La dottrina di Socrate, I e VII

Antonio Labriola (1871)


Fonte: Opere complete a cura di L. Pane, II, Milano, 1961, pp. 29-46; 102-113.

Trascritto da: Leonardo Maria Battisti, luglio 2019.


I. LA PERSONALITÀ STORICA DI SOCRATE

1. Socrate e gli Ateniesi

L'anno 1º dell’Olimpiade 95ª nel mese Targelione (maggio 399 a. C.) moriva nel desmoterio ateniese Socrate figlio di Sofronisco, condannato a bere la cicuta, qual reo di violata religione e corruttore della gioventù. Gl’intimi di lui, che rimaneano privi dell’uomo più prudente e più giusto fra quanti fossero a quel tempo, avevano invano tentato di sottrarlo a così trista fine, offrendosi dapprima mallevadori di una multa di trenta mine, e cercando, poi che la sentenza era stata pronunziata, procacciargli con la fuga albergo e riposo in più sicura stanza. Socrate, che a mala pena s’era indotto ad offrire la multa, rigettò recisamente il consiglio della fuga; e rimase tranquillo in carcere fino al giorno della morte, che egli incontrò con religiosa rassegnazione. La divinità gli vietava di fare altrimenti! Egli era convinto che fuggire le conseguenze del processo era come violare la legge, la cui santità dee rimanere inalterata, anche quando gl’interpreti di essa siano ingiusti e parziali. La sua coscienza non ammetteva incertezza o titubanza fra una moltitudine di beni possibili, riposando su la infallibilità del giudizio morale, il cui fondamento costante è la retta cognizione. Socrate era al servigio della divinità, e la coscienza della missione affidatagli era in lui tanto viva e potente, che, ove l’avesse lasciata inadempita, egli avrebbe stimato di commettere un’azione riprovevole ed irreligiosa.

Era quello un tempo di restaurazione politica, e gli Ateniesi, che dal fastigio della gloria e della potenza, per una serie d’errori e d’ingiustizie, erano caduti nel più basso fondo d’ogni umiliazione, scacciati i trenta tiranni, e ristabilita la forma popolare, intendevano a tutt’uomo a purgare la città di tutti quelli elementi, che per un verso o per un altro avessero corrotto o snervato, o reso inoperoso e svogliato il popolo. E quest’opera fu intrapresa con moderazione, generosità e costanza. La vendetta, lo spirito di parte, le ambizioni e gl’interessi personali offesi non vennero punto a regolare la condotta dei restitutori della libertà, che, intesi a ristabilire la costituzione fondamentale dello Stato, dettero pruova di quanto fossero valse le recenti sventure a mitigare lo spirito violento della democrazia ateniese. L’arcontato di Euclide coronò gli sforzi della restaurazione, e fece per poco sperare che i tempi di Cimone e di Pericle non fossero del tutto finiti. Ma quest’opera di civile rinnovamento, per quanto fosse stata compiuta con intenzioni umane e disinteressate, non riuscì a ricomporre in perfetta armonia gli spiriti già travagliati da profonde collisioni, perché l’apparente conciliazione non avea di che nudrire gli animi già stanchi e dimentichi delle antiche virtù. La religione tradizionale era stata violentemente scossa nei tempi della sfrenata libertà democratica, e tutto avea cospirato a smuoverla dalle sue fondamenta. Le gravi sventure sofferte aveano favorito due opposte tendenze: dispregio della religione tradizionale in alcuni, superstizione eccessiva negli altri, stimando quelli che l’insuccesso nelle imprese guerresche avesse sbugiardato gli dei, mentre questi, al triste spettacolo della patria in decadenza, ed alla perdita del sereno possesso delle tradizionali e virili virtù dei padri, non sapeano cercare altrove un riparo, che in un abbandono angoscioso nelle braccia delle divinità. La mania dei processi politici, frenata per poco dal bisogno di calma e tranquillità che la restaurazione avea indotto negli animi, si fece nuovamente imperiosa; e quattro anni appena erano trascorsi dal ristabilimento della libertà, quando la democrazia fece di Socrate la vittima innocente di un esagerato principio di conservazione politica.

Questo doloroso spettacolo di una rinnovata democrazia, che si macchia del delitto di una ingiusta condanna col toglier la vita ad un uomo di virtù eccezionali, che avea consacrato sé medesimo al miglioramento dei suoi concittadini, è stato argomento di somma maraviglia sì negli antichi tempi come nei moderni; e questa maraviglia ha fatto sì, che le circostanze tutte che prepararono ed accompagnarono quella tragica catastrofe fossero studiate con indagini severe e minuziose. Il risultato di queste ricerche è stato, non certo la giustificazione, ma bene la spiegazione della condotta degli Ateniesi verso Socrate; e quel processo e quella condanna non possono ora più considerarsi come opera del fanatismo religioso, o del furore partigiano, o degli artifizî di certi uomini invidiosi, perché il loro fondamento era riposto nell’inevitabile contrasto fra i principî conservativi della democrazia ateniese, e la ricerca poggiata sul criterio del convincimento personale, della quale Socrate s’era fatto l’apostolo. Questa maniera di considerare la posizione di Socrate in Atene non importa punto, che deva sacrificarsi la testimonianza dei discepoli di Socrate, su la purezza delle intenzioni, e sullo spirito profondamente retto e religioso del loro maestro, all’esigenza di una giustificazione assoluta del popolo ateniese; ma vale certamente a farci valutare più intimamente il valore storico della persona di Socrate, ed agevola la intelligenza netta della sua dottrina. L’esame di questa quistione non può entrare nei limiti del nostro lavoro; ed a noi basterà di notare i tratti più notevoli della personalità di Socrate, solo perché apparisca necessario il contrasto con la democrazia.

Socrate non avea niente di comune coi partiti che agitavano Atene, e le sue personali relazioni non aveano niente a fare con le varie tendenze politiche dei contemporanei. Sebbene Carmide e Crizia fossero stati suoi uditori, e Teramane e Caricle suoi amici, egli non era stato per ciò fautore del loro dispotismo, anzi Crizia, ad onta dell’antica amicizia, gli avea proibito di tener discorsi. Cherefonte suo amico, e s’è lecita la parola, suo apostolo, tornava appunto dall’esilio coi fautori del governo popolare, poco prima che Socrate fosse condannato; e, con lui, Lisia, che, se non discepolo o amico, secondo una probabile tradizione, era nel numero degli ammiratori di Socrate. Alcibiade infine, ch’era continua minaccia e spauracchio dei trenta, e che allora i reduci democratici cercavano ricondurre in Atene quando l’oro di Sparta il fece spegnere, era stato il più intimo dei suoi uditori; quello che, per la sua naturale leggerezza e mutabilità, avea più d’ogni altro sentito la potenza educatrice del carattere di Socrate. Tutto quello che formava la vita, il benessere e la felicità dell’Ateniese, il continuo agitarsi per le pubbliche faccende, e la brama di divenire influenti nelle adunanze con l’arte della parola, non occupava l’animo di Socrate, che uso ad appagarsi dell’intimo compiacimento della propria coscienza, non volle mai scendere su l’arena delle dispute politiche.

