Antonio Labriola 1896
Dal discorso che il prof. Antonio Labriola tenne il 14 novembre 1896, in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico, nell’Università di Roma.
La Università si riapre; la Università esibisce, questa volta sola nell’anno, tutta se stessa al gran pubblico: parliamo, dunque, dell’Università.
La critica su l’opera nostra s’è fatta negli ultimi tempi, senza dubbio, assai viva nel pubblico. C’è toccato di leggerne e di sentirne d’ogni genere e d’ogni colore negli ultimi anni. Nei giornali cotidiani e nei discorsi parlamentari c’è accaduto più volte di sentirci oggetto di una critica, che spesso fu poco benevola, e quasi mai parve rivolta all’intento di fornire a noi nuovi lumi e cognizioni nuove. Noi colpevoli dei frequenti tumulti studenteschi; - noi, cagione di danno alla società, perché produciamo troppi professionisti, che nella lotta della vita forman poi un forte contingente nell’esercito degli spostati; - noi, pericolosi, come quelli che abusiamo, chi sa mai come, della libertà dell’insegnare: e così via, da non finirla!
Non dirò che sia giunto il tempo di mettersi in su le difese, come se fossimo minacciati da grave ed imminente pericolo; ma dirò francamente che i professori hanno il grave torto di abbandonare la discussione su le cose universitarie all’arbitrio degli incompetenti, e di non reagire contro gli erronei giudizi con la forza e con l’autorità della propria esperienza collettiva.
Cotesta incuria ha di certo la sua giustificazione nel fatto, che ai professori italiani è premuto soprattutto, in quest’ultimo trentennio, di rimettersi al passo con gli scienziati degli altri paesi. Lo sforzo ha in buona parte ottenuto il desiderato effetto. I prodotti della scienza italiana son rientrati già nella circolazione internazionale. Le partite passive del lungo periodo della decadenza furono in buona parte scontate; di quella decadenza, dico, che, insieme all’impotenza politica e al regresso economico, c’impose l’isolamento dal moto generale del pensiero. Ora non è più il tempo, che i migliori intelletti abbiano da percorrere le propedeutica dell’esilio, e la metodologia del carcere.
L’iniziativa scientifica è di nuovo possibile, e le condizioni che occorrono allo sviluppo di tale attività non mancano oramai più.
L’Università è nuovamente vitale. Ma non basta, egregi colleghi, a tener viva la Università, che sia forte in noi la cura personale dei nostri individuali insegnamenti. Bisogna, inoltre, che in ciascun di noi sia potente la coscienza dell’interesse collettivo di questo nostro ordinamento di studi. Confessiamolo pure: per rispetto a cotesto interesse collettivo la nostra incuria è assai grande.
Non c’è, per esempio, sproposito che non ci sia occorso di sentire a ripetere per rispetto alla libertà dell’insegnamento, che forma l’argomento di questo mio discorso. In una parte non piccola del pubblico s’è formata l’opinione, che essa voglia dire facoltà d’insegnare, o di non insegnare ad libitum. Ebbene io, che credo oramai di trovarmi, in fatto d’idee politiche, alla estrema ala sinistra fra tutti gl’insegnanti, io non mi rifiuterei di accordare al ministro dell’Istruzione maggiori poteri d’inchiesta e di vigilanza, perché si venga una buona volta a capo di sapere, dove e quanti sono i professori inadempienti.
Alla prova dei fatti si vedrebbe, che furono e sono pochissimi. Né in tale facoltà d’inchiesta deferita al ministro, che è l’amministratore delle cose scolastiche e nessuno può temere si assuma la parte di direttore della scienza e di pedagogo della nazione, io vedrei alcun pericolo a quella libertà scientifica, della quale non intendo di fare qui l’apologia, ma di addurre la dichiarazione. Occorre forse un grande esercizio di logica per intendere, che la libertà del dire non può consistere nella facoltà del non dire?