mezzo di un certo numero di forme unificatrici, che sono l’elemento puro, trascendentale degli stessi concetti empirici. Lo studio della funzione dell’intelletto, considerato astrattamente in quest’attività unificatrice (e perciò facendo astrazione dal materiale empirico) appartiene alla logica trascendentale. La ragione invece è la facoltà dei principii; è la facoltà che tende ad organizzare in un sistema unico i concetti che sono opera dell’intelletto. Quindi nella sua funzione empirica la ragione è la facoltà sistematrice ed unificatrice dei concetti e delle leggi, che aspira a trovare l’unità da cui derivano. Questa funzione empirica, logica, si esplica nel ragionamento; Kant ha dinanzi a sè il sillogismo, ma in realtà comprende anche l’induzione, in quanto essa costituisce i principii che servono poi all’ordine deduttivo. Quando si ragiona si cerca di porre un principio, da cui derivare poi il resto (come conseguenza); certo in questo caso il principio può essere un principio molto relativo, d’origine empirica, limitato ad una sfera ben determinata. Ma anche qui la ragione esercita questo ufficio logico perchè è in sè, astrattamente dal materiale empirico su cui si esercita, un’esigenza di unità, una tendenza unificatrice sotto un principio supremo ed assoluto.
In questo senso trascendentale noi dobbiamo considerarla. Essa è sotto questo aspetto una attività pura, formale, che tende a stringere tutta l’attività pura dell’intelletto in un’unità, a ridurla sotto principii assoluti, a stringere insieme tutta l’attività dell’intelletto in modo che noi possiamo afferrarla come un’unità assoluta.
La ragione è quindi la facoltà dell’assoluto, la facoltà religiosa per eccellenza. L’intelletto costruisce le unità concettuali e passa dall’uria all’altra; lo spirito, che è ragione, è insoddisfatto di questo errare e vuole cogliere l’unità di ciò che l’intelletto afferra solo nella sua molteplicità; perciò essa cerca di elevarsi a dei principii che siano all’attività dell’intelletto ed ai suoi risultati; quello che è la maggiore del sillogismo rispetto alla conclusione.
Per quale processo avviene questo passaggio? L’intelletto per mezzo dei suoi principii concatena, come si è veduto, il complesso dei dati sensibili in un mondo d’oggetti. Ma questo mondo non è mai qualche cosa di definitivo e di per sè stante; è sempre qualche cosa di incompleto, di frammentario e perciò di insoddisfacente. Sotto tutti i rapporti ogni oggetto della realtà dipende sempre da altri, ai quali ci rinvia come a condizione necessaria della sua esistenza; un esteso è sempre condizionato da altri estesi, una causa da altre cause antecedenti e così via.
Ora è caratteristico dello spirito umano il latto che egli non può adagiarsi in questa realtà; esso aspira a qualche cosa di compiuto, di definitivo, di assoluto. Noi sentiamo di non poter comprendere il mondo se noi non lo cogliamo nella sua unità e totalità; in fondo la stessa insaziabilità dell’intelletto è animata e diretta da questo bisogno d’unità, che però esso per la natura sua non potrà mai raggiungere.
Qui interviene la ragione, che è una attività per la quale lo spirito invece di sillabare laboriosamente la esperienza, di collegare elementi con elementi, opera o almeno si sforza di operare a priori la sintesi definitiva di tutti gli elementi reali e possibili, di tutta la realtà intellettiva, in un’unità che ne sia il principio, che ci permetta di derivarla e perciò di comprenderla.
Queste unità che sono concetti creati a priori dalla ragione, e che vorrebbero comprendere in sè la sintesi totale dell’esperienza (reale e possibile) non possono più naturalmente entrare come elementi nell’esperienza; esse sono le idee della ragione.
Kant riattacca la parola e il senso suo al pensiero platonico; Kant ricorda qui Platone come un suo predecessore ed esprime anzi la speranza d’interpretare la dottrina del mondo ideale in un senso più conforme al suo stesso spirito. Egli ne celebra la dottrina in quanto si riferisce al mondo morale; dove ha avuto il merito di riconoscere che i principii della moralità, della legislazione e della religione non possono avere La loro origine dall’esperienza, ma esprimono una esigenza ideale che in nessuna esperienza può essere realizzata, e che tuttavia deve restare come la norma costante per la vita nel mondo dell’esperienza, se non vuole che essa perda ogni valore ed ogni significato.
Quest’attività della ragione offre due aspetti. Sotto l’uno di essi è un legittimo sforzo dello spirito verso l’unità assoluta; quindi, almeno nelle intenzioni, è una attività legittima, quando, ben s’intende, sia contenuta nei limiti che la natura umana impone. Sotto l’altro invece, in quanto per una specie di illusione naturale inevitabile, quando la ragione manca di controllo critico, l’unità puramente ideale è considerata come un oggetto possibile della conoscenza, e così il trascendente, l’assoluto è fatto oggetto di scienza, essa dà luogo ad un sapere sofistico, dialettico (secondo l’espressione di Kant), che è il contenuto sostanziale della metafisica.
In altre parole le idee esprimono solo l’esigenza della totalità; esse ci rappresentano la realtà data nell’esperienza come limitata nell’essere suo per la dipendenza da qualche cosa di assoluto, cioè dalla totalità assoluta dell’esperienza, che, in quanto tale, sta rispetto ad ogni esperienza data, come un fondamento trascendente; e pongono in rapporto l’esperienza data con questo suo fondamento trascendente appunto in virtù delle categorie, della unificazione sua formale, la quale esige questo suo potenziamento come una conclusione inevitabile. Ma non può adeguare ad esso il contenuto intuitivo che si svolge in una successione indefinita, la quale non può mai essere una totalità data, un infinito reale. Quindi in questo caso le categorie non collegano un elemento sensibile con altro elemento sensibile in un’unità intuitivamente data, ma collegano la totalità empirica con un principio trascendente che è solo un’espressione formale, una X; e tale collegamento non ha per fine di farci conoscere questa X (per cui manca ogni intuizione), ma di farci riconoscere la vera natura dell’esperienza nostra. Ma purtroppo la ragione umana dalla necessità che accompagna questi ragionamenti si illude che essi conducano ad una conoscenza obbiettiva della totalità assoluta; così le idee, che sono più che altro l’espressione di una esigenza, sono tratte a significare oggetti intelligibili puri (l’anima, Dio, ecc.); nel che, o deve erigere in realtà delle astrazioni senza contenuto concreto, o deve dar loro realtà e contenuto attingendolo furtivamente dall’esperienza, e così introdurre nelle sue concezioni il principio di una insanabile contraddizione.
La dialettica per Kant non è solo la sofistica della ragione, ma anche quella parte della critica nella quale essa mette in luce il carattere sofistico dei procedimenti della ragione, quando essa devia dal suo compito appresso al miraggio di un vano sapere. La Dialettica trascendentale è la parte più lunga della Critica (382 pag. sopra 769 complessive), la più chiara, la più geniale, la più interessante per i profondi problemi che ne sono l’oggetto. Anch’essa però non è purtroppo libera dal difetto capitale dell’opera: l’intromissione di un ordine sistematico imposto per forza, che non impedisce certo a Kant di approfondire la trattazione dei problemi, ma che gli impedisce spesso di metterli al loro vero posto e nella loro vera luce. Questa imposizione estranea si rivela già nella partizione della materia e nella posizione di tre idee o meglio di tre classi di idee; perchè, se nella prima classe e nella terza abbiamo veramente due idee fondamentali (l’anima e Dio), nella seconda abbiamo un vero gruppo di idee cosmologiche che dovrebbero esprimere, da diversi punti di vista, la totalità assoluta dei fenomeni. Anche qui Kant ricollega, con la sua abituale preoccupazione di un falso ordine sistematico, la logica trascendentale alla logica formale, i processi trascendentali della ragione ai processi del raziocinio. Alle tre categorie della relazione corrispondono le tre forme di raziocinio: il categorico, la cui maggiore contiene il riferimento di un predicato ad un soggetto (categoria di sostanza); l'ipotetico, nella cui maggiore si ha il riferimento d’un condizionato ad una condizione (se A è B, A è C, categoria di causa); il disgiuntivo, nella cui maggiore si ha il riferimento di una molteplicità di concetti parziali alle loro totalità (A è o B o C o D, categoria dell’azione reciproca). Al primo corrisponde quel processo della ragione per cui essa si eleva all’idea del soggetto sostanziale assoluto (l’anima); al secondo quello per cui la ragione si eleva al concetto della totalità delle condizioni, dell’essere incondizionato; al terzo quello per cui essa si eleva al concetto della totalità assoluta dell’essere (Dio).
Più che questo artificioso parallelismo, però, Kant dovette avere dinanzi alla mente le tre discipline metafisiche fondamentali alle quali egli le fa corrispondere; la psicologia razionale, la cosmologia, la teologia naturale; la sua trattazione delle tre idee è in realtà una critica alle dottrine contenute in queste tre discipline dell’antica metafisica.
Kant la riattacca al raziocinio categorico. In un raziocinio categorico il passaggio dalla conclusione particolare (Tizio è mortale) al principio (la maggiore: gli uomini sono mortali) è il passaggio da un soggetto sostanziale particolare ad un soggetto sostanziale più generale, di cui il primo è un semplice modo. Il principio assoluto sarebbe qui raggiunto quando la ragione potesse pervenire ad un soggetto sostanziale ultimo che non potesse più essere il modo, la determinazione di alcun altro. Ora, il nostro intelletto non può pervenire a questo soggetto ultimo perchè è nella sua natura di conoscere per concetti; i quali vengono da noi necessariamente rappresentati per mezzo di un rivestimento simbolico (lo schema, le note, ecc.), il quale ci rinvia ad un’unità intelligibile, come al soggetto più profondo delle proprietà che la veste del concetto esprime; e perciò ci danno sempre solo una predicazione esteriore di qualche cosa, la cui intima e viva natura sfugge al nostro intelletto.
Ora, la ragione, cercando di ricondurre la totalità dell’esperienza ad una sostanza universale ed assoluta, della quale tutto il resto non è se non determinazione, modo, predicato, dove potrà trovare qualche cosa che sia sempre soggetto e non mai predicato? Vi è un elemento solo nell’esperienza che risponde a questa esigenza: il momento dell’appercezione pura. Con questo la ragione identifica il soggetto sostanziale assoluto. E fino a qui la ragione è in tutto il suo diritto; questa è la tesi fondamentale dell’idealismo. Il soggetto è il centro e la sostanza del mondo; niente è se non in quanto un soggetto lo pensa; la materia, gli atomi, l’essere, ecc. sono semplici predicazioni esteriori che rinviano ad un soggetto più profondo dell’essere loro; questo soggetto è ciò che li fa essere perchè li pensa.
