Origine e diffusione dell'evemerismo nel pensiero classico

Giovanna Vallauri (Università di Torino, Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia, vol. XII, 5, Torino 1960)


Escerto riprodotto per ragioni di studio (learning purposes)

Citazioni greche di Diodoro riprodotte da: qui.

Frammento greco su Prodico riprodotto da: qui.

Citazioni greche di Eusebio riprodotte da: qui.

Citazioni greche di Atenagora riprodotte da: qui.

Citazioni greche di Giovanni Malalas riprodotte da: qui.


Lo scopo della nostra ricerca che si ricollega a un precedente lavoro intοrnο a Evemero e alla sua opera1, è di approfondire ulteriormente problema dell'evemerismo: di estendere cioè l'indagine a quella corrente di pensiero che prese il nome da Evemero, ma è debitrice della sua formazione e affermazione non tanto a una singola persona quanto ad un insieme di circostanze, all'evolversi delle condizioni politiche, sociali e religiose, alle tendenze e ai fermenti nuovi che si manifestarono in un'epoca particolarmente significativa per la storia della cultura nel mondo antico.

L'età di Evemero, ovvero la data di composizione della Ιερά Αναγραφή, può essere fissata — pur con una certa approssimazione — intorno ai primi decenni del terzo secolo a. C., di quel periodo noto come un periodo di transizione in quanto segna l'avvento dell'ellenismo. Esula dal nostro compito, e ci porterebbe troppo lontano, l'intento di tracciare un quadro completo di quest'epoca: ci limiteremo pertanto a rilevarne quei caratteri salienti che si collegano e in certa misura favoriscono il sorgere della dottrina evemeristica.

In Grecia il fenomeno politico e il fenomeno religioso sono strettamente connessi: al mutare della situazione politica si accompagna sempre un'evoluzione del pensiero religioso, perciò a seguito dell'avvento della civiltà ellenistica e dell'instaurarsi di una nuova forma di governo la religione tradizionale, già minata alla base dalla speculazione filosofica, che intaccandone il fascino e privandola della nota arcana e leggendaria, la colpiva nella sola parte vitale, subisce una non lieve scossa, anzi si apre una frattura che tenderà sempre più ad allargarsi tra lo spirito religioso dell'antica Grecia e il razionalismo — in questo rapporto possiamo ben dire antireligioso — dell'ellenismo. Mentre l'ideale di vita della Polis greca era stato un ideale comunitario che non poneva differenza tra dominatori e sudditi, e secondo il quale il singolo cittadino era considerato non per se stesso, bensì in funzione della società di cui faceva parte, nell'età ellenistica si viene progressivamente affermando l'individualismo. Questa tendenza si manifesta in primo luogo nelle diverse scuole filosofiche: i sofisti, i cirenaici, i cinici, gli scettici esaltano l'individuo proprio nella sua individualità, in quei valori umani personali che lo rendono indipendente dai suoi simili e dal mondo in cui vive, nella sua αὐτάρκεια. L'eco delle dottrine filosofiche — spogliato degli estremismi teorici — si diffonde poi nel terreno popolare in un momento favorevole quant'altro mai. Il venir meno delle antiche forme di governo, l'instabilità della situazione politico-sociale, la mancanza di un sicuro orientamento, i contatti infine con il mondo orientale, avevano non solo fatto decadere le istituzioni di un tempo, ma anche vacillare la fede popolare negli antichi dèi. La Polis greca scomparendo travolge nella sua rovina quelle divinità che avevano rappresentato la religione di stato, non in senso convenzionale e coercitivo rispetto ai cittadini, bensì in senso reale e pienamente rispondente allo spirito di tutta un'epoca. Saranno ora i saggi, le personalità eminenti a raccogliere intorno a sé il suffragio universale. In colui che si distingue per capacità e virtù, in colui che sa governare, l'uomo vede personificata la potenza divina2. Senza dubbio si tratta sempre di una religione politica -- che sfocerà nel culto dei sovrani — determinata da fatti contingenti per quanto riguarda la sua fisionomia vera e propria; le cui origini hanno però radici più lontane e sono da ricercarsi nella necessaria e progressiva evoluzione della civiltà intesa nel suo complesso.