Ai contemporanei egli appariva un uomo strano e singolare, ed a ragione uno storico ha detto, ch’egli non apparteneva a nessuna classe di cittadini. Abbandonata in fatti ben per tempo l’arte paterna della scoltura, non intese mai più ad apprenderne un’altra, che lo fornisse dei mezzi necessarî per la sussistenza. Come cittadino, non manca di adempire i doveri di pritane, anzi sfida il furore popolare, e sa volere e far volere il giusto; ma egli non cerca per ciò di acquistare influenza col suo ingegno, anzi pare che distorni i cittadini dalla vita pubblica, col richiamarli alla meditazione, e si attira così la taccia di fuorviare i giovani. A Potidea, a Delio, ad Amfipoli combatte da valoroso soldato, e fa nascere in tutti una straordinaria ammirazione per la costanza con la quale soffre ogni sorta di privazioni e d’intemperie; ma in tutto ciò non fa che adempiere il dovere d’onesto cittadino, e, ricusando la corona che il suo coraggio gli avea fatta meritare, la cede ad Alcibiade, cui avea salvata la vita. Un bel giorno, quest’uomo singolare muoverà dei dubbî sul concetto che gli altri si fanno comunemente del coraggio, e metterà in imbarazzo anche coloro, che, fatte avendo delle campagne, e riportate delle vittorie, non sanno dire che cosa sia il coraggio. La sua estrema povertà lo costringe a vivere dei doni spontanei degli amici; ma, mentr’egli forse rigetta con superbia l’invito di principi stranieri che lo invitano alla loro corte, sdegna il nome di maestro stipendiato, anzi non vuole essere tenuto per maestro. E come poteva essere maestro, — e di che? Egli sapeva solo di non saper niente; e per questa ragione appunto l’oracolo di Delfo lo avea dichiarato il più sapiente fra gli uomini. Il suo sapere appariva nella forma di un giudizio sospensivo, di una bella domanda — τὶ ἐστι; che smascherava il ciarlatano, imbarazzava il presuntuoso, ed irritava il sofista di mestiere, e che spesso, col suscitare il bisogno dell’esame, non menava ad un risultato positivo.

I settant’anni della vita di Socrate passarono fra l’epoca più fortunata e gloriosa della repubblica ateniese, ed il periodo infausto della irreparabile decadenza. Nato dieci anni dopo la battaglia di Platea, nella prima sua età Temistocle moriva in esilio, e Cimone, reduce dall’esilio, raccoglieva gloria con le imprese della guerra e con le proficue arti della pace. Nella età virile di Socrate, Pericle fu a capo della Stato, moderatore e sovrano dell’opinione, con quella grandezza e nobiltà di propositi, che gli facea vedere nello splendore della patria la soddisfazione della propria ambizione, ch’era intesa ad armonizzare le cure dello Stato ed il godimento dell’arte. La guerra del Peloponneso, la spedizione di Sicilia, la caduta della libertà, l’oligarchia, i trenta, il ritorno del partito popolare, — tutta questa svariata e rapida vicenda passò sotto gli occhi di Socrate, che, stando da mane a sera nell’agorà e in su le pubbliche vie, e frequentando la bottega dell’armiere e dello scultore, del pari che la casa della meretrice e degli ottimati, con le sue aride domande, col suo perpetuo γνῶθι σαυτόν e τὶ ἐστι; parea ignorasse le glorie e le sventure della patria.

E pur nondimeno Socrate era un prodotto naturale della coltura e della vita ateniese; e se il suo carattere, e le sue convinzioni etiche e religiose ci fanno apparire la sua persona come molto staccata e distinta dal fondo comune della vita dei suoi contemporanei, deve pur dirsi, che la facilità con la quale egli seppe formarsi una cerchia d’amici devoti ch’erangli stretti da religiosa pietà, e da arrendevolezza senza pari, non può avere la sua ragione soltanto nel prestigio straordinario ch’egli esercitava, ma eziandio, e forse principalmente, nella natura dei tempi. Una società nuova, più angusta e al tempo stesso più intima e compatta, si andava allora formando nel seno della grande società; e spezzato il filo tradizionale della patria educazione, e varcati i limiti dell’ethos popolare, si preparava al raccoglimento, mentre gli elementi dell’antica vita entravano in lotta fra loro, per poi alterarsi, e dissolversi. Socrate non è il cosciente iniziatore di questo movimento, né il solo; anzi, come è sempre avvenuto in tutte le epoche di rinnovamento o di riforma morale e religiosa, egli, che con le sue esigenze ricercative si allontanava tanto dall’etica puramente tradizionale ed abituale dei suoi concittadini, fu così poco inclinato a credersi un riformatore, che considerò come preordinato dalla divinità, ed inteso dalla sapienza dei legislatori, quello che era risultato della sua personale investigazione. Egli rimase quindi greco, anzi ateniese tutta la vita, e con la stessa morte confermò la costanza ed armonia della sua coscienza. Il Socrate umanitario dei filosofi del decimottavo secolo è un prodotto di fantasia, che non ha fondamento nella storia; e le opinioni di certi eruditi del nostro secolo, che hanno fatto di Socrate un rivoluzionario, non meritano altro nome, che quello di dottrinali aberrazioni.

Intendere come Socrate, che fu vittima di una accusa che facea di lui un innovatore della religione e della pubblica morale, non fosse stato né un rivoluzionario né un ozioso ricercatore, ed evitare al tempo stesso l’errore di coloro che ne fanno il rinnovatore di non so che antica morale, senza pensare che una morale non potea esservi prima della ricerca sofistica e socratica, è forse tanto difficile per la critica moderna, per quanto era ardua cosa pei contemporanei di dischiudere la deforme statua del Sileno, per trovarvi dentro quella vera e viva immagine, che rendeva perplesso l’incostante e volubile Alcibiade.

2. Educazione e sviluppo della coscienza di Socrate.

Imparare a leggere, e recitare poi a memoria le sentenze degli antichi poeti; assuefarsi alla modulazione ed al canto, ch’era destinato a formare nell’animo il senso dell’armonia; esercitare il corpo con la ginnastica, per sviluppare con la regolarità dei movimenti l’accordo dell’esterno con l’interno, ed il senso dell’euritmia; in questi tre capi consisteva l’educazione dell’Ateniese, Solone, istitutore di questo sistema di educazione, ne aveva affidata la vigilanza al venerando consesso dell’Areopago, assicurando in tal guisa alla coscienza ateniese l’inviolato possesso di una preziosa eredità morale. Gli Ateniesi, tuttoché rimutassero più volte le forme politiche della loro costituzione, riguardarono sempre con pietosa venerazione gli ordini di Solone; e gli stessi restauratori della libertà, dopo la cacciata dei trenta, li tennero qual sicuro fondamento della vita civile. La riforma di Efialte, col porre dei limiti all’autorità dell’Areopago, lo aveva privato della vigilanza su la educazione, entrando in quella vece i Sofronisti a funzionare da moderatori di quegli antichi istituti. La pochezza dei mezzi per la diffusione letteraria, e la vita ristretta in più angusti confini, rendeano allora necessaria la concentrazione degli elementi educativi che la coltura e la tradizione poteano offrire: sicché lo sviluppo dell’individuo, favorito dalla limitata istruzione, era di una grande svariatezza e libertà, e tanto più intenso, per quanto meno sussidiato da una larga preparazione di scuola.

I primi anni della vita di Socrate precedettero la riforma di Efialte, e non è a dubitarsi ch’egli s’ebbe l’istruzione legalmente stabilita sin dal tempo di Solone. Senofonte, e qualche reminiscenza socratica presso Platone fanno fede della educazione affatto ateniese di Socrate; e fra gl’indizi non è di poco valore quello che può desumersi dalle frequenti citazioni di Omero, di Esiodo, di Teognide e di Simonide, che, secondo la tendenza invalsa a quell’epoca, servivano di occasione a delle analisi morali dei precetti che potessero esser contenuti in questo o in quel luogo. Da questa prima istruzione (che se non è esplicitamente attestata in persona del giovanetto Socrate, non c’è dubbio che abbia avuto luogo per lui come per ogni altro Ateniese), fino al momento che, informato già a solide convinzioni, egli appare su la scena pubblica, come autore di una dottrina determinata e precisa nel suo carattere e nel suo valore, come siasi sviluppato, e quali siano state le diverse fasi del suo pensiero, e le sue lotte coi contemporanei e con sé stesso, la critica storica non è più in grado di saperlo. La leggenda in vero ha conservato finanche ì nomi dei maestri di Socrate, e gl’indizi della loro influenza; ma alla luce della critica tutte queste varie tradizioni sono apparse vuote di certezza, avendo esse per fondamento, o certi presupposti dottrinali, o delle combinazioni equivoche di dati storici. E del pari non si ha ragioni sufficienti, per riconoscere in certe altre tradizioni la lontana ricordanza delle lotte sostenute da Socrate, per raggiungere quello stato di perfetta costanza, continenza ed equanimità, che tanto ammiravano in lui i testimoni contemporanei: perché quelle tradizioni, o sono del tutto inventate, o furono escogitate con l’intento di supplire con la congettura il difetto della storia.