Ma questo io trascendentale non è niente di obbiettivo. È vero che esso non può cessare di essere soggetto (cioè sostanza) senza cessare d’essere, ma d’altra parte non ha contenuto, è un principio formale, anzi lo stesso principio formale nella sua unità immediata e vivente. Quindi, rispetto al nostro conoscere ha il valore di una idea; in quanto noi non possiamo riconoscere altro vero soggetto sostanziale delle cose che l’io puro, noi dobbiamo riconoscere che il fondamento sostanziale delle cose è il fondamento stesso della nostra vita interiore; ma nel tempo stesso dobbiamo riconoscere che questo fondamento, in quanto condiziona assolutamente tutti gli oggetti, non può mai essere un oggetto e perciò trascende ogni esperienza sia esterna, sia interna. Se non che la ragione, cedendo alla naturale sua impazienza di avere questo ideale come un oggetto d’esperienza e di scienza, crede di poter accrescere il nostro sapere intorno a questo io puro qualificandolo per mezzo dei concetti puri della sostanza, dell’unità, ecc. e derivando conseguenze in apparenza legittime: come per es. quando — nella psicologia razionale — vuol dimostrare che l’anima è sostanza semplice, perciò indistruttibile. Ora Kant mostra che finché si rimane nel campo dei concetti puri non si ha in realtà nessuna conoscenza obbiettiva, non si ha in fondo altro che il concetto dell'io puro formale, che non è un oggetto; e che quando si hanno (pretese) conoscenze obbiettive sull’io, ciò avviene perchè si è fatto illegittimamente appello ad elementi del-d’intuizione. Ed è per questo che Kant chiama i sofismi della ragione, relativi all’idea psicologica, paralogismi, perchè sono veri errori di ragionamento. Per es., nel primo paralogismo: l’io puro è sostanza, io come soggetto sono un io puro, dunque sono una sostanza, la parola sostanza è presa in due sensi. Nella maggiore è presa come categoria pura, non esprime niente di obbiettivo ed equivale solo a dire che il fondamento assoluto di ogni sostanzialità è l’io puro; nella conclusione è presa nel senso di sostanza determinata, sostanza fra le altre sostanze, oggetto. È il sofisma della cosidetta quaternio terminorum.
II primo paralogismo, ora riferito, è quello della sostanzialità. Il concetto puro di sostanza è una funzione senza contenuto: dicendo che l'io è sostanza si dice solo che esso è il prototipo della sostanza, come categoria, che ciò che di reale è, d’immutabilmente persistente esprime la sostanza, è contenuto come nel suo supremo potenziamento nell’io trascendentale; non che l’io sia una sostanza particolare, per il che mi manca ogni elemento intuitivo. Non basta avere il concetto puro della sostanza per crederé d’avere la conoscenza di una realtà sostanziale oggettiva; è necessario per questo avere un dato empirico, distinguere in esso il persistente, applicare la categoria di sostanza. Quindi la proposizione che l'anima è sostanza, ha una grande portata metafisica, in quanto dice che la sostanza assoluta non può venire pensata se non sul prototipo dell’io puro; ma non ci dà nessuna conoscenza reale dell’io puro medesimo come sostanza assoluta, perchè è soltanto una unità formale, non un oggetto dell’esperienza. È l’io puro che chiarisce il concetto di sostanza e non inversamente.
Il secondo paralogismo conclude alla semplicità dell’anima (e quindi alla sua indistruttibilità). Che l’io puro sia uno, semplice, è un giudizio analitico; ma ciò non vuol dire che sia un essere semplice. Questo argomento è l’Achille, dice Kant, della psicologia razionale; esso merita particolare attenzione. L’anima, si dice, è semplice perchè se fosse composta di più parti concorrenti (come un oggetto od una funzione materiale) la unità del pensiero sarebbe impossibile. Ma io posso affermare solo che l’unità della mia coscienza è possibile solo per l’unità dell’io trascendentale, che unifica in sè il contenuto, cioè che la mia coscienza è il prodotto di una attività unificatrice; ma che la mia coscienza sia per sè una sostanza una e semplice, nulla mi autorizza ad affermarlo.
Principio della coscienza è l’unità; ma quest’unità, assolutamente pensata, è un’idea; io non posso fare delle coscienze singole tante unità particolari, cioè tante sostanze semplici, indivisibili. La semplicità della rappresentazione del soggetto, dice Kant, non è la rappresentazione di un soggetto semplice. D’altra parte Kant mostra che questa pretesa sostanza semplice — se potrebbe essere a buon diritto considerata come semplice estensivamente — non avrebbe alcun diritto di esserlo intensivamente, quanto al numero e all’intensità delle sue funzioni; ciò che implica egualmente una complessità interiore e che permetterebbe una specie di sdoppiamento (pensando la realtà intensiva di un’anima come divisa in due parti, che sarebbero due realtà, due sostanze) di coalizione di più in una (con la riduzione ad una realtà e perciò ad una sostanza); considerazioni queste che non hanno obbiettivamente alcun valore, ma mostrano come la semplicità (estensiva) della fittizia anima — sostanza — non conduce ancora affatto a quelle conclusioni metafisiche che se ne vorrebbe ricavare.
II terzo paralogismo si riferisce alla indenità numerica del soggetto attraverso il tempo, alla sua persistenza attraverso il mutare dei suoi stati; per cui costituirebbe una sostanza semplice, identica, una persona. Quello che vi è qui di vero è questo: che la coscienza della identità del proprio io persiste finché la coscienza permane identica, una pura tautologia. Ogni coscienza è un’unità (per virtù dell’io trascendentale) che non è un punto nel tempo; ma persiste identica e conscia della sua unità; e finché dura questa coscienza dell’identità, diciamo che dura la stessa coscienza. Questo è ben lungi dal costituire l’identità oggettiva d’una sostanza permanente; è l’identità d’un principio formale, non di un oggetto, l’identità d’una funzione, non d’una cosa. Ciò che è ben diverso. L’identità d’una funzione può infatti mutare insensibilmente per gradi, mantenendo la continuità interiore, come accade nella vita dell’uomo, dove la coscienza del bambino, del fanciullo, dell’adulto, ecc. si succedono mantenendo la continuità della coscienza, mentre pure tale continuità ed identità non sussiste fra due termini distanti; dunque identità mutevole d’una funzione che presuppone l’identità e l’unità d’una forma, non l’identità d’una sostanza individuale.
Ogni coscienza — non solo i momenti successivi di una coscienza madesima — aspira verso quest’unità formale perfetta e ne è sempre tuttavia un’espressione inadeguata; l’identità della coscienza è dunque un’idea, non il concetto di una realtà individuale — che è sempre una e sempre altra e aspira verso l’unità e identità perfetta, ma non la possiede. Inoltre Kant mostra che può ben pensarsi l’identità di una funzione senza identità di sostanza. Supponiamo, egli dice (Crit. ragion pura, ediz. Valent., pag. 740, nota) che una serie di sfere poste in fila si urtino successivamente comunicandosi il movimento; invece del movimento sia la coscienza. Noi potremo pensare che la prima sfera trasmetta alla seconda la propria coscienza, La seconda trasmetta alla terza la coscienza ricevuta con il proprio stato interiore, e così la terza alla quarta, ecc.; l’ultima avrebbe come suoi gli stati di tutte le sfere antecedenti; avrebbe un’identità di coscienza e non di substrato, di persona.
Per il quarto paralogismo la psicologia razionale pensa il soggetto come una sostanza a cui ineriscono le rappresentazioni; che perciò sarebbero stati del tutto soggettivi, inerenti al soggetto individuale, modificazione del senso interno; dai quali bisognerebbe concludere, come da effetto alla causa, alla esistenza delle cose esterne. Ora, siccome la conclusione di questo genere (dell’esistenza e natura della causa) è sempre incerta, incerta sarebbe l’esistenza delle cose esterne (in quanto solo dedotte) mentre l’io e le sue rappresentazioni, come immediatamente percepite, sarebbero le sole certezze immediate. Kant vuole in sostanza qui mostrare come da quella specie di realismo interiore, che è l’essenza dello spiritualismo metafìsico, sia inseparabile il realismo esteriore; e come questo conduca a quell’insolu-bile problema che ha dato origine a tante vane dimostrazioni e che in fondo deve condurre allo scetticismo empirico; come è possibile passare dalle rappresentazioni interne alla posizione di una realtà obbiettiva esteriore? Questo scetticismo è quello che Kant chiama col nome di idealismo. «Per idealista si deve intendere non solo colui che nega l’esistenza degli oggetti esterni, ma anche colui che non ammette che essa venga appresa in via immediata, onde conclude che qualunque esperienza possibile non ce ne renda mai certi» (Critica ragion pura, ediz. Valent., pag. 743).
E certo se noi pensiamo di apprendere per la coscienza la realtà di un io — sostanza, di cui le rappresentazioni sarebbero le affezioni e che ritrarrebbe in sè le cose come una copia ritrae l’originale, — noi saremmo chiusi in un’esperienza puramente subbiettiva (dove quindi realtà ed illusione non sarebbero discernibili), senza un mezzo sicuro per passare dalle rappresentazioni subbiettive a quella realtà di cui essa dovrebbe essere la copia. Invece se noi consideriamo il nostro io come quello che veramente è, cioè come un aggregato di rappresentazioni fenomeniche accentrate ed organizzate intorno ad un io puro, allora noi possiamo essere idealisti nel vero e buon senso della parola (cioè ammettere il carattere fenomenico dell’esperienza), e conciliare questo idealismo con un sano realismo, cioè ammettere che, non ostante ciò, noi abbiamo nel mondo esterno una realtà obbiettiva indiscutibile, ben discernibile dall’illusione e dal sogno.
Allora tanto il mondo dell’io — cioè dei nostri pensieri, sentimenti, ecc., — quanto il mondo esterno si riducono è vero ad un complesso di rappresentazioni; ma queste non sono i fatti fuggitivi e subbiettivi di un io-sostanza, bensì rappresentazioni organizzate sotto un io formale e capace di ordini interiori (dovuti all’attività dell’io formale) per i quali si ha la costituzione di una esperienza obbiettiva, che è la realtà stessa. Questo è l’idealismo formale o trascendentale, che Kant oppose all’idealismo scettico di Cartesio e di Berkeley; in realtà, sotto l’apparenza di combattere l’idealismo, Kant stabilisce una forma assai più radicale d’idealismo. Cartesio col suo dubbio effettivamente chiedeva: di là da queste rappresentazioni mie vi sono delle cose in sè, la cui esistenza giustifichi il mondo delle rappresentazioni?
Kant ha ragione di dire che, posto così il problema, è preclusa la via alle cose in sè; resta perciò il mondo delle rappresentazioni senza controllo, senza garanzie, come fantasmagoria subbiettiva. Ma ci conduce egli per altra via a queste cose in se? Per nulla affatto. Certo anch’egli riconosce che vi è una realtà in sè; ma questa è più inaccessibile ancora che quella di Cartesio; è una realtà trascendente che non può essere oggetto di conoscenza e di comparazione con le rappresentazioni. Però vi può essere una realtà obbiettiva, anche se non è la realtà in sè. Nel nostro spirito si svolge per virtù dell’io puro un’attività organizzatrice che distingue nel mondo delle rappresentazioni un’esistenza obbiettiva (fenomenica) dall’errore e dal sogno; e che ci salva cosi dall’arbitrio subbiettivo e dall’illusione. Noi abbiamo perciò una realtà obbiettiva, la quale, essendo lo stesso mondo delle rappresentazioni, ci è immediatamente data; però occorre ricordare che essa non è il mondo delle cose in sè, che Cartesio voleva, ma solo la stessa rappresentazione in quanto penetrata da un ordine universalmente valido. E nel mondo esterno e nell'interno non abbiamo che due serie parallele di fenomeni; la realtà in sè è certo il fondamento dell’esperienza obbiettiva (interna ed esterna); ma non si confonde con essa. L’io puro è soltanto l’idea del fondamento sostanziale della nostra vita interiore, ma non una sostanza, un oggetto al quale essa inerisca.