Le apparizioni celesti, i fenomeni misteriosi della natura, continuavano in teoria ad essere ritenuti potenze superiori ovvero divinità, ma erano divinità lontane e astratte, simboli quasi, senza contatto alcuno con l'uomo. Quanto poi agli di della mitologia, è noto che intorno ad essi il nimbo della divinità cominciò a dissiparsi a causa della dottrina razionalistica, e della interpretazione che questa diede delle antiche leggende, abbassando tali di al livello umano. Che altro avevano fatto essi se non fondare città, distribuire benefici, largire conoscenze e esperienze nuove, governare saggiamente? E che altro facevano i dominatori del tempo se non garantire al popolo quella libertà e quel benessere che prima soleva aspettarsi dagli dèi?

Sorge qui il problema tanto discusso del rapporto fra il culto dei sovrani e l'interpretazione razionalistica della mitologia che sarà poi codificata dall'evemerismo. Si tratta, a nostro avviso, non di un rapporto di dipendenza, ma di un rapporto di interdipendenza. I due fenomeni si manifestano contemporaneamente e parallelamente proprio per quella stretta connessione — che già rilevammo — fra religione e politica. Sia l'uno sia l'altro, sono stati provocati dallo spirito del tempo, che rivela un'esigenza di praticità e tende a trasferire su un piano reale, ideali o meglio fantasie che, come tali, apparivano ormai prive di contenuto e di significato concreto. Non si deve poi dimenticare che uno dei caratteri tipici della civiltà ellenistica è il tecnicismo, soprattutto evidente nel campo sociale ed economico, ma anche manifesto nelle nuove forme e strutture di governo. Compito di chi è a capo dello stato è di provvedere al bene di tutti i cittadini, i quali hanno alla loro volta il dovere di contribuire all'interesse comune svolgendo ognuno l'attività che gli compete e gli è stata assegnata secondo un criterio di selezione determinato in vista del massimo rendimento collettivo. Si stabilisce una collaborazione fra governatori e sudditi, una forma di connivenza, in cui il potere da un lato e gli obblighi dall'altro — cose qui del tutto inscindibili — sono giustificati da un unico fine di generale utilità.

Non vogliamo concludere questo breve scorcio panoramico sugli inizi dell'età ellenistica senza fare menzione di un'altra tendenza più generale — ma di non minore importanza — che si manifesta nel campo religioso: la tendenza al sincretismo. questo uno degli effetti immediati delle conquiste di Alessandro e dell'ideale universalistico che ispirava la sua politica. Crollata la barriera fra Grecia e mondo orientale e spento l'antico antagonismo fra Elleni e barbari, i sudditi dell'impero venivano ad essere posti tutti quanti sii un piano di parità di diritti e di doveri. L'universalismo sociale e politico non avrebbe tollerato un particolarismo religioso. Il culto delle divinità non è più circoscritti in un unico luogo in cui viene pure ad essere in certo qual modo limitata la loro sfera d'azione; si tende a collegare le divinità le une alle altre, il che del resto è ovvio se si pensa che comuni sono ormai le esigenze dell'uomo, il quale ricerca nel dio il salvatore e il benefattore. Si arriva pertanto a una concezione religiosa unitaria, che permetterà il ravvicinamento, o meglio l'assimilazione fra loro di divinità di varia provenienza e quindi ammetterà altresì l'apporto di dottrine lontane e diverse.

Tale era pressappoco la situazione — spirituale e materiale — nel mondo greco, quando cominciò a delinearsi l'evemerismo, che deve appunto essere considerato come uno degli aspetti tipici di questa situazione multiforme e ancora in fieri. Malgrado l'atmosfera favorevole, l'opera di Evemero al suo apparire suscitò un certo scalpore e incontrò la tenace ed aspra opposizione della corrente conservatrice rappresentata in primo luogo da Callimaco. La cosa non deve stupirci, perché non dobbiamo confondere il giudizio nostro con quello dei contemporanei di Evemero. Noi oggi considerando le condizioni politico-sociali nonché filosofico-religiose del mondo greco nel ΙΙΙ secolo a. C., troviamo in esse i moventi dell'evemerismo, ma tali moventi validi ora a giustificare il fenomeno, potevano allora tutt'al più valere a spiegarlo, non certo a conquistare a esso il favore di quegli spiriti rimasti attaccati alla religione tradizionale. Per costoro Evemero era un ateo, perché ciò che turbava la loro coscienza non era tanto l'ammettere che nei sovrani viventi si manifestava un potere divino, quanto il credere che gli antichi di erano stati essi pure comuni mortali e che la divinità era stata loro conferita da altrettanto comuni mortali. Con questa — che a noi sembra una semplice illazione — Evemero distruggeva una tradizione secolare, giacché è ovvio che, sempre secondo lo spirito razionalistico, il risultato immediato di siffatta teoria fosse non già l'elevazione dei sovrani del tempo al rango di vere e proprie divinità, bensì l'abbassamento degli dèi primitivi al livello di re terreni.