Ed in fatti, la vita d’un Ateniese di mediocre stato, che privo d’ogni arte e d’ogni pubblico ufficio visse nelle più grandi strettezze e quasi povero, non potea svilupparsi dapprima che nella oscurità: e quando egli ebbe raggiunta con la maturità degli anni una convinzione chiara ed intensa della sua missione, l’antitesi dichiarata in cui si pose contro tutte le tendenze pratiche e teoretiche dei contemporanei valse tanto ad attirargli amici ed inimici, che l’importanza dell’uomo adulto dovette far perdere di vista la storia del suo sviluppo. Quello ch’egli ha potuto pensare prima di fermare definitivamente l’orizzonte della sua coscienza, e quali impulsi naturali dovessero esser riposti nel suo temperamento e nel suo carattere per determinarlo ad abbandonare ogni pratica occupazione, e darsi interamente ad esaminare l’animo e le morali intenzioni di quanti gli venissero innanzi, e come poi continuasse con religiosa convinzione l’opera intrapresa, certo di non poterla intermettere senza venir meno alla voce della divinità che l’avea scelto e chiamato; tutte queste domande non possono altrimenti toccare una soddisfacente risposta, che per via di una congettura, forse psicologicamente verosimile, ma non per questo equivalente ad una notizia storica. Cercheremo innanzi tutto di mettere in piena luce alcuni dati molto importanti.

Poco tempo dopo l’impresa contro Delio, quando Socrate toccava il 45º anno dell’età sua (424 a. C.), Aristofane fece di lui su la scena il rappresentante tipico di tutta la classe dei Sofisti e dei filosofi naturali; e col suo squisito umore rilevò vivamente il contrasto fra l’antica virtù, e il nuovo principio della ricerca individuale. Non è qui il luogo di esporre i motivi estetici e politici dell’opera singolare di Aristofane, né di tratteggiarne i caratteri, i contrasti, le peripezie e la catastrofe. A noi importa solo di notare, che a quel tempo Socrate era di già un nome tanto popolare in Atene, che la satira di lui potea offrir materia alla commedia, innanzi ad un pubblico uso a vedere sulla scena le persone più eminenti della repubblica. Le Nuvole di Aristofane, se non sono un documento storico su la cui autorità devasi accettare o rigettare come genuino questo o quel principio della dottrina socratica, perché in esse è troppo evidente l’erroneo concetto che Aristofane s’era fatto di Socrate il μεριμνοφροντιστής attribuendogli tutte le opinioni dei filosofi naturali, e tutte le più strane conseguenze che la satira avesse potuto desumere dalla riflessione sofistica, sono bene una testimonianza storica dell’influenza che Socrate esercitava già in quel tempo, e del valore reale della sua persona nella società ateniese. Il suo convivere coi giovani, il suo perpetuo ragionare, la sua preoccupazione logica, e fino la relazione con Cherefonte, vi appariscono come cose già note a tutti; e tali, che, senza essere caratterizzate con fedeltà storica, si prestavano a rappresentare vivamente su la scena una personalità già stata argomento di molti discorsi nel pubblico. Quanto lavoro e quante lotte non ha dovuto sostenere Socrate, per raggiungere una forma di coscienza così pronunziata; e quanti motivi non han dovuto esercitare la loro azione sul suo animo, dal momento che abbandonata la bottega del padre cominciò egli a vivere nella sua beata e laboriosa ἀπραγμοσύνῃ?

I testimoni autentici ed immediati della dottrina socratica non ci forniscono di notizie sufficienti, per poter noi con l’aiuto delle stesse, se non rifare minutamente, almeno adombrare in parte le successive fasi che ha dovuto percorrere la coscienza di Socrate, prima di presentare alla considerazione degli Ateniesi dei caratteri così notevolmente spiccati, che l’occuparsi di lui fosse come toccare un argomento che tenea desta l’opinione generale. Senofonte e Platone erano appena nei primi anni della loro vita, quando le Nuvole di Aristofane furono rappresentate; e questa sola circostanza dovrebb’essere ragione sufficiente, perché noi, senza più interrogarli su lo sviluppo della coscienza del loro maestro, ci appagassimo di quanto hanno raccolto dei detti e degli atti di Socrate già maturo e dimentico delle lotte della sua prima gioventù; oltre di che la natura stessa dei loro scritti, e l’epoca in cui furono redatti, doveano di necessità indurli a mettere sotto gli occhi dei lettori l’immagine completa e perfetta del loro eroe, la cui incontestabile vittoria su le viete opinioni professate dal comune degli uomini e su i riluttanti elementi della coltura ateniese, non che essere invalidata, era stata rifermata e consacrata da una morte, per quanto ingiusta, altrettanto gloriosa.

La data della rappresentazione delle Nuvole d’Aristofane, e la maniera come Senofonte e Platone ci rappresentano il loro maestro già nel pieno possesso d’intime convinzioni, che avevano acquistato la forza e la potenza d’istinti naturali, sono due fatti dalla cui combinazione critica dee risultare evidente l’opinione di coloro i quali affermano, che Socrate avea nei primi anni della guerra del Peloponneso già in parte fissato l’orizzonte della sua coscienza. E a volere esprimere nella forma più semplice la natura ed i limiti di quell’attività scientifica, basterà dire su la testimonianza di Aristotele, che egli fu il primo che si rivolgesse a ricercare la natura delle relazioni etiche, seguendo il filo logico della epagoge e della definizione. Tale era la sua occupazione, quando in mezzo ad una schiera di giovani d’ogni classe sociale, e conversando con quante persone gli venissero innanzi, metteva in mostra nell’età sua provetta i pensieri maturati nell’intimo dell’animo suo; e mosso da un invincibile bisogno di richiamare i suoi interlocutori ai motivi intrinseci della convinzione e della certezza, rigettava i pregiudizi, mediante il concetto rettificava l’opinione, e, con l’invogliare alla continenza ed all’esercizio cosciente di ogni virtù, affermava di adempiere una missione affidatagli dalla divinità, la cui voce gli si era fatta palese nella coscienza fin dai suoi primi anni, finché l’oracolo di Delfo non venne a confermarlo nel suo proposito. Tutta questa ricchezza di pratiche attitudini, e di capacità teoretica, che non è certamente espressa dalla caratteristica troppo astratta di Aristotele, è esposta con plastica evidenza nel ritratto senofonteo, e in tutti quei luoghi di Platone, che portano l’evidente impronta di una storica reminiscenza.

Ma, avendo escluse come infondate tutte le tradizioni conservate dagli scrittori di un’epoca assai posteriore, e sforniti come siamo dei ragguagli dei testimoni autentici, dovremo forse deciderci a negare ogni connessione fra l’attività scientifica di Socrate, e tutti i tentativi fatti prima di lui e durante la sua vita, per escogitare dei principi atti a spiegare la natura delle cose, e l’ordine intrinseco dell’universo? Che influenza insomma hanno esercitato sul suo spirito le opinioni delle varie scuole filosofiche dei due punti estremi del mondo greco, le colonie dell’Asia e dell’Italia? E non si è forse ripetutamente insistito su la derivazione di alcune convinzioni di Socrate dal principio della filosofia di Anassagora; e la più o meno grande somiglianza, che s’è voluta scorgere fra lui ed i Sofisti, non s’è cercato più volte spiegarla con la diretta influenza della costoro propaganda? La esposizione critica di tante svariate opinioni non può punto riguardarci in questo momento: e se ci siamo fermati alquanto su questa quistione, è stato solo nell’intento di chiarire nettamente la posizione di Socrate in Atene, e nello sviluppo della coltura greca; ed eziandio per giustificare il divario che passa fra la nostra esposizione della dottrina socratica ed alcuni dei lavori che hanno preso a trattare dello stesso argomento. Esporremo dunque brevemente l’opinione che ci siamo formata con lo studio delle fonti.