Con la risoluzione di questi sofismi della psicologia tradizionale mutano anche radicalmente aspetto due problemi fondamentali della stessa, che Kant esamina mettendo a nudo la vanità delle soluzioni tradizionali: quello dei rapporti dell’anima e del corpo, e quello dell’immortalità.
La questione dei rapporti dell’anima e del corpo aveva suscitato nella filosofìa, specialmente dopo Cartesio, gravi difficoltà per l’impossibilità di far coincidere in una azione reciproca e perciò comune, due sostanze che non avevano nulla di comune. Kant ricorda i tre sistemi in vigore al suo tempo: l'influxus physicus, l’assistenza soprannaturale (cause occasionali) e l’armonia prestabilita. Ma la difficoltà scompare (o almeno muta di natura) quando si rifletta che tanto la nostra vita interiore, quanto la realtà esteriore sono due realtà fenomeniche la cui opposizione sta nella loro forma fenomenica, ma non ci permette affatto di concludere ad una analoga opposizione in ciò che sono in sè. La realtà materiale essendo una realtà fenomenica non è realmente straniera allo spirito, perchè in quanto conosciuta, ne fa parte. «Per materia non intendiamo una classe di sostanze del tutto diverse ed eterogenee dall’anima come oggetto del senso interno, ma vogliamo solo esprimere la eterogeneità dei fenomeni di quelli oggetti, le cui rappresentazioni diciamo esterne in comparazione con quelli che riferiamo al senso interno, sebbene essi appartengano egualmente come tutte le rappresentazioni al soggetto pensante, solo con questa ingannevole apparenza che, in quanto rappresentano oggetti nello spazio, in certo modo sembrano staccarsi dall’anima e librarsi fuori di essa, sebbene anche lo spazio, in cui sono intuiti, non sia che una rappresentazione il cui corrispettivo nella stessa qualità non si trova fuori dell'anima» (Crit. Rag. Pura, ediz. Valent, pag. 755).
I fenomeni esterni, copie sappiamo, fanno parte del nostro io, non in quanto vi siano contenuti, ma in quanto sono riferiti anch’essi all’unità centrale dell’io in qualità di rappresentazioni e perciò di semplici fenomeni.
L’eterogeneità fra materia e coscienza perciò non sussiste; i fenomeni sono riferiti all’unità di coscienza e solo in quanto tali possono essere. La difficoltà non sussiste più quindi nell’antica forma, ma muta aspetto; si tratta qui di vedere invece come mai possono far parte dell’unità di coscienza dei fenomeni che, facendo astra-trazione da questo riferimento, che pure è essenziale per la costituzione loro, sembrano di una natura eterogenea all’attività della coscienza. Un colore, per es. fa parte della mia coscienza; ma considerato nella sua astrazione da questo riferimento (non dico in sè) sembra essere qualche cosa di straniero alla attività cosciente, cioè di puramente fisico. Qui non si tratta più di spiegare come un rapporto sia possibile, perchè il rapporto è reale; ma di chiedere: come può aver luogo questo rapporto?
Kant non pretende di dare qui la soluzione, ma accenna alla sua possibilità. L’estensione, il movimento eco. sono proprietà che certo sono possibili solo per il. riferimento ad un soggetto, ma considerate isolatamente da questo sembrano constare di rapporti non spirituali e sono diverse da un sentimento da una volontà; i quali ultimi non contengono nulla di spaziale. Tuttavia potrebbe darsi che il loro essere in sè, a noi ignoto, dice Kant, fosse quello medesimo che sottostà ai fenomeni spirituali, anche se noi possiamo ad esso riferire l’estensione che appartiene solo al suo fenomeno nel senso esterno. Quindi potrebbe darsi che questo oggetto in sè fosse semplice e spirituale sebbene nella rappresentazione ci apparisca come esteso e materiale, e che i pensieri e le rappresentazioni gli appartenessero come attività sue interiori. In questo modo avremmo non due sostanze, ma due manifestazioni fenomenicamente diverse di una sola sostanza.
Kant riconosce che si tratta solo di una possibilità, di una ipotesi; ma essa ci mostra che la mente sua, almeno come fede personale, aderiva sempre in fondo all’idealismo monadistico leibniziano.
Noi possiamo andare un poco più in là. Anche le proprietà della rappresentazione esteriore sono possibili, si è detto, in quanto riferite ad un soggetto; e l’analisi loro mostra che esse sono costruzioni di un’aftti-vità soggettiva (lo spazio come costruzione). Senza preoccuparci di quello che sono in sè, possiamo dire che esse, anche come realtà fenomeniche, sono in fondo di natura spirituale. Saremo così ricondotti ad una corrente di idealismo anche per ciò che riflette il mondo delle rappresentazioni. Il mondo della nostra esperienza sarebbe composto di una molteplicità di elementi di carattere spirituale; ma solo una parte, quella che è accentrata immediatamente intorno all’io in genere è considerata come spirituale; il resto ci appare come un mondo cieco e morto. Questo è quello che è connesso nella forma dello spazio e ci appare come il mondo materiale, del quale fanno parte i nostri corpi. Perchè quest’apparenza? Questo è un problema che qui non ci interessa, e che ad ogni modo non ha più che un’importanza secondaria. Da questo punto di vista è eliminato il parallelismo spinozistico al quale Kant sembra accostarsi; la corporeità non è la parvenza esteriore dell’anima — ma è essa stessa una spiritualità da noi più lontana, che ci appare non più spirituale. Saremmo ricondotti così, nel problema deH’anima e del corpo, alla posizione leibniziana. Ma anche questa non è letteralmente accettabile. Perchè questa distinzione e dualità di elementi? E donde la loro unità? (perchè non possiamo accettare certo l’intervento dell’armonia prestabilita). La corporeità e la coscienza debbono costituire un’unità; ma non un’unità a più aspetti, bensì un’unità a più gradi; una teoria che concilia l’ipotesi leibniziana con la teoria aristotelica della forma. Ad ogni modo però il problema del rapporto dell’anima e del corpo è scomparso; si tratta della cooperazione armonica di più elementi, i quali sono in fondo della stessa natura ed esprimono in fondo lo stesso essere; il problema è ricondotto a quello dell’azione fra elementi omogenei; problema non meno oscuro e difficile, ma di tutt’altra natura. Il secondo problema è quello dell’immortalità. L’affermazione della semplicità dell’anima ha per fine di affermare l’indistruttibilità e perciò la persistenza come persona, indipendentemente dal corpo. Il primo vantaggio della critica è anche qui il vantaggio negativo di eliminare la soluzione puerile del materialismo; che l’anima sia una funzione del corpo. Noi siamo e viviamo in un universo spirituale. Questo non vuol dire naturalmente che l'anima nostra sia eterna; anzi ciò vorrebbe dire che è già ora un in sè. Quindi con ciò sono anche eliminate tutte le pretese conoscenze della nostra immortalità; con le quali del resto nulla si perde, perchè osserva con ragione Kant, la nostra fede neH'immortalitä non è fondata sui ragionamenti sottili delle scuole. Ma resta la possibilità; vale a dire che nulla vieta che per altra via noi ci persuadiamo della nostra immortalità, ciò che non urterebbe contro nessuna difficoltà teoretica. Kant allude qui al postulato pratico sul quale ritorneremo lungamente. Ad ogni modo anche qui conserviamo qualche cosa di positivo; anche se questo non è il sapere della psicologia razionale; e questo elemento positivo è forse qualche cosa di più di quello che Kant concede.
L’errore della psicologia razionale è quello di prendere l’io puro della appercezione trascendentale per una rappresentazione obbiettiva. Se noi consideriamo il nostro interno, noi vi troviamo molti fatti (rappresentazioni, sentimenti ecc.) ma questi elementi che ci dà l’intuizione interiore non sono l’io; l’unità e la sostanzialità dell’io sono nel soggetto trascendentale, ma questo non ci è dato come rappresentazione obbiettiva; è una pura forma che, quando facciamo astrazione dal materiale che unifica, si risolve in un’astrazione inafferrabile. Ma questa unità è pura posizione d’un’attività unificatrice; le categorie sono l’opera sua. Non possiamo nulla sapere d’essa, di questa sua obbiettività? Kant lo nega (Crit. Ragione Pura, ediz. Valent., pag. 430 e nota); noi abbiamo sempre solo un pensiero formale, al quale manca ogni intuizione, perciò non è un oggetto o meglio un processo che noi possiamo conoscere. Ma Kant ammette poi che possiamo avere un concetto dell’io in quanto volontà morale, per cui è determinabile la nostra realtà senza aver bisogno delle condizioni dell intuizione empirica.
Ora anche la volontà morale è puramente formale; per essa determiniamo La nostra volontà quanto alla direzione, non quanto alla sua natura assoluta. Ciò vuol dire che ci è possibile avere un concetto simbolico anche dell’io trascendentale; la sua attività unificatrice ci rinvia all’unità della sua natura assoluta. Questo certo non ci rivela un io assoluto personale; ma fonda la nostra unità relativa in un’unità assoluta. Perciò ciascuno di noi in quanto è e sa di essere (anche praticamente) una cosa sola con questa unità assoluta, può dire con Spinoza: so che vi è in me qualche cosa di eterno. Certo ogni determinazione ulteriore non può avere che valore simbolico.
Quindi non vi è una psicologia razionale: la critica mette in luce le verità essenziali e profonde che essa conteneva, ma nega che esse costituiscono un sapere razionale obbiettivo. Tutto ciò che possiamo sapere della vita cosciente nostra ce lo dice l’esperienza; e la risposta alle questioni più profonde, che l’esperienza non può risolvere, non appartiene più alla psicologia come scienza; esse fanno parte dei problemi metafìsici, trascendenti, dove il sapere cede il posto al sapere simbolico ed alla fede.
Al posto della psicologia razionale succede una psicologia empirica; una psicologia fenomenologica, come ce ne ha dato esempio Kant nella sua «Antropologia». Già Kant ha rilevato le singolari difficoltà dell’osservazione e della sperimentazione; quindi vorrebbe vederla ridotta ad una semplice descrizione dei processi interiori. Nei fenomeni interiori manca l’elemento intuitivo persistente che legittima l’applicazione della categoria di sostanza; quindi non abbiamo che un fluire continuo di fenomeni, nulla di stabile dalla cui natura si possa dedurre e fissare delle leggi a priori come per la materia nella fisica. Quindi vi è una fisica pura, non una psicologia pura; questa è puramente empirica. Sebbene Kant abbia avuto un concetto forse troppo modesto della psicologia come scienza, certo è che egli ha validamente contribuito e a fondarla e a sostituirla definitivamente all’antica psicologia filosofica, che dopo Kant è solo più un anacronismo.
L’idea cosmologica è riattaccata da Kant al raziocinio ipotetico; essa tende verso la totalità incondizionata delle condizioni. Perchè questa totalità delle condizioni debba essere cercata nel mondo come totalità, e perchè qui il processo della ragione, cercando di risalire dall’esperienza alle sue condizioni assolute, dia origine alle idee cosmologiche, è quanto Kant cerca di giustificare con deduzioni sistematiche artificiose, che non è il caso di prendere in esame. La vera ragione sta in ciò, che questa parte della dialettica, vuole essere una critica dei concetti tradizionali della cosmologia razionale.