* * *

Senza eco era rimasto invece uno scritto di Ecateo di Abdera sugli Egizi, a cui sembra abbia attinto largamente Diodoro per quella parte della sua opera dedicata appunto all'Egitto. Lo Spoerri3 contrariamente all'opinione di tutti gli studiosi che fino ad oggi si occuparono della questione, ritiene che gli Αιγυπτιακά di Diodoro non abbiano nulla -o quasi nulla — a che fare con gli Αιγυπτιακά di Ecateo, che appartenendo ad epoca alquanto anteriore non potrebbero contenere principi e motivi ricorrenti — a detta sua — solo nel tardo ellenismo. Discuteremo nel corso della nostra indagine le singole argomentazioni addotte dallo Spoerri a sostegno della sua tesi, e questo varrà a dimostrare che non condividiamo il suo punto di vista tendente a riconoscere in Diodoro — per noi Ecateo — un'influenza dello stoicismo e in particolare di Posidonio. Si tratta per la maggior parte dei casi addotti dallo Spoerri di concetti che furono accettati dalla filosofia stoica, ma non ritrovati da essa: la vita e la vitalità dell'universo, la stessa dottrina degli elementi, la spiegazione allegorica dei nomi delle divinità, la concezione infine della divinità, ovvero delle divinità distinte in categorie con i loro attributi e prerogative, sono teorie che già troviamo nel III secolo a. C., all'inizio dell'età ellenistica, dovute allo sviluppo spesso parallelo e indipendente di una precedente eredità filosofica e ai contatti con l'Oriente. Anche il significato e l'importanza del sole, che produce e mantiene la vita nel cosmo, è una teoria non del tardo ellenismo ma di epoca alquanto anteriore. In Egitto poi e nel mondo orientale il culto solare è antichissimo e il Faraone è ritenuto un'incarnazione del dio solare. «Acqua del sole» è chiamato il fiume di Pancaia dotato di potere benefico e salutifero4, dal che si deduce che pure Evemero riconosceva la forza vivificatrice dell'astro celeste5. Nel pensiero di Posidonio confluì un patrimonio di idee orientali, e anche la dottrina stoica mostra punti di contatto con dottrine affermatesi nell'oriente e che potevano già essere penetrale altrove6. È superfluo ricordare l'importanza che riveste l'Egitto per la storia della cultura nel mondo greco, per cui possiamo facilmente supporre che concezioni egizie abbiano anticipato e ispirato concezioni greche. Lo Spoerri7 inoltre trascura del tutto alcuni dati — degni a nostro avviso di una certa considerazione — favorevoli all'attribuzione degli Αιγυπτιακά di Diodoro a Ecateo. In primo luogo la menzione esplicita di Ecateo in un passa di Diodoro8 e i relativi riferimenti, l'accordo fra un passo di Diodoro9 e un passo di Plutarco10, che si richiama a Ecateo, aventi entrambi come argomento i limiti imposti ai re nel bere vino. La concordanza infine tra alcuni passi di Diodoro-Ecateo e taluni passi di Manetone, il quale visse e svolse la sua attività letteraria nella prima metà del III secolo a. C., che è appunto l'epoca di cui ci occupiamo11. A noi poi gli Αιγυπτιακά di Diodoro interessano essenzialmente per l'affinità che presentano con la Ιερά Αναγραφή di Evemero. Questa affinità è indubbia e lo vedremo nel corso della nostra indagine — tanto che lo Spoerri stesso12, rendendosene conto, affaccia l'ipotesi che gli Αιγυπτιακά di Diodoro abbiano risentito dell'influenza del pensiero evemeristico: il rapporto fra Diodoro — ovvero Ecateo — ed Evemero, sarebbe pertanto invertito, cosa possibile soltanto se, come lo Spoerri, si nega che Ecateo sia la fonte di Diodoro, il quale ultimo verrebbe ad assumere un'οrigínalità che non sembra gli competa e che non risulta affatto dall'esame complessivo della sua opera. Non parrebbe logico da parte di Diodoro dare arbitrariamente un'interpretazione evemeristica della teologia egizia quando l'evemerismo si era ormai diffuso e affermato, poiché è ovvio che, sia per ragioni cronologiche sia per ragioni più profonde concernenti l'evoluzione culturale, nel rapporto fra Egitto e Grecia, la precedenza spetta all'Egitto. La tendenza evemeristica è semmai una ragione di più per sostenere che la paternità degli Αιγυπτιακά di Diodoro deve essere attribuita a Ecateo, il quale, contemporaneo circa di Evemero, cresce alla stessa scuola e nello stesso ambiente, e subisce l'influenza delle stesse correnti di pensiero che lo portano ad approdare alla medesima sponda.