La prima elementare istruzione, tenuta per legalmente obbligatoria nella repubblica ateniese, non è sufficiente a spiegare l’attitudine filosofica e la efficacia pratica del carattere di Socrate; perché, sebbene rimanga dubbio fino a che punto egli abbia potuto valersi della tradizione letteraria come mezzo di coltura, il carattere delle sue vedute, e l’influenza che esercitarono, mostrano chiaramente quanto quelle fossero radicate nei bisogni e nella coltura del tempo. Sotto questo riguardo, tutte le molteplici tendenze ricercative delle varie scuole filosofiche hanno potuto esercitare una influenza più o meno diretta su lo sviluppo della sua coscienza, e disporlo a quel bisogno incessante di esaminare con certezza scientifica i fenomeni interni della vita etica, che la profondità del suo carattere, e la perfezione del suo sentimento morale gli venivano offrendo alla riflessione con insolita evidenza. E si è anche in grado di arguire dai Memorabili di Senofonte, e dall’Apologia di Platone, di che natura fosse quella influenza, se si prende per poco ad esaminare con quanta cura nei primi abbia l’autore cercato di tratteggiare l’antitesi che correa fra Socrate e le opinioni di diverse classi di cittadini e di addottrinati, e come, nell’altra, Platone, nell’intento di appressarsi quanto più poteva alla verità storica, abbia solo leggermente idealizzato lo svolgimento della coscienza socratica in rapporto coi vari elementi politici ed educativi del tempo.

All’epoca di Pericle, e molto più dopo la sua morte, Atene era divenuta il centro di tutta la coltura ellenica, e quanto s’era prodotto di poesia, di storia, di filosofia, e d’invenzioni artistiche e tecniche in tutti i punti del mondo greco avea trovata facile accoglienza in quella città, cui la prosperità materiale del popolo e i larghi possessi aveano sotto tutti i riguardi disposta a essere il pritaneo della civiltà. Filosofi e ciarlatani, oratori ed arruffapopoli, poeti e guastamestieri, maestri e novatori della musica, della mimica, del ballo, della educazione, dell’architettura, della tattica e della strategica venivano a trattenersi ed a far propaganda e scuola in Atene, ove la mobilità del carattere congiunta ad un nobile patriottismo, e ravvivata dalla ricordanza delle recenti glorie, avea così slargati e resi incerti i confini dell’opinione, che l’individuo potea a sua posta allontanarsi dalle credenze e dalle convinzioni comuni e tradizionali. Il contrasto fra le nuove tendenze, e la vita antica dette ben presto luogo ad una profonda collisione nel seno della società ateniese; e questa tanto più apparve grave e pericolosa, perché andò per molti lati congiunta al disfacimento della democrazia e della pubblica morale. L’immagine completa di questo contrasto può desumersi dal confronto della satira di Aristofane, con l’addolorato e sdegnoso racconto di Tucidide.

Ora è in quest’epoca agitata da tanti interessi, e ricca di tanto bisogno di ricerca, che Socrate acquistò la coscienza della sua missione educativa. Che egli abbia potuto raccogliere qua e là qualche nozione dei principii delle varie scuole filosofiche, apparisce chiaro da Senofonte, che, sebbene voglia mostrarcelo in opposizione assoluta coi ricercatori delle cose naturali, pure lo fa apparire informato delle loro vedute. Ma, dall’ammettere questo come vero, all’accettare come storiche tutte le discettazioni che Platone immagina avvenute fra Socrate e i diversi rappresentanti delle scuole filosofiche ci corre molto; e a noi pare, che la persistenza con la quale certi critici tornano continuamente a mettere in una diretta relazione Socrate coi filosofi Ionici ed Eleatici, ed a dedurne le convinzioni dal principio di Anassagora, non merita di essere nuovamente criticata. Il ritratto ideale di Socrate presso Platone può fino ad un certo punto ravvivare e rendere evidente il contrasto dell’epoca sofistica con l’antica coltura, per quanto il misticismo platonico il consente; ma non è per ciò storicamente fedele.

Le condizioni della coltura ateniese, ed il risultato esclusivo cui pervenne Socrate con le sue ricerche costituiscono un’antitesi così pronunziata, che rimane sempre vero quello che si è detto ripetutamente di lui, esser egli stato maestro a sé medesimo. E che questa opinione non deva condurci a farne un uomo dotato di qualità mistiche e profetiche, parrà chiaro dall’osservazione che aggiungiamo. L’oggetto e la natura della ricerca socratica sono affatto nuovi, ed ignoti ai filosofi della Ionia e d’Italia, checché possa andarsi a rintracciare di elementi etici e logici nei loro principî. Questo nuovo interesse e questa nuova maniera di filosofare non apparisce in Socrate come qualcosa di teoreticamente intenzionale, ma deriva intimamente dai suoi bisogni etici e religiosi, ed è il risultato di un esame che egli ha esercitato su sé medesimo, fino al punto di obbiettivare in una intuizione etica dell’universo le esigenze dell’animo suo. Questo lavoro egli ha dovuto compierlo reagendo continuatamente contro tutte le tendenze opposte e divergenti dei contemporanei; e quanto fossero esatte le sue conoscenze intorno ai principi filosofici di quelle scuole, che direttamente o indirettamente aveano influito a modificare l’etica della società ateniese, noi non siamo più in grado di saperlo. Volerne quindi dedurre i principî dai predecessori, con non so quale idea schematica di una necessaria derivazione dei sistemi filosofici, è sconoscere in lui l’elemento più originale ch’egli s’avesse, la sua originale personalità, e dimenticare al tempo stesso, che in un uomo straordinario come Socrate gli elementi che han potuto servire a svilupparlo doveano trovarsi in una grande incongruenza col risultato stesso dello sviluppo. Con ciò noi non neghiamo, che Socrate sia appunto l’uomo in cui convergono per la prima volta le varie fila della coltura greca, per raggrupparsi insieme e formare una più complicata e più mirabile tela; ma come abbiamo posto in chiaro, che le fonti non ci autorizzano a metterlo in relazione coi suoi predecessori per la via di una tradizione dottrinale, così vogliamo non si perda mai di vista, che la sua filosofia, o meglio quello che noi troviamo di filosofico in lui, è stato, non il risultato di una indagine più o meno teoretica e dottrinale, ma un bisogno personale, che si è fatto dottrina.

3. Il carattere di Socrate.

Le pagine tutte di Senofonte e Platone sono una perpetua testimonianza dei sentimenti di riverenza e di ammirazione, che Socrate era capace di suscitare nell’animo di quanti l’avessero avvicinato; e l’interna vitalità, ond’era animato ogni suo atto ed ogni sua parola, è improntata in esse come in indelebile monumento.