Il carattere particolare che Kant riferisce all’idea cosmologica, e cioè di dare origine ad affermazioni opposte in apparenza egualmente giustificate, onde la ragione si trova dinanzi ad una contraddizione insolubile (antinomia), è veramente proprio di tutte le idee. Le idee sono categorie estese di là dall’esperienza fino a costituire unità assolute, comprendenti in sé la totalità dell’esperienza; noi ne abbiamo veduto l’esempio nell’idea psicologica, che è un’estensione dell’idea di sostanza. L’errore della ragione sta in ciò, che essa vuole avere dinanzi a sé l’idea come un oggetto di possibile esperienza. Di qui un'inevitabile contraddizione. La ragione non può fare dell’idea un oggetto senza attribuirle un contenuto; ma questo contenuto, di origine necessariamente empirica, deve in qualche modo adeguarsi al carattere dell’idea, che è di trascendere ogni limitazione empirica. Di qui un insolubile problema; l’oggetto trascendente, l’idea obbiettivata è un essere di natura ambigua e in fondo contradditoria; essa confonde in sè il trascendente e l’empirico senza riuscire a conciliarli. Si può in questo caso accentuare l’esigenza empirica dell’obbiettivazione o l’esigenza trascendente dell’unità assoluta; e poiché l’una e l’altra hanno la loro giustificazione, si resta in presenza di due posizioni contradditorie, ma in fondo egualmente insostenibili. Per es. il concetto di Dio. L’esigenza empirica vuole che esso sia pensato in modo concreto (altrimenti si ha un concetto vuoto); come un essere personale, buono, giusto ecc.; esigenza legittima, risultato insostenibile. D’altra parte l’esigenza trascendente vuole che sia posto come un’unità superiore al mondo, e perciò non personale, esigenza egualmente legittima, ma risultato egualmente insostenibile; se si vuole porre Dio come un oggetto, si ha un concetto vuoto che limita l’esperienza e la contraddice. Quindi il carattere antinomico è proprio di tutte le idee della ragione, non una particolarità dell’idea cosmologica. Qui però certamente è più facile ad essere messo in rilievo, perchè l’esperienza da cui si parte per elevarsi all’idea è la serie stessa della realtà fenomenica in quanto condizionata; in quanto cioè collegata dalle categorie in modo da costituire una catena di condizionati e di condizioni. Qui è naturale, quando si tratta di risalire dalla molteplicità empirica alla totalità assoluta per mezzo delle categorie, illudersi di giungervi percorrendo tutta la serie dei condizionati e delle loro condizioni. L'illusione della ragione di costituire l’unità assoluta con elementi empirici è qui singolarmente favorita; l’indefinita estensione della serie sembra da sè offrirci quell’infinito che cerchiamo. Ma altro è l’infinito della ragione che noi possiamo d’un colpo pensare (in astratto) con la ragione come perfetto; altro l’infinito fenomenico del senso (l’indefinito), che è costruito con accessioni successive e che non è mai un’unità perfetta ed assoluta. Quindi la contraddizione che le antinomie mettono precisamente in luce.
I due termini della contraddizione sono perciò anche qui l’idea obbiettivata, ma pensata in modo da soddisfare all’esigenza empirica, è la stessa, ma pensata in modo da dare soddisfazione all’esigenza razionale. Nel primo caso abbiamo, come si è veduto, l’idea costituita dalla serie indefinita dei fenomeni come condizionati e condizionanti; le serie non può mai essere perfetta e contraddice all’esigenza di costruire una totalità assoluta. Nel secondo caso abbiamo l’idea pensata come qualche cosa che è fuori di questa serie; ma siccome è pensata come oggetto e perciò sullo stesso piano dell’esperienza, essa la limita; è l’inizio del tempo, il limite dello spazio, la causa prima. Ciò che rilutta all'esigenza dell’intelletto, per cui l’esperienza è una serie illimitata.
L’interessante è che l’uno e l’altro punto di vista può essere tradotto in una rigorosa dimostrazione negativa, che consiste nel mostrare l’assurdità della tesi opposta.
Quando si accentua l’esigenza empirica si può dimostrare che non è possibile porre un limite alla serie intellettiva; quando si parte dall’esigenza trascendente si può mostrare che una serie indefinita non può mai costituire un’unità assoluta. La seconda è la tesi, la prima l’antitesi. Qui abbiamo un fatto curioso della ragione, del quale Kant rileva con compiacenza l’interesse;, una contraddizione in apparenza insolubile che ci deve precisamente eccitare a risalire alle origini ed a vedere che essa ha la sua causa nella confusione dell’intelletto con la ragione, nella pretesa puerile di fare dell’idea della ragione un «oggetto».
Kant stabilisce quattro antinomie cosmologiche; inutile ripetere che la determinazione loro è, sotto una apparenza di deduzione sistematica del tutto arbitraria.
1) La prima riflette l’unità infinita del mondo nel tempo e nello spazio. L’antitesi vorrebbe porre questa unità nella successione come nell’estensione infinita del tempo e dello spazio (il quale è anch’esso il risultato di sintesi successive e perciò presuppone in ogni punto una serie infinita di condizioni).
Ma una serie infinita data non è possibile; perchè questa serie si compie ancora ad ogni momento e non può essere pensata come esistente in atto senza contraddizione; altrimenti ad ogni istante dovrebbe essere decorso un’infinità di momenti. Perciò la tesi vorrebbe porre l’unità assoluta come qualche cosa di esteriore e di limitante, come un limite. Ma questo qualche cosa che limita, che cosa può essere se non un puro nulla?
Se si trattasse del mondo intelligibile, si potrebbe pensarlo come limitato, senza porlo come limitato da un tempo e spazio vuoti; ma il mondo sensibile non può essere che limitato dallo zero sensibile, dal vuoto.
2) La seconda riflette l’unità assoluta della materia. L'’antitesi vorrebbe vedere la sua sostanzialità in una divisibilità infinita; la materia essendo spaziale dovrebbe essere divisibile come lo spazio all’infinito. La posizione di un’unità ultima fisica è insostenibile. D’altro lato (tesi) in ogni sostanza abbiamo una composizione; ma se non è composizione di parti, di elementi esistenti per sè indipendentemente dalla composizione, non è nulla. Il tempo e lo spazio sono forme, si capisce che non abbiano unità semplici; ma ciò che è nello spazio, la materia, non ha realtà se non è fondata su elementi semplici.
3) La terza riflette la causalità. L'antitesi dice: l'unità assoluta è costituita da una successione infinita di cause e di effetti. Quindi è tutto necessariamente prodotto dalle relative cause; non vi è nè causa prima nè libertà, che sarebbe un’attività senza causa. La tesi invece dice: una successione indefinita di cause non è mai completa; quindi non da mai un antecedente determinato da cui possa sorgere l’effetto. Vi deve quindi essere un termine d’arresto, un’azione libera all’inizio delle cose; e quindi anche nel corso delle cose vi possono essere attività iniziali, non causate, che si inseriscono nella serie causale, cioè vi sono esseri liberi.
4) La quarta riflette la necessità. L'antitesi dice: l'unità infinita è costituita da una serie infinita di esseri che si determinano; perciò nessuno è in sè necessario, essendo causato, epperciò in sè accidentale; quindi la necessità è nella totalità, non in un essere determinato, la tesi dice: vi è qualche cosa di assolutamente necessario, perchè altrimenti nulla potrebbe essere necessariamente condizionato. Questa antinomia non fa che ripetere sotto altro aspetto la terza. Noi siamo qui in presenza di quattro coppie di affermazione opposte, ciascuna delle quali è inconfutabile, perchè può mostrare l’assurdità della tesi opposta. È chiaro che in ciascuna antinomia le antitesi rispondono all’esigenza empirica ed hanno un sapore naturalistico; esse tendono a confondere l’unità assoluta con la molteplicità fenomenica. Invece le tesi rispondono all’esigenza razionale ed hanno un carattere metafisico-dogmatico; esse tendono a porre dei principii assoluti dell’esperienza. Dal punto di vista sentimentale e pratico le tesi hanno un interesse prevalente; esse risolvono i problemi cosmologici nel senso desiderato dalla coscienza religiosa e morale; ma anche sotto l’aspetto speculativo la loro posizione di principii superiori all’esperienza attrae l’intelletto comune che può spaziare a suo agio nel trascendente senza avere il molesto controllo dell’esperienza e senza essere costretto al rigore scientifico.
Invece le antitesi hanno un interesse prevalente dal punto di vista scientifico; esse soddisfano l’esigenza intellettiva del collegamento nel senso dell’esperienza e tendono anzi a sostituire del tutto il mondo dell’esperienza alla realtà trascendente. Il pensiero critico deve qui far astrazione da ogni interesse straniero e risalire all’origine della contraddizione, isolando nella loro purezza le esigenze della ragione e dissolvendo quell’ibrido connubio del trascendente e dell’empirico che ne è la prima e vera causa. Il problema delle antinomie non è un problema esteriore, è un problema interno della ragione; quindi se la ragione può (come deve) avere una chiara comprensione di se e della sua natura, tale problema deve essere solubile; ma la sua soluzione è una soluzione critica, non fisica nè metafisica.
Quando due tesi opposte sono entrambe insostenibili, ciò vuol dire, dice Kant, che sono entrambe fondate su un presupposto insostenibile. Quando si dice: A ha un buon sapore, oppure A ha un cattivo sapore, può darsi che l’una e l’altra proposizione siano false quando A non ha sapore affatto. Quando io dico: il mondo è finito e il mondo è infinito, e l’una e l’altra proposizione è insostenibile, ciò vuol dire che il mondo non sopporta di essere determinato da questo punto di vista; che io qui riferisco al mondo una caratterizzazione (positiva o negativa) che gli è straniera. Quando io parlo del mondo sotto questo punto di vista, ne parlo come di qualche cosa che può costituire una totalità assoluta per sè, indipendente da me — che è finita ed infinita. Ma qui è appunto l’errore; il mondo che io considero dipende sempre da me, è il mondo fenomenico; è una successione di rappresentazioni che io collego successivamente, ma che appunto perchè dipende da me, non può mai costituire una totalità assoluta. L’esigenza della ragione di costituire una totalità assoluta è perfettamente legittima; ma deve sempre tener presente che quest’essere in sè, verso cui tende, non può venir confuso con la realtà fenomenica dei sensi e dell’intelletto nè costruirlo con gli elementi di quest’ultima. Se io, obbedendo all’esigenza della ragione e valendomi della tendenza delle categorie a trascendere ogni possibile esperienza, penso l’unità assoluta, a cui l’esperienza mi rinvia, come a qualche cosa che assolutamente la trascende, e poi unisco questo concetto alla serie delle rappresentazioni pensate nella loro indefinita estensione, io ho un concetto ibrido che si rivela insostenibile in quanto dà origine a due conclusioni opposte. Se infatti io applico l’esigenza razionale dell’unità assoluta (della quale posso pretendere che sia infinita), è facile mostrare, fissandosi sul contenuto empirico, che questo esige un indefinito progredire e può sopportare il concetto di un infinito dato e reale (cioè non il limite). Se applico la mia attenzione alla molteplicità empirica e la considero come costituente essa stessa l’unità assoluta, è facile mostrare, fissandosi nell’esigenza razionale, che questa non può essere soddisfatta d’una successione empirica indefinita.
La sola e vera soluzione sta dunque nel ripudio dell’ibrido concetto cosi formato e nel richiamo al nostro concetto idealistico fondamentale: la realtà assoluta verso cui tende la ragione è per natura altro dalla realtà empirica dell’intelletto e del senso. Questa soluzione pare dovrebbe estendersi egualmente a tutte le antinomie ed in genere a tutte le contraddizioni della realtà. Ma Kant stabilisce una differenza tra le due prime antinomie e le due ultime. Le due prime sono da lui dette antinomie matematiche in quanto il regresso nella serie delle condizioni per giungere all’unità assoluta, è inseparabile dal concetto temporale-spaziale; laddove nel passaggio dall'effetto alla causa io posso pensare la causa come eterogenea all’effetto.