La cronologia di Ecateo non può essere stabilita con assoluta certezza. I pochi dati pervenutici al riguardo, non sembrano tuttavia discordanti fra loro, e basandoci su di essi e in particolare sulla notizia che Ecateo avrebbe visitato l'Egitto durante il regno di Tolomeo I (323-305 a. C.)13, l'opera che a noi interessa e della quale sembra essersi servito Diodoro, oscillerebbe tra la fine del IV e gli inizi del III secolo a. C. e sarebbe pertanto un po' anteriore alla Ιερά Αναγραφή.

Dall'esame dei frammenti degli Αιγυπτιακά risultano parallelismi evidentissimi con l'opera di Evemero. Ci soffermeremo anzitutto sulla dottrina teologica che, rappresentando la parte essenziale dell'evemerismo, è altresì il punto di convergenza della nostra ricerca.

Gli Egizi distinguono gli dèi in due categorie:

τοὺς δ᾽ οὖν κατ᾽ Αἴγυπτον ἀνθρώπους τὸ παλαιὸν γενομένους, ἀναβλέψαντας14 εἰς τὸν κόσμον καὶ τὴν τῶν ὅλων φύσιν καταπλαγέντας τε καὶ θαυμάσαντας, ὑπολαβεῖν εἶναι δύο θεοὺς ἀιδίους τε καὶ πρώτους, τόν τε ἥλιον καὶ τὴν σελήνην, ὧν τὸν μὲν Ὄσιριν, τὴν δὲ Ἶσιν ὀνομάσαι...15

L'autore scendendo a particolari sugli dèi della prima categoria, spiega l'etimologia dei termini greci traducenti i nomi di Osiride e Iside, rivelando una certa affinità di gusto con Evemero16, e dopo alcune considerazioni filosofiche17 intorno al sole e alla luna che mantengono la vita nell'universo, anzi — insieme ai cinque elementi che sono parti loro e pure essi divinità — costituiscono l'uniνerso18, conclude:

περὶ μὲν οὖν τῶν ἐν οὐρανῷ θεῶν καὶ γένεσιν ἀίδιον ἐσχηκότων τοσαῦτα λέγουσιν Αἰγύπτιοι. ἄλλους δ᾽ ἐκ τούτων ἐπιγείους γενέσθαι φασίν, ὑπάρξαντας μὲν θνητούς, διὰ δὲ σύνεσιν καὶ κοινὴν ἀνθρώπων εὐεργεσίαν τετευχότας τῆς ἀθανασίας, ὧν ἐνίους καὶ βασιλεῖς γεγονέναι κατὰ τὴν Αἴγυπτον. [2] μεθερμηνευομένων δ᾽ αὐτῶν τινὰς μὲν ὁμωνύμους ὑπάρχειν τοῖς οὐρανίοις, τινὰς δ᾽ ἰδίαν ἐσχηκέναι προσηγορίαν, Ἥλιόν τε καὶ Κρόνον καὶ Ῥέαν, ἔτι δὲ Δία τὸν ὑπό τινων Ἄμμωνα19 προσαγορευόμενον, πρὸς δὲ τούτοις Ἥραν καὶ Ἥφαιστον, ἔτι δ᾽ Ἑστίαν καὶ τελευταῖον Ἑρμῆν. καὶ πρῶτον μὲν Ἥλιον βασιλεῦσαι τῶν κατ᾽ Αἴγυπτον, ὁμώνυμον ὄντα τῷ κατ᾽ οὐρανὸν ἄστρῳ20.