Un organismo di perfetta costituzione, assuefatto ad ogni sorta di sofferenze e d’intemperie, gli aveva reso agevole l’esercizio della più rigorosa temperanza e sobrietà. La sua maniera di vivere era così, a lungo andare, divenuta la espressione costante di una volontà, che coscientemente governava e indirizzava gl’istinti naturali al fine della conservazione e del benessere. Il lungo abito, mercé il quale egli era divenuto attento e minuzioso osservatore di quanto avvenisse nell’animo suo, col rendere sempre più perfetto il giudizio morale, con avergli assuefatto l’intelletto all’esercizio dell’arte ricercativa, lo avea al tempo stesso condotto ad una certa astrazione dal mondo esterno, che per un Greco, e molto più per un Ateniese, era cosa tutt’altro che comune. Ma questa non può dirsi ascesi, perché non tenea ad un ordine speciale di convinzioni o di pratiche religiose né menava alla formazione di una setta o di una associazione mistica; rimanendo sempre in Socrate vivissima la conoscenza di tutti i doveri della vita pubblica e privata, quali erano generalmente accettati e riconosciuti dal comune degli Ateniesi. Rassegnandosi alla voce della coscienza, e scovrendo così il valore vero dell’uomo nell’intimità dell’animo, egli non cercava di compiere un atto di astrazione teoretica, ne andava all’esigenza di una perfezione assoluta. Il suo bisogno di consapevolezza non lo menò mai alla negazione delle forme concrete della vita etica; e la quiete interna dell’animo, che in lui risultava dalle abitudini temperate e dal continuo esame di sé medesimo, fu ricca degl’impulsi pratici più vivi e più efficaci. Socrate quindi, tuttoché fosse estraneo ad ogni pratica occupazione, e scevro di ambizione, visse continuamente occupato nell’esaminare l’animo e le intenzioni dei suoi amici e conoscenti; esercitando l’arte difficile, e fino allora ignorata, del cosciente educatore. Tutti questi tratti caratteristici dell’animo suo si conciliavano in una perfetta armonia, e facevano di lui un conoscitore perfetto degli uomini e della vita. Non estraneo al godimento di nessuno fra i piaceri, eccitava stupore per la moderazione, e per la presenza d’animo che non l’abbandonavano mai; scontento della falsa scienza e della presunzione dei suoi interlocutori, non prendeva mai il tono dell’esortatore, ma condiva di attica urbanità fino il discorso che fosse diretto a smascherare l’altrui ignoranza; animato infine dal religioso sentimento di una divina vocazione, non perdette mai di vista le reali condizioni della vita esterna, e lavorò incessantemente a suscitare in quanti l’udivano il bisogno di una scrupolosa consapevolezza dei propri doveri e delle proprie capacità. In lui insomma ha ad ammirarsi uno dei più perfetti esemplari di quella plastica armonia, che costituisce l’ideale dell’arte antica; e per questo i suoi seguaci lo lodavano, come l’uomo più tranquillo e beato fra quanti mai fossero stati al mondo.

OSSERVAZIONE LE FONTI DELLA DOTTRINA DI SOCRATE

Senofonte — Platone — Aristotele

Senza entrare in indagini speciali, intendiamo di esporre qui brevissimamente i criteri che abbiamo seguiti, nell’usare della testimonianza di Senofonte, Platone, ed Aristotele.

1. Non attribuiamo a Socrate nessun principio, massima, o opinione che non sia, o esplicitamente riferita, o indirettamente accennata da Senofonte.

I critici, che hanno rigettata la testimonianza di Senofonte, sono incorsi nel grave errore di non avvedersi, che, in tal guisa, non solo la interpretazione della dottrina socratica diviene impossibile, ma che, tolta di mezzo la posizione pratica del Socrate senofonteo, tutta la storia della filosofia greca non può più intendersi. Non bisogna quindi ammettere, né che Senofonte fosse stato incapace d’intendere Socrate (Schleiermacher), né che avesse voluto restringere nelle angustie del suo personale criterio le vedute più larghe del maestro (Brandis). Le accuse mosse contro Senofonte, per quel che concerne la lealtà del carattere, e la sincerità dello scrittore (Niebuhr, Forchhammer) sono infondate. I Memorabili sono scritti senza riserve, e senza restrizioni; e sono un documento insigne della pietà e riverenza dello scrittore verso il maestro. E in essi solamente deve cercarsi la dottrina di Socrate (Hegel, Rötscher, Hermann, Zeller, Küner, Breitenbach, Hurndall ecc.).

2. Escludiamo la testimonianza di Platone, tutte le volte che importi negazione o alterazione dei principi e del carattere del Socrate senofonteo, o presenti un colorito, che rivela la intrusione della teoria delle idee e dello schema della psicologia platonica. Ammettiamo contro gl’ipercritici (Ast-Schaarschmidt) l’autenticità dell’Apologia platonica, e del Critone; ed in gran parte ne riconosciamo il valore storico (Zeller, Steinhart ecc.). In generale, consideriamo come equivalenti la testimonianza di Senofonte e quella di Platone, quando si tratti solo di determinare la movenza dialettica del dialogo socratico (Hermann, Strümpell), e i motivi di reazione contro le opinioni sofistiche (Strümpell); ma non ammettiamo, che il dialogo platonico rappresenti davvero l’orizzonte storico nel quale Socrate s’aggirava (Alberti), perché questa opinione ci forzerebbe a ritenere, che Socrate fosse stato fornito di una coltura filosofica, che Senofonte non gli attribuisce.

3. Ci valiamo della testimonianza di Aristotele solo in quanto è limitativa, ma non sappiamo ammetterla come fonte originaria (Brandis), perché essa non è che una derivazione di Senofonte e Platone.

4. Essendo lo scopo dei Memorabili apologetico (Cobet) e non dottrinale, la testimonianza di Senofonte dev’essere rimisurata ad una stregua più larga: e questa ci vien fornita dalla storia generale della coltura greca (Strümpell, Nägelsbach, Hermann, Grote ecc.).

VII. LE FORME CONCRETE DELLA VITA ETICA

Socrate non fu né il capo di una setta, né il fondatore d’una scuola. Vissuto in un secolo di larga produttività artistica e pratica, ed in mezzo ai più svariati elementi di coltura, conservò sempre la fisonomia individuale e precisa di un perfetto ateniese; senza allontanarsi punto da quella maniera di vivere, che, secondo l’opinione dei suoi concittadini, costituiva il pregio ed il buon nome d’una persona lodevole in tutte le private e pubbliche relazioni. Egli non fu dunque quello che comunemente suole intendersi per un riformatore: un uomo, che in virtù d’un individuale convincimento, o in nome d’una divina vocazione, tenda a sconvolgere l’ordine costituito della società, per riformare a sua posta le istituzioni, le leggi e i costumi. Le sue solide convinzioni lo aveano troppo predisposto a riconoscere nell’ordinamento sociale la prudenza e saggezza, che aveano informato l’animo dei legislatori, ed a guardare con animo tranquillo e rassegnato le conseguenze dell’umana corruzione, o, come avrebbe egli detto nel suo linguaggio, dell’umana ignoranza, perché potesse venirgli in mente di farsi riformatore e rinnovatore dei costumi. Oltre di che, la natura e l’indole stessa della coltura greca non ammetteva che l’individuale genialità si manifestasse in un immoderato tentativo di pratica riforma; perché mancava di quell’elemento arbitrario di trascendenza, che nelle religioni orientali, ed in gran parte nel Cristianesimo stesso, ha tanto favorito l’equilibrio fra la coscienza dell’individuo e la norma costante dell’etica sociale, esaltando troppo la sublimità del precetto o l’intensità del sentimento, a discapito della sostanzialità e costanza delle forme naturali della vita. La coltura greca era ancora animata dal giovanile abbandono al naturale impeto delle passioni, e dal misurato criterio della prudenza e del benessere; e, sebbene in Atene la coscienza riflessa avesse già cominciato a prevalere e ad assumere un carattere universale, astratto, e ricercativo, pure non avea mai perduto il colorito indigeno, spontaneo, e popolare. Il pensiero s’era svolto in tanta buona armonia con tutto il progresso della coltura, che Socrate, come abbiamo già visto, malgrado le profonde collisioni cui dette motivo, non s’avvide di quanto si discostasse dalle tradizionali convinzioni, e non volle mai essere riconosciuto né come maestro né come filosofo.

Da tutto quello che abbiamo detto innanzi apparisce chiaro come fosse impossibile che Socrate riuscisse a determinare obbiettivamente un complesso di verità scientifiche; e che i pochi pronunziati etici di lui, che la tradizione ci ha trasmessi, non costituiscono per sé stessi né un sistema, né uno schema di scienza morale. E questa posizione affatto relativa delle sue indagini mette più in evidenza come egli non si proponesse e non avesse coscienza di essere un riformatore; perché la natura delle sue convinzioni non scendeva deduttivamente da un presupposto teoretico ed esclusivo, ma stava in una pratica ed incessante relazione con tutti gli elementi svariati e concreti della vita morale. E, se noi cerchiamo di raccogliere e mettere insieme i diversi concetti, che Socrate avea delle varie forme o attività della vita, l’imagine complessiva, che si ottiene in fine, ha più l’aspetto plastico di un quadro che la natura di uno schema formale. Ma vorremo noi forse con questo giudizio rigettare come interamente falsa l’opinione che fa di Socrate un riformatore? E sarebbe forse questo il modo, come spiegare ed intendere il gran movimento ed il gran progresso che egli produsse in tutte le pratiche discipline? La nostra maniera di vedere non è così esclusiva, e noi abbiamo inteso solamente limitare il valore di una affermazione troppo incondizionata, e che non risponde alla natura ed al genuino carattere della coltura ellenica; e metteremo ora più in chiaro il nostro concetto.