Nelle due ultime io posso ristabilire la verità dell’esigenza della ragione e considerare il passaggio ad una causa prima come un passaggio ad un altro genere (al trascendente, all’intelligibile); nel qual caso la tesi acquista il suo vero senso, lasciando all’antitesi il suo senso puramente empirico. Invece nelle due prime la totalità non può fare astrazione dalle forme dello spazio e del tempo; la sintesi successiva è sempre la sintesi omogenea di elementi temporali e spaziali in unità temporali e spaziali; quindi l’unità è irrimediabilmente sensibile e perciò contraddittoria all’esigenza dell’unità assoluta razionale. Nelle prime due antinomie non è possibile pertanto, secondo Kant, operare la separazione; esse adunano inevitabilmente in sè i due elementi contraddittori; da un lato la ragione vorrebbe farne due unità trascendenti, due cose in sè; dall’altro esse implicano sempre le forme fenomeniche dello spazio e del tempo. L’assoluto temporale e spaziale che qui la ragione costruisce è irrimissibilmente contraddittorio; quindi la tesi è erronea ed anche l’antitesi (in quanto non è liberata da questa confusione) è falsa. Il mondo dunque non è nè finito nè infinito; è una sintesi che può essere estesa indefinitamente, ma che non può mai sperare di raggiungere in questo suo progresso indefinito un’infinità positiva, una perfezione assoluta, perchè ciò ripugna alla sua natura d’essere fenomenico, cioè non perfettamente reale. Ciò che posso dire è: 1) che il mondo, non ha nè un inizio nè un limite assegnabile; 2) che il detto progresso è indefinito. Il mondo non è una simultaneità tutta presente, ma una serie che si realizza per l’atto stesso del progresso. Questo basta all’esigenze della ricerca empirica. Che io dica: io posso nell’esperienza giungere a stelle che sono centomila volte più lontane che le ultime finora osservate, o io dica: vi sono tali stelle sebbene nessuno le abbia osservate, è praticamente la stessa cosa. Nel secondo caso io fo astrazione dal fatto che anch’esse appartengono all’esperienza, almeno come induzioni d’esperienze dirette; ma so che non esistono come cose in sè indipendenti dall’esperienza umana; la loro realtà è condizionata dall’estensione dell’esperienza, e una tale estensione indiretta è già la loro posizione.
Le stesse cose devono dirsi della seconda antinomia. Il regresso alle parti infinitesime della materia è senza limiti, ma ciò non vuol dire che sia infinito in atto. Qui Kant applica (non troppo coerentemente) all’infi-nitamente piccolo ciò che prima ha detto dell’infinitamente grande; anche l’infinitamente piccolo è per lui un’idea della ragione. Quindi non vi è un limite (e non vi sono unità definitive) e tuttavia la divisione, pur essendo senza limiti, non è in atto infinita.
Altrimenti stanno le cose con le due ultime antinomie che Kant chiama dinamiche perchè sono fondate su categorie indipendenti dai rapporti di tempo e di spazio. I rapporti che stabiliscono le categorie di relazione e di modalità non sono sintesi di elementi omogenei; nulla vieta che noi operiamo il passaggio da un causato sensibile ad una causa non sensibile; certo la categoria qui non adempie più il suo ufficio di collegare l’esperienza e ci rinvia al di là; ma questo rinvio, per quanto non abbia per nulla il risultato di farci conoscere alcunché al di là dell’esperienza, è per sè legittimo e ci apre per lo meno una possibilità. Così, partendo dal concetto fondamentale della distinzione del mondo fenomenico dal noumenico, è possibile che le tesi abbiano valore in quanto ci rinviano non ad una causa prima, ma ad una causa noumenica. La ragione, qui, illuminata dalla distinzione dei due mondi, adempie allora al suo vero compito; essa pone l’esigenza dell’unità trascendente, ma rinunzia ad obbiettivarla nella serie empirica, riconosce in essa una pura sintesi formale, un concetto — limite dell’esperienza. Mentre perciò le due idee matematiche dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo erano pseudo idee, perchè non pensabili indipendentemente dalle forme sensibili; qui abbiamo due vere idee (la causa assoluta, l’essere assolutamente necessario) che sono contraddittorie finché aduniamo in esse i due caratteri contraddittorii, di costituirci una realtà assoluta trascendente, e di essere obbiettivate nella realtà empirica; ma che cessano di esserlo appena si dissipa l’illusione obbiettivatrice. Allora alla luce di questa distinzione anche l’antitesi riacquista il suo valore; essa esprime semplicemente l’esigenza intellettiva della concatenazione indefinita dell’esperienza, libera da ogni preoccupazione trascendente e non aspira più a costituire per mezzo di essa un’unità assoluta.
Allora è possibile la conciliazione della tesi e dell’antitesi; entrambe sono vere, ma da un diverso punto di vista. Dal puro punto di vista empirico, intellettivo, l’antitesi è vera. Da questo punto di vista la serie causale è senza limiti e senza interruzioni; essa vale per tutto il mondo fenomenico senza eccezione — anehe l’uomo vi è soggetto. È un cattivo espediente ricorrere nel seno dell’esperienza a cause non naturali; questo è un annullare il principio della natura che in tanto vale, in quanto non subisce eccezione. D’altra parte la concatenazione causale naturale non esclude la dipendenza dal noumeno, dall’essere intelligibile che non è inserito nella serie causale e perciò è libero. Quindi abbiamo una duplice dipendenza causale: l’una nel senso empirico, scientifico dalle «vere cause»: l’altro nel senso metafisico, che ci rinvia a qualche cosa d’intelligibile, ma senza poterlo naturalmente determinare. L’una e l’altra causalità coesistono; sotto l’aspetto della prima ogni cosa è l’effetto naturale del meccanismo naturale; sotto l’aspetto della seconda è la manifestazione fenomenica immediata di una realtà che non è parte del meccanismo naturale. Nel primo aspetto vera è l’antitesi, nel secondo vera è la tesi; l’antinomia è scomparsa.
Nello stesso senso è risolta la quarta antinomia, che considera la concatenazione causale sotto un aspetto particolare. Ciò che è causato non è assolutamente necessario; ora poiché tutto nella esperienza è causalmente concatenato, non vi è nulla di assolutamente necessario. Questa è la verità dell’antitesi; che è vera quando è limitata alla serie empirica. D’altro lato se ogni realtà empirica ci rinvia a una causa non causata, vi è qualche cosa di assolutamente necessario; solo questo non deve essere posto sullo stesso piano, chiudendo violentemente la serie, ma dal punto di vista intelligibile. Vi è un assoluto, ma questo è l’assolutamente trascendente. Come si vede questa non è in fondo che la terza antinomia sotto un particolare aspetto.
Questa terza antinomia è importante in quanto dà a Kant modo di risolvere il problema della libertà. Vi è come abbiamo veduto una causa assoluta, noumenica, libera, da una parte; la concatenazione infinita e necessaria delle cause empiriche dall’altra. Ma se è posta una causa assolutamente libera, niente vieta di porre un’analoga spontaneità nelle singole sostanze e cioè che vi sia un sistema di attività libere intelligibili che si esplica nella molteplicità sensibile e meccanicamente concatenata. Applicando allora all’individuo la stessa distinzione, dobbiamo riconoscere che da una parte tutta la sua attività esteriore è causalmente concatenata e necessaria; l’uomo non fa per questo rispetto eccezione agli esseri della natura; in ciò è la verità del determinismo. D’altro lato però ogni atto procede dalla causa noumenica libera; che naturalmente non è causa nel senso empirico, non è un antecedente nel tempo, ma si contrappone a tutta la serie dell'azioni svolgente»! nel tempo come la realtà vera dell’azione, come la spontaneità spirituale che si traduce poi per noi in una successione fenomenica causale. Dato il suo carattere intelligibile questa causa è per noi soltanto un’idea, un limite, che ci avverte di non considerare la serie empirica dei nostri atti come qualche cosa di assoluto; ma per sè è una semplice negazione, come il concetto della cosa in sè. Questo è il concetto trascendentale della libertà; che, come si vede, ci rinvia al concetto d’un fondamento libero di noi e delle cose, ma senza farcelo conoscere, ponendolo come un pensiero necessario al quale però non possiamo dare alcun contenuto.
Però è chiaro che se per altra via potessimo dare un senso e un contenuto concreto all’idea di libertà, questa sarebbe allora anche teoreticamente giustificata. Ed infatti vi è un punto nella nostra vita nel quale, senza interrompere la concatenazione empirica, viene alla luce nella nostra coscienza quest’attività del fondamento trascendente: questo è la coscienza del dovere. Il dovere esprime una specie di necessità che non ricorre nella natura; noi non possiamo chiedere che cosa deve accadere nella natura, ma solo che cosa accade. Mentre nel dovere la coscienza dichiara necessarie certe azioni che forse non accadranno mai. Nell’azione compiuta per dovere si rivela quindi alla coscienza un ordine delle cose altro dall’ordine fenomenico; se da una parte l’azione stessa si riattacca ai suoi moventi sensibili, che se sono la causa naturale, d’altro lato ci si rivela come la determinazione di qualche cosa che è di là dall’ordine fenomenico, che non ci rinvia ad un’altra causa e che esprime la sua causalità libera nel dovere. Per il dovere l’uomo appartiene simultaneamente a due mondi ed ha due leggi diverse: in quanto s’immedesima con la coscienza del suo atto come procedente da questa causalità libera egli è libero; in quanto invece non ha questa coscienza e s’immedesima colla coscienza dei suoi impulsi è un essere naturale, non libero.
Naturalmente la libertà è nella coscienza morale soltanto; l’atto esterno che si svolge nell’ordine sensibile appare sempre anche nell’atto morale come causalmente concatenato.
Quindi l’esperienza esteriore e psicologica non ci offre la libertà; la libertà ci è attestata dalla coscienza morale non dall’esperienza interiore; ed è fondata e giustificata teoreticamente dall’idea della libertà, dalla libertà trascendentale.
Perciò l’uomo, in quanto non ha coscienza morale, è un puro essere sensibile, schiavo dei suoi impulsi (il concetto storico); in quanto è un essere morale continua ad appartenere al mondo sensibile e la sua azione è concatenata in esso come quella di qualunque altro essere, ma la sua coscienza partecipa al senso d’una realtà superiore, della realtà noumenica e, pur svolgendosi la sua azione esteriore e fenomenica sempre secondo le leggi della realtà fenomenica, egli sente quest’elevazione dell’essere suo come vita nella libertà.
Certo questa considerazione è lungi dal risolvere tutte le difficoltà; è un accenno più che una soluzione. Il punto su cui Kant insiste è la necessità di conciliare le due verità del determinismo e della libertà.