Secondo la testimonianza di Diodoro la distinzione degli dèi in due classi è generalizzata da Evemero: non siamo perciò d'accordo con lo Spoerri il quale invece ritiene tale concetto estraneo al sistema evemeristico21. Il passo di Diodoro in questione, passo che precede la citazione di Evemero, espone — e già altra volta lo dicemmo22 — quello che era stato il pensiero anche di Evemero, come si desume dall'introduzione di Eusebio al passo stesso23. Il fatto che quale esempio di divinità della seconda categoria ricorrano Eracle, Aristeo e Dioniso, anziché Zeus e le altre più importanti, non deve stupire, perché trattandosi di un accenno generico premesso all'esposizione di una nuova dottrina, era ovvio che per non ingenerare equivoci, si facesse menzione di quegli dèi che ritornano con più frequenza negli scrittori evemeristici senza essere omonimi degli dèi eterni. Riguardo al passo di Evemero24 sul rapporto di omonimia fra l'Urano celeste e l'Urano terreno, già si è discusso25 e si tornerà in seguito. Qualunque sia l'interpretazione che si voglia dare ad esso, l'esplicito accenno agli ούρανίοι θεοί non può essere messo in dubbio e convalida efficacemente la nostra tesi. È chiaro del resto che la dottrina di Evemero poteva essere accettata e affermarsi solamente in base al presupposto della distinzione degli dèi in due categorie. Tale presupposto ritorna nei successivi scrittori di tendenza evemeristica ed è proprio26 uno degli elementi indicativi di tale tendenza. Ammettiamo per assurdo che, come Spoerri ritiene, Evemero prescindesse dagli dèi celesti ed eterni: mancherebbe, è vero, un parallelo — non il solo né il più significativo — fra Evemero ed Ecateo, ma sarebbe questo un argomento valido ad escludere la derivazione di Diodoro da Ecateo? E a che scopo Diodoro prima di esporre la dottrina di Evemero, avrebbe introdotto l'accenno alle due categorie di divinità? La tesi dello Spoerri oltre ad essere infirmata non raggiunge l'intento, in quanto l'analogia dei due passi di Diodoro, posto che entrambi siano di Diodoro e non risalgano a terzi autori, denoterebbe che Diodoro medesimo avrebbe riscontrato l'affinità fra la teologia egizia e la teologia evemerea, collegandole implicitamente con un rapporto — non reversibile — di dipendenza della seconda dalla prima. Infine la divisione degli dèi in due gruppi è originaria egizia, o perlomeno in Egitto è autonoma27.

Gli dèi del primo gruppo sono eterni perché sempre esistiti e come tali immortali per natura, gli dèi del secondo gruppo invece, di natura mortale, devono la loro origine a nascita, ma in virtù dei benefici resi agli uomini ottengono l'immortalità28. Sia in Diodoro — ovvero Ecateo — sia in Evemero c'è un richiamo all'omonimia tra gli dèi delle due categorie, e in particolare osserviamo che Elios, primo re degli Egizi, così chiamato dal nome dell'astro, trova rispondenza in Urano, primo re della stirpe che diverrà poi quella degli dèi secondari, così chiamato dal nome della divinità celeste29.

Secondo Ecateo al regno di Elios segue quello di Crono:

μετὰ δὲ ταῦτα τὸν Κρόνον ἄρξαι, καὶ γήμαντα τὴν ἀδελφὴν Ῥέαν γεννῆσαι κατὰ μέν τινας τῶν μυθολόγων Ὄσιριν καὶ Ἶσιν, κατὰ δὲ τοὺς πλείστους Δία τε καὶ Ἥραν, οὓς δι᾽ ἀρετὴν βασιλεῦσαι τοῦ σύμπαντος κόσμου30 .

Fino a questo punto anche Evemero concorda31. Successivamente si avvertono, per quanto riguarda la genealogia degli dèi, alcune divergenze fra i nostri due autori. A parte le probabili lacune del testo, non va dimenticato che Ecateo tratta della religione degli Egizi; senza osservare poi che nell'ambito stesso della Grecia, la tradizione concernente la genealogia degli dèi era tutt'altro che unica e sicura32 .

Tra i benefici che Osiride dopo la sua ascesa al potere elargì all'umanità, Ecateo menziona in primo luogo la soppressione dell'antropofagia:

πρῶτον μὲν γὰρ παῦσαι τῆς ἀλληλοφαγίας τὸ τῶν ἀνθρώπων γένος33.

Nella Ιερά Αναγραφή leggiamo che Zeus per primo con un editto proibì agli uomini di cibarsi di carne umana34.