Le diverse forme della vita privata e pubblica e le diverse sfere dell’attività umana non erano ancora a quel tempo divenute argomento d’indagini scientifiche, che ne fermassero l’origine, la natura ed il normale concetto in definizioni d’un valore intrinseco ed attinte alle costanti condizioni dei fatti. È a Socrate che tocca la lode di un primo tentativo per acquistare una coscienza precisa e determinata di tutte quelle svariate attività e di quei molteplici fini che costituiscono nel loro insieme la vita pratica. Non v’ha forma della vita, o relazione etica, che egli non abbia toccata nei suoi discorsi; nei quali sforzavasi, in virtù del suo istinto etico e logico, di chiarire e definire la famiglia ed i suoi elementi, la relazione dell’individuo verso lo Stato e verso la legge, le diverse funzioni della vita pubblica, l’esercizio delle arti e dei mestieri. In un tempo quando non s’avea pur sentore di quello che potess’essere l’economia privata e pubblica, la scienza del dritto, dello Stato, o dell’amministrazione e la tecnica delle arti, era naturale che l’esigenza di determinare i concetti pratici s’avvertisse solo dal punto di vista dell’utilità, e che si spiegasse unicamente nella sua immediata ed occasionale natura. Ed è così appunto che Socrate comincia a tentare una cosciente rettificazione dei concetti di quelle relazioni, che sono termini o forme dell’attività umana; e, prendendo egli le mosse dal bisogno di disporre l’individuo al cosciente riconoscimento della propria attitudine, finì per fissare e caratterizzare alcune differenze obbiettive. Ma, perché il criterio del giudizio non era obbiettivato scientificamente, la determinazione rimase sempre nei limiti già fissati dal linguaggio comune; e la stessa valutazione dell’importanza relativa delle diverse sfere della vita fu da lui in gran parte accettata dalla tradizione.

Ed è qui appunto che maggiormente apparisce lo stato rudimentale del Socratismo. Da un canto, l’impulso scientifico è evidente, e comincia tanto a precisarsi, che assume quasi la forma di uno schema logico; il quale, sebbene non sia presente alla coscienza obbiettivamente, pure è un presupposto in conformità del quale il filosofo si sente costretto a procedere: e, da un altro canto, tutta la ricchezza dell’immediato contenuto della coscienza etica, sul quale la ricerca si aggira, sta lì disgregata in tutto il suo particolarismo empirico innanzi all’animo del ricercatore, che riesce solo a subordinarlo all’angusto criterio di una formale definizione.

Delle due sfere che indicammo innanzi, quella del sapere e quella dell’ignoranza, la prima era troppo angusta e non ancora approfondita e studiata in tutti i suoi elementi, e l’altra troppo larga ed indeterminata, perché segnava solamente un termine generico di opposizione, il cui contenuto era ignoto. Ora, in questa sfera appunto che Socrate chiamava in genere ignoranza, e che noi diremmo della coscienza non ancora riflessa e scientifica, sono riposti i primi elementi ed i naturali presupposti di tutte le relazioni e di tutte le attività etiche, prima che divengano argomento delle indagini scientifiche; e ciò è vero, non solo per quel che riguarda l’individuo, ma ancora, e forse più per quel che concerne la stirpe ed il popolo. L’opposizione fra i due termini non s’è palesata a Socrate che in virtù del carattere pratico delle sue esigenze; in guisa che, inteso a cogliere la natura delle forme etiche col semplice criterio di una definizione praticamente e formalmente chiara, egli sconobbe tutto quello che era inadeguato al criterio precedentemente stabilito, perché non cercava altro che la norma costante delle azioni. Come egli fosse poi costretto ad ammettere in parte gli elementi extrarazionali delle virtù, vedremo in séguito. Questo lato oscuro della ricerca, che in Socrate era un campo vastissimo, s’è andato poi a poco a poco restringendo; fino a ridursi a qualcosa di puramente puntuale, ch’è espresso nella filosofia moderna dal concetto preciso e determinato della naturalità dell’anima incosciente.

Ritornando ora su l’argomento della riforma socratica, ci par chiaro, che essa sia doppiamente limitata: e perché le tendenze pratico-religiose del nostro filosofo non consentivano ch’egli sconoscesse la sostanzialità della morale privata e pubblica; e perché la poca perfezione della sua attitudine logica non gli permetteva di determinare intrinsecamente il valore obbiettivo delle forme etiche. Risvegliare la riflessione volontaria ed acuire l’intenzionalità, — ecco lo scopo genuino di quella riforma: e, quando da altri s’è detto che Socrate avesse il chiaro presentimento di una teoria sociale, mercé la quale facesse d’uopo di riformare e regolare col criterio della consapevolezza tutte le diverse attività della vita, s’è avuta la fretta d’identificare un risultato più o meno possibile con un semplice impulso individuale e generico. Platone fu invero il filosofo della riforma, ed è in gran parte su la sua autorità che è stata foggiata quella opinione. A noi basterà dire, che non sconosciamo l’influenza socratica nella tendenza riformatrice del Platonismo; la quale, se pure può accennare all’avvenire o aver l’aria di voler ripristinare il passato, in fondo non è che la naturale esplicazione di quella esigenza socratica, che facea necessariamente dipendere l’attività dal sapere.

Abbiamo visto che il precetto delfico γνῶθι σαυτόν non ha un valore esplicitamente filosofico, ma bensì pratico e pedagogico. Nei dialoghi socratici occorre spesso di trovare, che le varie direzioni seguite dalla volontà degl’individui sono fatte oggetto di un esame scrupoloso, e che dal riconoscimento della consapevolezza si fa dipendere il criterio fondamentale di ogni giudizio portato su le relazioni etiche. Il lento esame delle contradizioni, che emergono dal falso concetto della propria attività, si esaurisce nella definizione dei caratteri costanti che formano quella determinata sfera in cui s’aggira il capitano, il corazziere, il pittore e così via; ed a questo processo è analogo un altro, mercé il quale si determina l’attitudine dell’individuo, in rapporto con l’opera ch’è termine della sua attività. Queste due ricerche fanno insomma una sola ricerca; in quanto che la rettificazione del volere è implicita in quella del concetto del voluto, perché l’uomo vuole appunto ciò che conosce.

Da questa posizione procede:

1. Che nel Socratismo non v’ha un valore morale, appreso indipendentemente dalla determinazione concreta delle funzioni pratiche. Quello che noi siamo soliti di chiamare moralità dell’azione è implicita nel giudizio logico ed ha ancora il carattere di una equazione formale fra il volere ed il sapere. L’esigenza di determinare il grado dell’intimità morale è manifesta solo nel suo elemento intellettuale.

2. E che Socrate non sentì il bisogno di determinare in abstracto il concetto dell’εὐδαιμονία; perché la sua significazione gli era evidente solo nel relativismo delle varie sfere dell’attività umana. E per questa ragione appunto egli non riuscì a stabilire una gradazione nelle forme della vita, col preferirne una all’altra: e, mentre suscitava il bisogno della consapevolezza, non fece della scienza il solo elemento della felicità; potendo essa, come ogni altra forma di attività, portare con sé il malessere e l’infelicità. Nelle scuole socratiche cominciò a determinarsi più nettamente il concetto dell’intima relazione fra l’εὐδαιμονία e la scienza; finché Platone ed Aristotele non posero la contemplazione come meta d’ogni umano sforzo, esagerando dottrinariamente una relazione sola della vita a discapito delle altre.