Prendiamo un uomo che ha peccato gravemente; andiamo pure a ricercare nell’educazione, nell’ambiente, ecc. i motivi del suo agire; questo non lo scusa moralmente agli occhi nostri; noi sentiamo che egli doveva operare altrimenti. Non vi è libertà empirica; ma la concatenazione delle attività empiriche non è qualche cosa di assoluto; è una concatenazione che deve fondarsi su qualche cosa di più profondo nell’individuo: per questo essa è, nella totalità, l’opera sua. Kant ha relegato nel trascendente l’atto libero (il carattere intelligibile); ma questo non è che un principio della soluzione. Ad ogni modo questo è un problema sul quale dovremo ritornare più tardi. Qui Kant non ha voluto mostrare se non questo: che, posto il concetto trascendentale della libertà, è tolta ogni contraddizione con la concatenazione causale empirica e così eliminato da una parte ogni concetto antiscientifico della libertà, ed eliminato dall’altra ogni determinismo fatalistico negatore della libertà.
Piuttosto ci interessa esaminare criticamente la struttura esteriore della dottrina delle antinomie. Essa è ricondotta da Kant alla sua tavola delle categorie, ma anche qui la sistemazione è arbitraria e senza il minimo fondamento. Anche un superficiale esame vede facilmente che la quarta antinomia è un duplicato della terza. Quando la categoria di causalità sia concepita non come il collegamento esteriore di due fenomeni, ma come l’unità interiore che li collega nella loro successione e ne fa una identità successiva, questa sta, rispetto ai distinti successivi, come il necessario al contingente; il passaggio alla causa assoluta è anche il passaggio all’essere assolutamente necessario. Quindi manca la ragione di fare due processi distinti. Ma le osservazioni più notevoli vertono sulla prima e sulla seconda. La prima è in realtà un’estensione del tempo e dello spazio all’assoluto.
Si ha qui veramente una dialettica delle forme del senso, che dovrebbe essere posta in rapporto con molte teorie della Critica del giudizio, specialmente con la teoria kantiana del sublime. Resta l’affermazione kantiana circa l’insanabile illusione della tesi; ma temperata dal riconoscimento del suo valore simbolico; laddove anche qui l’antitesi, ricondotta al suo legittimo senso, è profondamente vera.
Più difficile è a comprendersi perchè Kant abbia posto qui la seconda antinomia; nell’idea dell’elemento reale ultimo ci è impossibile vedere un’idea della ragione come almeno Kant l’intende. Si tratta qui soltanto di un problema interno dell’estetica trascendentale. La impossibilità d’un elemento sensibile ultimo discende già dal concetto stesso del tempo e dello spazio come forme. Vera perciò anche qui l’antitesi; e il vero senso della tesi è nella posizione non d’unità soprassensibili, ma di unità inferiori al senso, di unità infinitesimali. Non è il caso di entrare qui in un’analisi di questo genere; basti l’aver mostrato che nelle tavole delle antinomie questo problema non ha assolutamente alcun posto.
La sola vera antinomia è la terza; il passaggio all’idea di una causa assoluta è veramente il primo momento del processo teoretico per cui la considerazione della realtà, nella sua struttura formale, ci costringe a risalire al concetto di una unità trascendente. E, sebbene per vie diverse da quelle di Kant, possiamo qui accogliere, in complesso, la sua conclusione: che tale processo ci pone dinanzi ad un’unità trascendente che non possiamo obbiettivare e perciò dobbiamo pensare simbolicamente. E nello stesso tempo, in quanto in essa sparisce il carattere della successione e perciò sparisce il carattere della causa, questa si confonde con la sostanza; la causa assoluta è anche la sostanza assoluta. Ma la determinazione della sostanza assoluta è il risultato d’un altro processo, che è in fondo quello da Kant esposto ed analizzato nella sua Idea teologica.
Ciò che caratterizza l’idea teologica è secondo Kant questo: che per essa la ragione umana si illude di potersi elevare al concetto dell’Assoluto non più partendo da esperienze, ma da concetti astratti (Crit. Rag. Pura, ediz. Valent., pag. 540-541). In fondo tutte tre le idee tendono allo stesso fine, sono tre processi diversi, ma hanno lo stesso oggetto: l’Assoluto. Qui la ragione, come resa conscia del carattere trascendente dell’Assoluto rinuncia a prendere il suo punto di partenza nei fenomeni ed a risalire attraverso la loro concatenazione infinita, ma entra risolutamente nel regno dei concetti puri.
Naturalmente la ragione nostra non può mettersi, per così dire, nel centro dell’intelligibile; quando crede di poterlo tentare, essa soggiace, come vedremo, ad una illusione. Ma pure partendo dalla realtà empirica e dai suoi principii, essa nell’idea teologica lascia subito da parte la molteplicità empirica, ed affidandosi ad un principio essenziale, costitutivo di ogni realtà, crede di potere a mezzo suo pervenire senz’altro al concetto della totalità assoluta. Questo principio è quello che regge il sillogismo disgiuntivo, che Kant chiama il principio della determinabilità, fondato sul principio di contraddizione (Crit. Rag. Pura, ediz. Valent, pag. 497). Nel raziocinio disgiuntivo l’atto essenziale della ragione sta nella posizione del giudizio disgiuntivo che serve da maggiore, nella costituzione d’un concetto che riunisce in sè un certo numero di possibilità positive (A è o a o b o c o d, ecc.). Ciò che guida a priori la ragione nella costituzione di queste unità collettive è in fondo (sebbene Kant non lo dica) il principio di sostanza; il principio della comunione necessaria di tutti gli esseri, il principio che in ultimo tutti gli esseri debbono costituire come un grande essere unico, del quale dovrebbero predicarsi in un interminabile giudizio disgiuntivo, come altrettanti membri della disgiunzione, tutti gli esseri positivi. Questo è già espresso nel principio logico comune secondo il quale d’ogni oggetto devono potersi predicare, positivamente o negativamente tutti i predicati possibili (principio di contraddizione); A è o B o nonB. Per esso infatti anche il soggetto più limitato è posto in un certo rapporto di comunione (sia pure per via di esclusione) con tutta la realtà. Il progresso della ragione avviene, in questo rispetto, per la determinazione di unità sempre più comprensive; il limite estremo è la totalità delle possibilità positive, l’idea dell’omnitudo realitatis che, come si vede, non è se non l’estensione formale alla totalità di un processo costitutivo di tutte le realtà finite.
Qui il semplice principio logico è applicato nel suo senso metafisico (Crit. Rag. Pura, pag. 498); quando si afferma che ogni predicato deve affermarsi positivamente o negativamente d’un soggetto, si afferma con ciò il concetto trascendentale di una totalità di tutte le realtà possibili, di cui ogni realtà singola è una determinazione positiva o negativa. Di più la totalità è purificata in questo processo della ragione dalla molteplicità coesistente e ridotta al concetto d’una unità assoluta, che è unità e totalità ad un tempo. Tutti i possibili predicati sono infatti o positivi o negativi; questi ultimi sono sempre concetti derivati che presuppongono la corrispondente realtà positiva (il concetto di ignoranza è solo per chi conosce la scienza, la povertà per chi conosce la ricchezza, ecc.); quindi la totalità è la totalità positiva, di cui i singoli predicati particolari (che contengono sempre qualche negazione) sono semplici limitazioni. Per cui la totalità è anche un’unità reale concreta; perciò Kant la chiama un ideale (non solo una idea), è cioè l’unico e supremo ideale trascendentale della ragione, che estendendosi di là da ogni esperienza possibile è un assoluto trascendente. Questo assoluto è la realtà perfetta alla quale tutte le cose più o meno si avvicinano secondo il loro grado di realtà, e da cui perciò tutte (metafisicamente) derivano, perchè tutte la limitano in qualche modo come le figure geometriche limitano l’illimitabile spazio. Questa limitazione e derivazione non è una partizione; perchè allora la realtà assoluta non sarebbe più veramente una, ma un aggregato. Perciò noi dobbiamo piuttosto porre questa realtà sotto l’immagine di un principio, di tutte le cose, cioè come Dio.
Però la ragione dovrebbe sempre ricordare che si tratta solo di un'idea, non di un oggetto; di un principio circa la cui realtà obbiettiva noi nulla possiamo determinare. Anche qui tuttavia la ragione soggiace all’illusione consueta, di poter possedere questa totalità assoluta come una totalità obbiettiva.
A noi è data la totalità indefinita dell’esperienza dove tutto è legato con tutto; noi confondiamo questo concetto con quello della totalità assoluta e ne facciamo un’unità collettiva, una cosa, che contiene in sè ogni altra realtà; poi l’isoliamo dalle altre cose, l’ipostatizziamo, anzi le riferiamo una personalità e ne facciamo il Dio separato, personale, della teologia comune.
Questo processo per cui la ragione dall’esistenza di cose particolari conclude all'esistenza d’una totalità unica ed assoluta della quale esse non sono che limitazioni, determinazioni (e perciò negazioni), è tuttavia in sè troppo astratto perchè lo spirito umano si acquieti in esso senz’altro. Quest’idea della totalità appare come una creazione del pensiero; ma è essa reale? Perciò i tentativi di dimostrazione con cui la ragione ha cercato di corroborarla; che sono le così dette prove dell’esistenza di Dio. La totalità assoluta deve avere in sè il fondamento dell’essere suo; deve essere una causa sui. Perciò dovrebbe anche avere l’idea corrispondente, la giustificazione della propria verità, la dimostrazione della propria realtà; questo è il principio del cosidetto argomento ontologico. Questa è la vera e propria dimostrazione, che però incorre ancora nello stesso difetto: di prendere il suo punto di partenza in un’astrazione per ricavare la prova della sua realtà.
La ragione comune ama invece partire dalle cose dell’esperienza e, con le dimostrazioni che abbiamo già trovato nelle due ultime antinomie, risalire alla causa prima, al per sè necessario, per poi identificare queste idee con quella della totalità (Crit. Rag. Pura, ediz. Valent, pag. 510 seg). La totalità è il concetto che meglio si adegua ad esprimere l’assolutamente necessario.
Questo è anche il cammino che ha seguito lo spirito umano in generale. Esso si è trovato di fronte alle cose mutevoli; è risalito da esse alla loro causa prima ed ha identificato la causa prima con la totalità, che contiene in sè il principio di tutto. Ed ancora ha seguito in ciò due vie: o è partita dalle cose singole per risalire alla loro causa adeguata (come intelligenza ecc.), o è partita dalle cose in genere per risalire alla loro causa in genere (l’argomento cosmologico).
Quindi le tre prove possibili dell'esistenza di Dio: l’ontologica, la cosmologica, la fisico-teleologica. Kant le passa successiamente in esame e il risultato del suo esame è questo: che la seconda e la terza si riducono essenzialmente alla prima. E per questa egli dimostra che l’argomentazione è assolutamente inadeguata alla dimostrazione dell’esistenza d’un oggetto come tale; la dimostrazione d’un Dio personale, ipostatizzato è quindi un sofisma. Quanto al suo valore in sè, Kant non ne parla; esso, ricondotto al suo vero senso, si identifica col processo della ragione nell’idea teologica e non può avere altra conclusione che il passaggio al trascendente.
La parola realtà può essere presa in due significati che bisogna tenere ben distinti se si vuole cogliere il senso dell'argomentazione kantiana. L’essere unico assoluta mente necessario è, nel più alto senso della parola, reale; ma non nel senso in cui sono reali le cose del senso. Il torto del pensiero comune è di confondere questi due sensi della parola «realtà» e di porre l’essere assoluto sullo stesso piano della realtà empirica. È da questo punto di vista che i tentativi di dimostrare la realtà, l’esistenza di Dio debbono considerarsi come puri sofismi.