Osiride inalza un tempio ai genitori e un sacello allo Zeus celeste e uno allo Zeus terreno:

ἱδρύσασθαι δὲ καὶ ἱερὸν τῶν γονέων Διός τε καὶ Ἥρας ἀξιόλογον τῷ τε μεγέθει καὶ τῇ λοιπῇ πολυτελείᾳ, καὶ ναοὺς χρυσοῦς δύο Διός, τὸν μὲν μείζονα τοῦ οὐρανίου, τὸν δὲ ἐλάττονα τοῦ βεβασιλευκότος καὶ πατρὸς αὐτῶν, ὅν τινες Ἄμμωνα καλοῦσι35.

Allo stesso modo Zeus erige un altare al proprio avo Urano36.

Osiride va errando per tutto il mondo a insegnare l'agricoltura, sperando che dagli uomini per gratitudine gli saranno tributati onori immortali, e infatti la sua speranza non sarà delusa:

τὸν δὲ Ὄσιριν λέγουσιν, ὥσπερ εὐεργετικὸν ὄντα καὶ φιλόδοξον, στρατόπεδον μέγα συστήσασθαι, διανοούμενον ἐπελθεῖν ἅπασαν τὴν οἰκουμένην καὶ διδάξαι τὸ γένος τῶν ἀνθρώπων τήν τε τῆς ἀμπέλου φυτείαν καὶ τὸν σπόρον τοῦ τε πυρίνου καὶ κριθίνου καρποῦ: [2] ὑπολαμβάνειν γὰρ αὐτὸν ὅτι παύσας τῆς ἀγριότητος τοὺς ἀνθρώπους καὶ διαίτης ἡμέρου μεταλαβεῖν ποιήσας τιμῶν ἀθανάτων τεύξεται διὰ τὸ μέγεθος τῆς εὐεργεσίας. ὅπερ δὴ καὶ γενέσθαι: οὐ μόνον γὰρ τοὺς κατ᾽ ἐκείνους τοὺς χρόνους τυχόντας τῆς δωρεᾶς ταύτης, ἀλλὰ καὶ πάντας τοὺς μετὰ ταῦτα ἐπιγενομένους διὰ τὴν ἐν ταῖς εὑρεθείσαις τροφαῖς χάριτα τοὺς εἰσηγησαμένους ὡς ἐπιφανεστάτους θεοὺς τετιμηκέναι37.

Zeus andrà ancora oltre: la sua brama di eterna gloria lo indurrà a costringere gli ospiti occasionali, presso i quali sosterà durante i suoi vagabondaggi per ogni dove, ad erigere templi a suo nome38.

Gli onori divini resi a Osiride da quanti egli aveva via via beneficato, vengono in certo modo sanciti e pubblicamente ratificati, al suo ritorno in Egitto:

ἐπανελθόντα δ᾽ εἰς τὴν Αἴγυπτον συναποκομίσαι δῶρά τε πανταχόθεν τὰ κράτιστα καὶ διὰ τὸ μέγεθος τῶν εὐεργεσιῶν συμπεφωνημένην λαβεῖν παρὰ πᾶσι τὴν ἀθανασίαν καὶ τὴν ἴσην τοῖς οὐρανίοις τιμήν39.

Anche l'universalità del culto di Zeus fu riconosciuta dopoché egli ebbe compiuto per ben cinque volte il giro del mondo, insegnando agli uomini l'agricoltura, le leggi e le norme del vivere civile40.

Iside ed Ermes hanno cura dei sacrifici e delle onoranze ad Osiride, dopo la sua morte, dopo il suo passaggio cioè dalla sede degli uomini a quella degli dèi:

μετὰ δὲ ταῦτ᾽ ἐξ ἀνθρώπων εἰς θεοὺς μεταστάντα τυχεῖν ὑπὸ Ἴσιδος καὶ Ἑρμοῦ θυσιῶν καὶ τῶν ἄλλων τῶν ἐπιφανεστάτων τιμῶν. τούτους δὲ καὶ τελετὰς καταδεῖξαι καὶ πολλὰ μυστικῶς εἰσηγήσασθαι, μεγαλύνοντας τοῦ θεοῦ τὴν δύναμιν41.

Con termini quasi analoghi Evemero ricorderà la morte di Zeus e il culto in suo onore mantenuto dai Cureti42.

Altri passi rivelano se non proprio una rispondenza precisa, una certa somiglianza fra Ecateo ed Evemero: di Osiride e Iside sono ricordate le tombe43, come di Zeus è menzionato il sepolcro44. Ermes è scrivano e consigliere di Isiride45, sarà lui ad aggiungere sulla famosa stele di Pancaia, incisa a sacre lettere, la storia delle imprese di Artemide e Apollo46. Osiride e Iside narrano su una stele la propria vita e le proprie opere47, e analoga testimonianza lascia Zeus mediante l'iscrizione di Pancaia48.