1. L’individuo e le sue relazioni domestiche.

Il concetto etico del Socratismo non può misurarsi alla stregua dell’intimità moderna; né deve mettersi nel novero di quei tentativi di natura affatto esclusiva, che anche nel seno della civiltà antica hanno avuto di mira la sostituzione di una morale trascendente ai bisogni concreti della vita. Da questa semplice premessa, che abbiamo già cercato di approfondire in tutto il suo valore, procede il carattere indigeno e relativo dell’etica speciale di Socrate. L’opinione quindi ch’egli s’era formata dell’individuo perfetto era in gran parte attinta dalle reali condizioni della vita; e non tendeva a contrapporre alle tradizioni ed alle pratiche del costume una posizione arbitraria. Socrate in vero insisteva sul bisogno della continenza, come sicuro fondamento d’ogni virtù; e consigliava l’astinenza dai piaceri, perché essi ci rendono scontenti della vita ed incapaci di affrontare i pericoli per conseguire gloria ed onori. La vera libertà consistea per lui nel fare astrazione dai piaceri del corpo e nell’esercitare tutte le funzioni della vita in vista dell’interno benessere, che consiste nell’equazione fra gli atti esterni e le interne convinzioni. E, rassomigliando egli lo stato dell’uomo che seconda l’appetito naturale dei piaceri a quello dello schiavo e riponendo poi la libertà nella consapevolezza e nell’amore del sapere, rilevava tanto chiaramente l’importanza intrinseca della coscienza individuale, da stabilirla come criterio costante e come punto di partenza d’ogni morale valutazione. Ma, se da un’altra parte consideriamo che questo rialzare l’individuo al riconoscimento interno della propria destinazione non escludeva il principio affatto ellenico della subordinazione allo Stato e non importava l’esercizio di virtù speciali distinte dal pratico scopo dell’attuazione concreta dei vari bisogni della vita, apparisce chiaro come il criterio etico di Socrate non fosse che quello della moderazione, intesa quale pratica efficienza. La misura, la chiara coscienza dei limiti dell’individuale capacità e responsabilità, — ecco tutta la morale che può ricavarsi dai detti socratici, che concernono la vita dell’individuo. E Socrate stesso, che senza farsi trascinare dall’attrattiva de’ piaceri, e vivendo nel bel mezzo d’ogni sorta d’uomini, godea della mensa e del simposio, della conversazione dell’etera e della συνουσία di giovani lussureggianti per dovizie e bellezza, era il più perfetto modello di quella morale moderazione e misuratezza, che cercava poi la sua teoretica manifestazione nel sano criterio di una felice riuscita o di un imperturbato benessere individuale. Questa morale, che ignora ancora ogni ascetica e mistica tendenza, al tempo stesso che condanna come servile pericolosa ed ignava la ricerca degli onori e delle ricchezze, perché ne può derivare scontento e individuale malessere, è un naturale prodotto della vita ellenica, l’espressione ultima e più riflessa di quel sentimento limitativo e prudente della natura umana, che avea fatto riconoscere nell’ὅβρις la radice ed il principio d’ogni infelicità, e d’ogni morale degradazione. Sotto questo riguardo, noi non sappiamo con che ragione alcuni insistano su la poca purezza morale di questa idea fondamentale del Socratismo.

Dal punto di vista che abbiamo assegnato non era da aspettarsi che Socrate portasse una notevole riforma nel concetto delle relazioni domestiche, mettendosi in opposizione con le vedute tradizionali. L’eguaglianza di capacità che egli accordava alla donna non lo indusse a modificare il concetto ovvio fra i Greci, che lo scopo del matrimonio fosse riposto nella generazione; la quale opinione a noi non pare sia tanto caratteristica, da doverci invogliare a discutere quello che secondo il dialogo senofonteo Socrate pensava delle donne. A quei tempi s’era molto lontani dalla questione astratta sul valore giuridico della donna, ed ancora più dal sentimentalismo moderno, che a furia di esaltare la nobiltà ed eccellenza del sesso muliebre ne ha resa più difficile la morale emancipazione e dignità; e, se ad alcuno fosse venuto in mente d’emancipare le donne, si sarebbe attirata la pubblica riprovazione, come avvenne dei fantastici innovatori messi in satira nelle Ecclesiazuse di Aristofane. È sotto un altro riguardo che Socrate influì ad approfondire il concetto della famiglia, perché a lui indubitatamente compete la lode d’avere pel primo occasionato quelle indagini su la domestica economia, che, con tanta evidenza di socratica dialettica e tanto studio di pratiche utilità, si trovano poi raccolte in uno dei più originali lavori di Senofonte, l’Economico.

Il concetto della vita dipendeva per Socrate, in tutto e per tutto, dal principio della consapevolezza; e la costante applicazione di questo criterio non poteva in qualche punto non contradire al naturale sentimento della domestica pietà. Egli in fatti non rifuggì dalla pericolosa opinione di far dipendere la filiale riverenza dal grado di capacità o d’intelligenza, che il figlio può presumere nel padre, autorizzandolo a non sacrificare la propria intellettuale capacità al principio istintivo del rispetto e dell’ubbidienza. Da questa ambigua posizione seppe trarre partito Aristofane nella interessante catastrofe delle Nuvole, per improntare nel suo dramma quel carattere di morale severità, che lo eleva dalla sfera ordinaria di un contrasto comico alla estetica dignità di una profonda antitesi etica e pedagogica. Ma, se noi consideriamo che il sapere socratico non era quello a difesa del quale Feidippide si ribellava alla paterna autorità di Strepsiade, e che Socrate non volea, come l’aerobato di Aristofane, mettere in su i giovani con le vanità di metriche e retoriche disquisizioni e con le vuotaggini di una meteorologia da chiappanuvole; se, in somma, poniamo mente alla natura affatto pratica del sapere socratico ed alla naturale modestia dalla quale era sostenuto ed animato, intenderemo un po’ meglio quella massima pericolosa, e non la misureremo alla stregua di un effetto patetico e drammatico. Il dritto paterno presso gli Ateniesi era altrettanto lontano dal rigorismo romano della patria potestas, per quanto si discostava dal sentimentalismo moderno: il concetto della tutela ne costituiva l’elemento essenziale, e a quella potea essere in molti casi sostituita la più ampia e più generale tutela dello Stato. Le leggi positive limitavano così strettamente l’autorità del padre, che non senza ragione un profondo conoscitore del dritto greco ha saputo ridurla al semplice concetto di una funzione educativa. L’opinione adunque di Socrate non era estremamente contraria al concetto comune, e non facea che amplificare, nella forma speciale delle nuove esigenze filosofiche, la limitazione tradizionale dell’autorità paterna. E con ciò non abbiamo inteso giustificare, ma solo spiegare l’origine di quella massima pericolosa; ed a persuadersi del suo valore relativo basterà osservare, come Socrate in altra circostanza ritenesse per obbligatoria in tutti i casi la riverenza verso la madre.

L’attività pedagogica di Socrate portava necessariamente con sé l’abito del convivere (la συνουσία) coi giovani, ed offriva argomento ad una ricerca su la natura dell’amore. La relazione affettiva fra persone del medesimo sesso, che è tanto estranea alla coscienza moderna, era presso i Greci ammessa e riconosciuta dall’opinione generale, e non solo celebrata nel suo lato patologico ed estetico dai poeti e dalle poetesse, ma in alcuni luoghi determinata dalle leggi positive dello Stato. Quell’affetto era considerato nella sua pratica efficacia come uno degli elementi del vasto concetto dell’eteria, che formava uno stato intermedio tra la famiglia e lo Stato: e, non essendo assolutamente escluso dalla lode e dall’etica approvazione, come avviene nel mondo moderno, si prestava a tutta quella gradazione di perfezionamento estetico, che in molte altre passioni dell’animo ora non si trova difficoltà di ammettere, Socrate non ha saputo rigettare, ma solo correggere questa comune opinione; e, sebbene il Simposio di Platone sia lì a glorificazione della morale temperanza di lui, pure noi non possiamo negare che l’elemento patologico dell’amore ed il compiacimento estetico nella συνουσία coi giovani costituisse un elemento integrale della conversazione socratica. Egli in vero, applicando i suoi concetti etici, volea esclusa dalla relazione erotica ogni intemperanza, e stabiliva come criterio del vero amore la ricerca dell’altrui bene, l’abnegazione e la rinunzia al fine interessato del proprio compiacimento; ma con tutto questo non escludeva a nostro parere il carattere affettivo della relazione, e non condannava in principio una tendenza, che poi nella letteratura socratica venne a spiegarsi in tanto lusso d’estetica perfezione. È sotto un altro riguardo che Socrate approfondiva il concetto della relazione fra persone del medesimo sesso; determinando cioè la natura dell’amicizia e facendola consistere nell’incondizionata ricerca dell’altrui bene, e dipendere dalla inevitabile condizione di una virtù appensata ed abituale. L’ἔρως da un canto e l’amicizia dall’altro pare che tendano ad unificarsi nel criterio comune della benevolenza; ed a noi che possiamo, in tanta scarsezza di notizie, cogliere solo il lato logico della definizione, rimane oscuro il carattere preciso della prima relazione, perché nella nostra morale coltura siamo generalmente sforniti del criterio ellenico d’assoluto compiacimento estetico.