Il primo e fondamentale di questi argomenti è la cosidetta prova ontologica, introdotta da Anselmo d’Aosta nell’XI secolo, rigettata da Alberto Magno e da San Tomaso, rielaborata da Cartesio e da Leibniz. Kant la esamina infatti nella forma leibniziana-wolfiana. Il concetto di Dio come totalità assoluta della realtà è possibile (perchè non vi è contraddizione); ma alla totalità assoluta della realtà appartiene anche l’esistenza (negarla sarebbe un contraddire il concetto di ente realissimo); perciò Dio necessariamente esiste. Il giudizio «Dio esiste» è un semplice giudizio analitico.
Kant mette anzitutto in guardia contro queste argomentazioni astratte le quali vorrebbero argomentare quanto alla realtà. Per es. nella proposizione: il triangolo ha tre angoli (intendendo per triangolo la figura piana chiusa da tre rette), vi è certo una necessità di collegamento, ma che non ha nessuna portata quanto all’esistenza. Posto il triangolo è contraddittorio non porre i tre angoli; ma io posso togliere l’uno e l’altro concetto senza contraddizione. Sembra che l’argomento ontologico si sottragga a questa critica: che esso si riferisca ad un soggetto che non può essere tolto senza contraddizione, in quanto sarebbe ad esso essenziale l’esistenza reale. Kant però nega la legittimità di questo processo per cui dalla possibilità astratta di un essere si vuol concludere alla sua reale esistenza. L’obbiezione essenziale di Kant è questa: che la realtà non è un predicato, il quale si possa aggiungere agli altri predicati d’un concetto ed attribuirgli la reale esistenza; in altre parole il giudizio esistenziale è sempre sintetico, non mai analitico. Quanto al puro concetto, il reale contiene tanto quanto il possibile (il famoso esempio dei cento talleri). La realtà od irrealtà non è mai determinata dal concetto stesso, ma dal rapporto suo con la realtà complessiva; ciò che non aggiunge nulla al concetto, nè può esservi contenuto. Ora se si tratta di oggetti empirici, è l’esperienza che ci dà questo rapporto dell’oggetto con l’esperienza complessiva; trattandosi qui della totalità assoluta, di un’idea trascendente, noi non abbiamo nè il mezzo, nè il diritto di applicare questo criterio; quindi non abbiamo alcuna possibilità di poter affermare alcunché di determinato circa la realtà di questo concetto. Questa critica di Kant è stata oggetto di discussioni senza numero; nelle quali non sempre si è tenuto presente (da Hegel, per esempio) l’oggetto preciso di questa critica. Ciò che Kant combatte è l’ibrido concetto di Dio che ha il suo punto di partenza nell’idea della totalità assoluta, ma poi ne fa un essere determinato e in fondo lo mette sul piano delle realtà empiriche, e solo da questo punto di vista può intraprendere la dimostrazione della sua esistenza. Ma la sua critica non distrugge l'argomentazione che sta a base dell’idea teologica ed è la verità della prova ontologica. Il criterio della realtà nella stessa esistenza empirica è l’unità; il progresso verso la realtà è anche progresso verso l’unità. Da questo punto di vista sarebbe una contraddizione negare che l’unità assoluta, come omnitudo realitatis, non sia anche l’assoluta realtà. Ma questo concetto esclude ogni determinazione della realtà, e perciò ogni dimostrazione; questa realtà è l’esigenza suprema della ragione, ma non è più una conoscenza.
Nella prova ontologica lo spirito parte in realtà dalla considerazione della realtà finita per elevarsi all’idea della totalità assoluta; ma dà poi a questo processo l’apparenza d’un processo inverso. Vale a dire che invece di considerare l’idea di Dio come la conclusione della ragione che completa l’esperienza, la prende come punto di partenza in quanto crede di poter derivare dall’idea stessa la necessità della sua reale esistenza e quindi la necessità di tutte le altre esistenze particolari. La prova cosmologica invece, che Leibniz dice a contingentia mundi, parte esplicitamente dalla considerazione delle esistenze finite e si eleva al concetto d’una causa prima assoluta; poi identifica questa causa prima assoluta con la realtà assoluta, come quella che implica la necessità assoluta della propria esistenza. Quindi la prova cosmologica consta di due momenti, dei quali il secondo solo è essenziale ed è la stessa prova ontologica mascherata in altra forma.
Nel primo momento essa poggia in apparenza sull’esperienza e conclude dall’esistenza del mondo all’esistenza d’una causa prima necessaria. Ora già qui dobbiamo richiamare quanto si è detto a proposito della tesi dell’antinomia terza e quarta. Il principio di causa non giova a farci uscire dal mondo sensibile, a determinare una causa di là dal sensibile, che sia come il limite il punto primo della catena della causalità empirica. La causa prima è un’idea, non una realtà obbiettiva che stia a capo della concatenazione complessiva. Ma per sè questa argomentazione non ci farebbe ancora conoscere nulla circa il carattere di questa causa; quindi la ragione prende qui commiato dal fondamento empirico, e in via puramente concettuale argomenta che causa assolutamente necessaria (cioè non più condizionata da altro) può solo essere la totalità assoluta della realtà, come quella che contiene in sè la totalità delle condizioni e quindi non può più essere condizionata da altro; ossia non può più togliere in prestito da altro la propria necessità. Ma se solo l’assoluta totalità può essere qualche cosa di assolutamente necessario, questa assoluta necessità deve essere implicata nel concetto dell’assoluta totalità, cioè deve potersi dedurre da questo concetto. Ed allora a che pro partire dall’esperienza? Basta partire dal concetto dell’assolutamente reale e derivarne la necessaria realtà; cioè tornare alla prova ontologica.
Kant mostra l’evidenza di questo trapasso riducendolo in forma sillogistica. L’essere assolutamente necessario è l’assoluta realtà (dice la prova cosmologica). Il giudizio deve potersi convertire per accidens: qualche assoluta realtà è l’essere assolutamente necessario. Ma non vi sono molte assolute realtà; essa è unica; quindi si deve dire: l’assoluta realtà è l’assolutamente necessario; che è la tesi della prova ontologica. Per cui questa seconda prova non è una reale prova; la partenza dall’esperienza non ci conduce molto in alto; e solo per un passaggio concettuale l’assolutamente necessario è convertito nell’assoluta realtà. Ma ciò equivale a porre la prova ontologica di cui abbiamo già mostrato la vanità.
La prova fisico-teleologica parte non, come la cosmologica, dall’esperienza del mondo in genere (come contingente), ma da determinate esperienze, nelle quali crede di poter trovare il punto di partenza per elevarsi al concetto di una realtà assoluta come principio e fondamento di tutto il reale.
Queste determinate esperienze sono quelle che ci rivelano l’ordine e la bellezza delle cose create, che, così nell’insieme come nei particolari, destano la nostra più profonda meraviglia. È certo che noi vediamo anche lì una concatenazione di cause e d’effetti; ma è una concatenazione sapiente; tale che noi non possiamo pensarla come il risultato di un puro meccanismo. Dobbiamo perciò assumere una causa saggia e libera che fa servire ai suoi fini elevati il cieco e possente meccanismo delle cose naturali; noi la poniamo come una causa unica perchè vediamo che tutte le parti del mondo a noi note si armonizzano secondo una finalità unica.
Come dobbiamo pensare questa causa? Noi non conosciamo nè l’estensione delle cose nè possiamo misurarne la perfezione; ma obbedendo ad una oscura esigenza della ragione poniamo questa causa senz'altro come la causa prima ed assoluta di tutte le cose; e quindi come la realtà assoluta, Dio.
Questa prova è ricordata da Kant con un certo rispetto; non solo perchè è quella che trionfa nell’apologetica comune, ma anche e soprattuto perchè essa si associa inconsapevolmente sempre alla prova morale. L’autore saggio delle cose è pensato anche come l’autore morale delle cose; la considerazione teleologica delle cose (che è come vedremo un corollario della concezione morale del mondo) si trasforma in una concezione morale, e per questa via la prova fisico-teologica attinge una forza e un valore che per sè non le appartengono.
Considerata per sè sola però non può affatto conseguire quell'apodittica certezza che essa pretende; infine anch’essa finisce per risolversi nelle due precedenti già esaminate. In primo luogo l’analogia secondo la quale essa conclude ci permetterebbe tutt’al più di concludere ad un ordinatore delle cose, non ad un creatore. In secondo luogo anche in questo caso l’ordinatore sembra essere limitato nel poter suo dalla materia che deve elaborare. L’ordine e la finalità delle cose ci autorizzano a concludere all’esistenza di una causa ad esse proporzionata. Ora, tutto ciò che noi apprendiamo è sempre finito; può quindi farci concludere al concetto indeterminato di uu essere grandemente saggio, potente, ecc.; anzi rigorosamente'non possiamo nemmeno con rigore concludere al concetto di un unico autore delle cose. «Noi non possiamo argomentare, scrive Kant nella Memoria (del 1763) sull’unica prova possibile per una dimostrazione della esistenza di Dio, all’esistenza nella causa di perfezioni più grandi e più numerose di ciò che sia necessario per spiegare il grado e la costituzione degli effetti, se noi per giudicare dell’esistenza delle cause non abbiamo altra occasione se non quella che ci danno i suoi effetti. Ora, noi riconosciamo che vi è nel mondo perfezione, grandezza ed ordine in alto grado, dal che non possiamo concludere con rigore logico se non che la causa sua deve possedere altrettanto di intelligenza, di potenza e di bontà, in nessun modo che sia omniscente, onnipotente. Vi è un tutto sconfinato nel quale vediamo ovunque ordine ed unità; noi possiamo con buon fondamento arguire che l’autore di esso sia unico; il che però, se è molto razionale, non costituisce una conclusione rigorosa».
La pura considerazione empirica non può quindi farci passare all’assoluta totalità. E d’altra parte la ragione non può arrestarsi al concetto indeterminato di un essere (o di più esseri) intelligenti, potenti, ecc.; per ciò essa insensibilmente trapassa nella prova cosmologica ed argomenta alla causa di tutte le cose, che è poi identificata con l’assoluta Realtà. Quindi anche la prova fisico-teleologica non ha per se stessa alcun valore.
Tutte le pretese prove dell’esistenza di Dio si riducono alle tre soprariferite; anzi anche queste in fondo si riducono all'unica prova ontologica. La quale alla sua volta è basata sullo scambio del senso empirico di «realtà» col senso trascendentale. La realtà a cui concludiamo in base ai concetti trascendentali, non è la realtà obbiettiva nostra; e questa si appoggia non su analisi di concetti, ma sulla possibilità d’una sintesi con l’esperienza. Anche qui, relativamente all’idea teologica, è vero quello che abbiamo veduto relativamente alle idee cosmologiche; l’intelletto esige un regresso indefinito. Ogni realtà è parte condizionata d’un più vasto complesso di realtà e così all’infinito. Ma questo regresso non ci potrà condurre mai verso una totalità asoluta; ciò sarebbe in contraddizione col concetto stesso di realtà fenomenica. Però questo regresso indefinito esprime l’esigenza d’un passaggio qualitativo; la ragione esige la posizione di una totalità assoluta, la quale non può più esere una realtà fenomenica, ma è la totalità assoluta come noumeno. Ora questo passaggio implicherebbe il progresso del conoscere verso un essere che trascende ogni nostra esperienza. Ora noi sappiamo che ogni nostra conoscenza obbiettiva è necessariamente immanente; quindi una teologia naturale come scienza del trascendente è impossibile. Il processo trascendentale della ragione ci rinvia, anche nell’idea teologica, ad un al di là dall’esperienza, ma senza farcelo conoscere come oggetto; anche l'omnitudo realitatis non è una designazione positiva del noumeno, ma una semplice idea, la quale caratterizza negativamente tutte le realtà particolari e così ci rinvia verso il mare infinito dell’essere, come verso la sola realtà; come verso qualche cosa che il nostro conoscere finita non può nè comprendere nè determinare.