Da una lettura completa degli Αιγυπτιακά di Diodoro — che per le ragioni su esposte riteniamo siano da attribuirsi in massima parte a Ecateo — nonché dalle citazioni che siamo venuti esaminando, risulta che nella narrazione sono mescolati elementi egizi ed elementi greci, e attribuite agli dèi prerogative proprie delle divinità egizie e prerogative proprie delle divinità greche. Il fatto stesso che non di rado di un dio egizio sia citato il corrispondente greco49, indica da parte dell'autore la ricerca di un concetto unitario della divinità, segno evidente che anche in Ecateo si manifesta la tendenza al sincretismo. Egli ammira le credenze e le istituzioni egizie — il Jacoby50 a questo proposito parla addirittura di una «Egittomania» di Ecateo — e rientra in quella corrente di letterati e pensatori greci che ritenevano la Grecia debitrice all'Egitto della sua cultura e civiltà. È d'uopo però non lasciarsi trarre in inganno dalle apparenze e dall'impressione che può facilmente nascere da un primo esame superficiale del testo: i numerosi richiami all'Egitto, a tradizioni e costumi locali, costituiscono per lo più la parte accessoria e descrittiva, ma non intaccano l'essenza del pensiero, che rimane fondamentalmente greco. E greca è la dottrina teologica di Ecateo ed è alla filosofia greca che essa deve le sue origini. Tale dottrina, come quella di Evemero, va messa in relazione con il culto dei sovrani, perché gli dèi egizi di Ecateo — gli dèi ben inteso della seconda categoria — stanno sullo stesso piano dei sovrani. Il despotismo dei faraoni era ben diverso dalla monarchia illuminata dei sovrani ellenistici. La divinità del faraone, era del tutto indipendente dalla sua personalità: egli era un dio incarnato e quindi non si poteva parlare per lui di apoteosi, bensì di epifania51. Il monarca ellenista invece ha diritto alla divinizzazione solo in quanto se ne sia mostrato meritevole: è la sua personalità che si impone, quella personalità che pure giustifica la sua posizione di sovrano52. Rileviamo appunto che le divinità — vale a dire gli antichi re egizi — di cui parla Ecateo, si uniformano al modello greco: sono εὐεργέται, e in virtù della εὐεργεσία esercitata nei confronti dell'umanità, sono assurte a rango divino. Tale filantropia dei sovrani non è disinteressata e aspira al sommo riconoscimento, così come la generosità di Osiride e di Zeus aveva mire personali:

καθόλου δέ φασι τοὺς Αἰγυπτίους ὑπὲρ τοὺς ἄλλους ἀνθρώπους [p. 152] εὐχαρίστως διακεῖσθαι πρὸς πᾶν τὸ εὐεργετοῦν, νομίζοντας μεγίστην ἐπικουρίαν εἶναι τῷ βίῳ τὴν ἀμοιβὴν τῆς πρὸς τοὺς εὐεργέτας χάριτος: δῆλον γὰρ εἶναι διότι πάντες πρὸς εὐεργεσίαν ὁρμήσουσι τούτων μάλιστα παρ᾽ οἷς ἄν ὁρῶσι κάλλιστα θησαυρισθησομένας τὰς χάριτας. [3] διὰ δὲ τὰς αὐτὰς αἰτίας δοκοῦσιν Αἰγύπτιοι τοὺς ἑαυτῶν βασιλεῖς προσκυνεῖν τε καὶ τιμᾶν ὡς πρὸς ἀλήθειαν ὄντας θεούς, ἅμα μὲν οὐκ ἄνευ δαιμονίου τινὸς προνοίας νομίζοντες αὐτοὺς τετευχέναι τῆς τῶν ὅλων ἐξουσίας, ἅμα δὲ τοὺς βουλομένους τε καὶ δυναμένους τὰ μέγιστ᾽ εὐεργετεῖν ἡγούμενοι θείας μετέχειν φύσεως53.

Il concetto che «uomini in quanto hanno beneficato altri uomini» sono ritenuti degni di onori divini, ha le sue radici nella sofistica; si ricollega con il pensiero di Prodico54, e in maniera del tutto evidente con quello di Perseo, che rispetto ad esso rappresenta più che una modificazione, un passo avanti:

Persaeus eos esse habitus deus, a quibus aliqua magna utilitas ad vitae cultum esset inventa55.