2. L’individuo e lo stato.

Nel concetto che Socrate s’era fatto dello Stato apparisce, più vivamente che in qualunque altra delle sue definizioni, il contrasto che correa fra la novità delle sue filosofiche esigenze e la naturale tendenza alla conservazione delle sostanziali relazioni della vita etica, che in lui era sussidiata dal convincimento religioso e da una profonda abnegazione. Il principio normativo della consapevolezza non gli consentiva di ammettere che la potenza, o il dritto ereditario, o la scelta del popolo mediante i voti potessero costituire la capacità dell’individuo a trattare le faccende dello Stato. Solo la piena coscienza della propria capacità e la speciale conoscenza delle faccende da trattare possono e devono invogliare l’individuo ad una legittima ambizione politica; e questa diviene per sé stessa un dovere, quando è sorretta dal fermo convincimento, che l’attitudine e la specifica intelligenza dell’individuo rispondono alle normali esigenze della vita politica. All’attuazione pratica di questa massima solea Socrate disporre i suoi uditori, sviluppando nel loro animo il bisogno di acquistare una chiara e perfetta notizia degli obblighi speciali che spettano a questo o a quello fra gli amministratori dello Stato, e riassumeva tutta la sua politica nel principio che solo chi sa deve e può fare, ossia che il potere sta nel sapere. L’importanza di questa massima innovatrice ci fa apparire l’attività socratica in una manifesta opposizione con tutti i concetti tradizionali della politica greca, perché, in virtù di essa, il dritto ereditario della monarchia e dell’aristocrazia, ed il concetto democratico della maggioranza erano recisi nella loro radice e subordinati alla necessità di una generale rettificazione di tutte le forme sociali dal punto di vista della consapevolezza. Ma pur nondimeno la cosa non andava tant’oltre, e noi non sappiamo scorgere in tutto questo l’esigenza o il presentimento di una radicale riforma dello Stato, o, come altri ha detto, di una teoria sociale fondata sul principio della conoscenza esatta. Il sapere, di cui parlava Socrate, non era qualcosa di distinto dalla conoscenza empirica dei vari rami della pubblica amministrazione, e non era costituito in un insieme di teorie universali e scientifiche. Egli non potea quindi, come più tardi fece Platone, ideare la costituzione di uno Stato, in cui la coordinazione e subordinazione delle sfere sociali fossero determinate dal concetto psicologico della gradazione della conoscenza. Il suo concetto non ha colorito e carattere esclusivo di una tendenza filosofica, che voglia imporsi alle pratiche esigenze della vita per regolarle a sua posta; ma rimane subordinato alla varietà estrinseca delle sfere sociali, e non ne sconosce la originalità per farla rientrare nei confini di uno schema astratto. Di qui procede, che, malgrado l’apparenza di una dichiarata riforma, Socrate riconobbe l’ubbidienza alle leggi come impreteribile; e, fedele all’antico principio ellenico della sostanzialità dello Stato, fece dipendere il bene dell’individuo da quello della comunità; e considerando la sua attività filosofica come parte integrale dei suoi doveri di cittadino morì nel rispetto alle leggi, e nel convincimento, che la condanna pronunziata contro di lui non fosse che una legittima manifestazione dell’attività dello Stato.

L’opposizione fra il vecchio e il nuovo, fra il concetto sostanziale e l’esigenza di una personale soddisfazione nello Stato, si chiarì maggiormente nelle scuole socratiche; e specialmente in Platone, il cui ideale politico non deve essere inteso, né come ripristinazione dello Stato dorico, né come un segno precursore del Cristianesimo, ma conviene sia spiegato come un progresso teoretico del principio enunciato da Socrate, che il potere deve consistere nel sapere.

Che i concetti da noi più sopra esposti non avessero una tendenza dichiaratamente riformatrice, apparisce ancora di più dal modo del tutto pratico come Senofonte introduce il suo eroe a discutere con questo o quello dell’esercizio speciale delle diverse arti, che conferiscono al pubblico bene o al mantenimento delle sociali relazioni. Una sola è l’idea fondamentale di tutti quei dialoghi: rettificare mediante la definizione il concetto del fine cui l’attività è rivolta, per far convergere tutti gli sforzi dell’individuo all’acquisto di una norma costante, che ne regoli la pratica senza incertezza e divagazioni. Sotto questo riguardo il calzolaio o lo scultore, il pastore e l’arconte, il marinaio ed il generale ecc., per quanto varie le loro occupazioni e diversi i fini cui sono rivolti, devono tutti convenire nella norma dell’esercizio metodico delle loro funzioni, e sostituire alla pratica istintiva, tradizionale ed incosciente la norma del sapere. Senza entrare nella specializzata esposizione di questo o quel dialogo, perché in tutti gli svariati casi non rileveremmo che una sola conclusione, basterà qui dire che Socrate è stato il primo, che abbia nettamente formulata l’esigenza di una tecnica speciale delle arti e ravvisata la necessità, che a capo di ogni pratica occupazione deve esser collocata la riflessione normativa: e, per le cose già esposte, non fa mestieri che chiariamo meglio questo pensiero, perché altri non creda, che egli intendesse conciliare la pratica e la teoria, l’arte e la scienza.

E qui cade in acconcio di osservare che la meraviglia, con la quale molti hanno riguardato il dialogo che Senofonte riferisce con la meretrice Teodota, non ha fondamento che nella natura delle nostre morali convinzioni. Quel dialogo, che non deve essere addotto a provare che la principale preoccupazione di Socrate fosse la ricerca dei concetti, né può essere inteso come interamente derisorio, perché l’ironia è un momento generale della conversazione socratica, mostra, a nostro parere, che il mestiere della meretrice potesse anch’esso nei suoi elementi affettivi venir subordinato al criterio socratico di un esercizio normale e riflesso. Quell’arte non destava allora gli scrupoli esagerati, che noi moderni siamo soliti di provare contro ogni divagazione della natura dalla norma assoluta di una morale precettistica; anzi, per le speciali condizioni della famiglia greca, sviluppava soventi nelle donne libere un grado di cultura superiore di gran lunga a quello della donna legalmente ritenuta nelle angustie del gineceo.

E a terminare questo schizzo della coscienza politica e sociale di Socrate osserveremo, che egli, col rilevare l’importanza dell’attività cosciente, nobilitò il concetto del lavoro, facendone uno degli elementi costitutivi dello Stato e della famiglia. Questa veduta era allora qualcosa di nuovo, perché diretta a reagire contro un pregiudizio, fondato nella costituzione sociale dell’antica Grecia e già da gran tempo invalso, che facea considerare come indegna dell’uomo libero la produzione ottenuta col lavoro manuale. Se Socrate abbia o no superato il particolarismo ellenico, e se ritenesse per giusta come vuole Senofonte, o per ingiusta come vuole Platone, l’offesa arrecata al nemico, nella grande incertezza dei criterî seguiti dai vari espositori noi non sappiamo affermare. Ad ogni modo, l’autorità di Senofonte ci parrebbe da preferire, e la maniera arbitraria come si è voluto da alcuni interpretarla ci pare infondata e priva di ogni verosimiglianza.



Ultima modifica 2019.07.09