Possiamo qui in fine riassumere in breve le funzioni della ragione ed il senso profondo anche dei suoi errori dialettici. Nell’esame delle attività sue noi l’abbiamo fin qui quasi esclusivamente considerata come una sorgente d’illusioni; come se la facoltà delle idee non avesse per compito naturale che di traviare per mezzo di esse il nostro spirito, dandogli l’illusione di conoscere ciò che non può assolutamente conoscere. Ora ciò non può essere; tutto ciò che è fondato sulla natura delle nostre facoltà deve avere un senso ed un compito positivo; gli errori dialettici sono dovuti solo ad un traviamento; ora quale è questo compito positivo? Non si può negare che Kant è molto oscillante ed incerto nel rispondere a questa domanda. In fondo la ragione ha in lui un compito metafisico molto essenziale; quello di costringere lo spirito a passare dall’empirico al trascendente; anche se per ora questo non può essere posto che come una negazione, una limitazione dell’empirico.
Questo compito metafisico è messo molto bene in luce nei «Prolegomeni» (parag. 57-59); nella Critica invece il più gran posto è dato a quella che costituisce in realtà una funzione secondaria della ragione, la funzione immanente, regolativa considerando l’altra come una semplice conseguenza accessoria di questa. Di questa inconseguenza dobbiamo cercare la causa nella tendenza costante di Kant ad eliminare scrupolosamente qualunque risultato speculativo che non fosse la possibilità d’un complemento metafisico fondato unicamente sulla moralità; tendenza che spiega (anche se non giustifica) come si sia potuto interpretare Kant in senso empirico e cercare in lui il fondamento della filosofìa empirica delle funzioni necessarie e del «come se» (Crit. Rag. Pura, ediz. Valent., pag. 568-579). La prima funzione della ragione adunque è la sistemazione dei concetti dell’intelletto. Essa ordina il molteplice dei concetti in sistema mediante la subordinazione reciproca dei concetti; in questo senso essa ha una pura funzione regolativa (non costitutiva). Essa crea così delle unità fittizie nel senso che sono pure unità ipotetiche che servono a dare unità alla molteplicità dei concetti e così a guidare l’esperienza nel suo corso. Per es. noi esaminando i fatti e le attività dell’anima, la riduciamo a certe forze o facoltà fondamentali che poi vengono ridotte ad una facoltà o forza fondamentale assoluta; la quale è solo una idea perché noi non la troviamo nell’esperienza, ma ci serve ad ordinare sistematicamente i nostri concetti della vita interiore datici nell’esperienza. Noi trattiamo la molteplicità dei concetti come la manifestazione di un’unità nascosta, la cui posizione è un’esigenza originaria e necessaria della nostra ragione. Kant formula quest’esigenza in tre principii fondamentali: il principio della omogeneità della molteplicità concettuale (onde la sua riduzione sotto unità ideali ipotetiche); il principio della varietà dell’omogeneo (onde la sua divisione, in specie); il principio dell'affinità (onde il passaggio continuo da una specie all’altra e la continuità degli esseri. Si veda per maggiori particolari la Critica della Ragion Pura, ediz. Valent., pag. 724 e seguenti.
Kant chiama questi principii massime della ragione perchè non valgono obbiettivamente nel senso che ad esse corrisponda un oggetto, ma valgono nel senso che la ragione deve seguirle per arrivare alla migliore e più perfetta possibile conoscenza degli oggetti per l’intelletto.
Anche se per esse noi dobbiamo rappresentarci degli oggetti (fittizi), questi sono soltanto oggetti dati nell'idea, cioè schemi che servono a collegare i concetti obbiettivi. Tale per es. è il concetto di un’intelligenza suprema che ci serve a rappresentare gli oggetti come se derivassero nella loro totalità. Così debbono essere inter pretate le tre idee; l’idea psicologica dice che noi dobbiamo rappresentarci i fatti interni come se fossero gli stati d’un oggetto personale, spirituale, ecc.; e cosi per le altre.
Ora anche solo quest’uso sistematico delle massime della ragione tende a concretarsi in oggetti ideali che incarnano l’unità sua. Noi facciamo in tale caso convergere tutti i dati dell’intelletto secondo un certo indirizzo verso un punto ideale: l’unità completa dell’esperienza che essi non raggiungeranno mai (focus imaginarius) perchè è al di là da ogni esperienza, ma che ci dà la illusione di essere il reale punto di partenza dei concetti intellettivi (come l’oggetto che appare sullo specchio). La loro assunzione in questo caso è necessaria, ma non come di oggetti, bensì di analogia di oggetti, che non possiamo pensare e conoscere in sè, ma solo analogamente nel loro rapporto con gli oggetti sul tipo dei rapporti che gli oggetti hanno fra loro. Questo è dunque il fine della ragione: l’unità sistematica del sapere; il che rende necessaria la creazione di oggetti ideali che sono come l'incarnazione di quest’unità, ma non rappresentano niente di reale.
Questa funzione regolativa della ragione è la sola che Kant considera nel capitolo che ha per titolo «Appendice alla Dialettica Trascendentale» (pag. 548-567) e che ha per oggetto la funzione della ragione. Questo non deve del resto meravigliarci se ricordiamo le ineguaglianze di composizione della «Critica», le incertezze del pensiero kantiano riguardo al trascendente e la tendenza di Kant di lasciare del tutto nell’ombra la parte positiva della Critica. Ma noi non abbiamo che da richiamare qui ciò che Kant chiaramente esprime nella terza antinomia: la ragione nell’atto stesso che dà unità ssitematica al sapere empirico lo abbraccia d’un colpo nel suo insieme, riconosce la limitazione della sua natura e la sua insufficienza di fronte a quell’esigenza dell’assoluto che costituisce l’essenza stessa della ragione. Di qui il superamento dell’essere fenomenico nel senso che, riconosciuto il carattere dell’essere fenomenico, è con ciò stesso contrapposto ad esso, almeno come un limite, il mondo delle cose in sè. Questa contrapposizione è qui ancora qualche cosa di puramente negativo; ma essa ha il merito di eliminare tutti i concetti naturalistici del reale, come tutte le concezioni superstiziose del trascendente; così prepara il terreno a quella fede morale che è la vera metafisica di Emanuele Kant.
La ragione umana non sta naturalmente paga di questo risultato in apparenza così modesto; essa fa delle idee della ragione, che sono poi principii regolativi esprimenti simbolicamente il trascendente, dei veri principii costitutivi degli esseri reali che turbano il corso reale dell’esperienza, ci danno del trascendente un concetto inadeguato e contraddittorio e così precipitano la ragione in tutte le assurdità e le contraddizioni del dogmatismo. A liberare la ragione da queste illusioni serve appunto la critica che, analizzando la conoscenza dei suoi primi elementi, ci mostra la vera funzione dei suoi elementi costitutivi e ci insegna a distinguere il sapere obbiettivo dell’intelletto dalle idee nelle quali abbiamo soltanto come il presentimento di una designazione simbolica del trascendente.
Con queste conclusioni in apparenza puramente negative si chiude la critica del nostro conoscere; in quest’apparenza ha la sua ragione il fatto che la dottrina kantiana è stata spesso interpretata come un agnosticismo ed un subbiettivismo scettico; e che si è introdotta la sua dottrina morale come una correzione e quasi una contraddizione a questa parte distruttiva della sua filosofia.
In realtà, se noi comprendiamo anche queste conclusioni dell’ultima parte con larghezza e in accordo con tutte le altre parti della dottrina, esse ci appariscono come un’introduzione critica e negativa che richiama già la grandiosa metafìsica dello spirito disegnata nelle altre due critiche.
Noi siamo partiti, con Kant, dalla considerazione del miserando stato delle concezioni dogmatiche e delle controversie fra dogmatismo e scetticismo; considerazione teoretica, ma nello stesso tempo amara constatazione della intrinseca ed insanabile insufficienza delle concezioni correnti, connesse con i più vitali interessi dell’uomo. Fin dall’inizio Kant vede la ragione di questa insufficienza d’ogni dogmatismo nel fatto che esso erige la realtà immediata, data al senso ed all’intelletto, in realtà assoluta.
Ora, noi portiamo dentro di noi come il criterio e la misura di questa realtà assoluta; noi portiamo in noi un’esigenza dell’assoluto che non possiamo contraddire senza metterci in contraddizione con tutto l’essere. Ora, come può una realtà esteriore, data, e perciò sempre finita e contingente rispondere a questa esigenza? Qui sta la radice di tutte le contraddizioni teoretiche e pratiche che ci sospingono oltre, attraverso la critica, verso una verità più profonda.
Riconosciamo allora, dice Kant, che questo assoluto è, almeno potenzialmente, in noi; e che ogni realtà finita e concreta, in cui volta per volta lo incarniamo, non è che un compromesso, un grado di un’ascensione senza fine. Ciascuna di queste realtà porta in sè, nelle sue leggi formali, il segno dell’assoluto; esse esprimono in certo modo il suo dover essere e ne mettono perciò anche, nello stesso tempo, in luce l’insufficienza.
Così noi siamo venuti a comprendere come anche nel conoscere finito possiamo accogliere qualche cosa d’assoluto; l’universalità delle leggi, che non ci vengono dall’esterno, ma hanno la loro origine, quanto al loro valore assoluto in noi, nell’assoluto che è in noi. Così abbiamo anche compreso come ogni concezione che fissi e concreti l’assoluto in questi compromessi esteriori, realtà umane e relative, sia necessariamente condannata alla contraddizione; alla contraddizione con il presentimento che è in noi e che ci indirizza sempre oltre.
Di qui la necessità di una analisi critica che sbarazzi la via da queste illusioni; analisi critica che, nella sua nudità dialettica, riassume la critica di tutte le fasi storiche attraverso le quali passa necessariamente il pensiero filosofico e religioso dell’umanità. Le cosidette illusioni dialettiche della ragione sono e riassumono, in ciò che hanno di filosofico, i gradi dell’illusione che fissa l’assoluto nell’empirico; illusione salutare e necessaria, senza di cui anche il pensiero critico non sarebbe stato possibile.
La critica segna l’avvento definitivo e conscio della religiosità filosofica, che allontana da sè definitivamente l’illusione di umanizzare l’assoluto, o almeno riconoscere questi tentativi per ciò che sono: come dei simboli necessarii alla debolezza nostra. Noi abbiamo dunque sgombrata la via, tolte le illusioni; adesso ci resta la domanda: come dobbiamo pensare questo assoluto? Esso è in noi come presentimento di una realtà che ci trascende; come dobbiamo pensarlo?
Qui comincia la metafìsica critica. È la ragione stessa nella sua forma più alta che ci rivela l’assoluto e che deve essere per noi il simbolo dell’assoluto; sopratutto la ragione, dice Kant, in quanto nella legge morale ci rivela veramente qualche cosa che è, per noi almeno praticamente, un assoluto. Una metafìsica, quindi, puramente umana e simbolica, ma che assolve al suo vero compito: che è di guidarci con sicurezza verso i nostri più veri e più alti destini.
Ultima modifica 2024.03