Che gli εὐεργέται ottengano la divinizzazione già durante la vita, è dichiarato espressamente sia da Ecateo56 sia da Evemero57: sembra importante sottolineare questo particolare, perché è caratteristico dell'evemerismo che, proprio in ciò si collega con il culto dei sovrani, e come quest'ultimo, si distacca dal culto degli eroi58.

Manca invece in Ecateo il concetto dell'autodivinizzazione che, secondo il Jacoby59, sarebbe l'elemento precipuo e più significativo della dottrina evemeristica, dovuto anch'esso all'influenza della scuola sofistica. Ma non sembra che il problema debba essere posto sul piano filosofico. L'autodivinizzazione segna l'ultimo passo dell'evemerismo, non già il primo: ammessa l'apοteοsi di esseri viventi, vale a dire di esseri umani, non era difficile riconoscere in tali esseri umani una pretesa alla divinizzazione. Lo stesso termine «autodivinizzazione» non coglie esattamente nel segno, in quanto questa autodivinizzazione non ha valore in senso assoluto, bensì è condizionata dall'assenso popolare. Senza dubbio essa accentua il carattere umano delle presunte divinità, e ben se ne rese conto Lattanzio, riferendo il passo di Ennio intorno a tale questione60. L'autodivinizzazione può essere messa in rapporto con il culto dei sovrani senza dovere anche qui necessariamente ritenere che ci sia stato un influsso diretto tra le due concezioni. Che Evemero abbia pensato al culto dei sovrani che proprio in quel tempo si stava manifestando, induce a crederlo l'accenno ad Enea, e in particolare la conclusione del passo in questione:

Hoc modo religionem cultus sui per orbem terrae Iuppiter seminavit et exemplum ceteris ad imitandum dedit61.

Questa affermazione lascia supporre che l'esempio di Zeus abbia avuto seguito nella realtà storica, nella quale l'autodivinizzazione seguirà in un secondo tempo all'apoteosi già decretata dai sudditi62.

Passando dal campo teologico a quello politico-sociale, vediamo che la costituzione egizia descritta negli Αιγυπτιακά di Diodoro, si ispira agli stessi ideali di quella della Panara di Evemero; agli ideali cioè propri del razionalismo filosofico del tempo. Diodoro, ovvero Ecateo, divide anzitutto la popolazione in due gruppi ben distinti: al prime appartengono i sacerdoti, i sovrani, i soldati; al secondo i pastori, gli agricoltori, gli artigiani. L'intero territorio è spartito fra sacerdoti, re e soldati, i quali usufruiscono dei proventi che ne traggono non tanto per vantaggio personale, quanto per l'adempimento dei compiti inerenti alle loro posizioni. I pastori, gli agricoltori e gli artigiani svolgono attività materiali concorrendo al bene della vita collettiva. Un'organizzazione del genere tende ovviamente a raggiungere un accordo, o meglio un giusto equilibrio, tra le mansioni puramente direttive e quelle invece di carattere pratico, ed è per questo che sembra assai simile a quella di Evemero, il quale distribuisce la popolazione di Panara nelle tre classi dei sacerdoti, contadini e soldati, associando ai sacerdoti gli artigiani, e ai soldati i pastori. Mancano i re, non essendo monarchica la costituzione di Panara. I re di cui parla Ecateo sono però ben lungi dall'essere sovrani assoluti quali i faraoni egizi: sono sottoposti alle leggi per tutto quanto li riguarda e sono in certo modo soggetti al controllo dei sacerdoti63.

La relazione di Diodoro sull'Egitto continua in modo particolareggiato intorno a vari argomenti: norme giuridiche, educazione dei fanciulli, sacrifici e riti religiosi, animali considerati sacri... Emergono dal racconto particolari che senza dubbio ci riportano ad usi e costumi egiziani, conosciuti dall'autore a cui Diodoro attinge, sia per visione diretta64 sia attraverso Erodoto65. Ciò che conta però — sia lecito ripeterlo ancora una volta — è il fatto che il sostrato dell'opera che riteniamo di Ecateo, lo spirito cioè che la anima, è greco: incliniamo pertanto a credere che gli evidenti rapporti con la Ιερά Αναγραφή, si possano spiegare proprio per questa comune derivazione da correnti di pensiero assai diffuse nel mondo greco del tempo, senza la necessità di ammettere un'influenza diretta di Ecateo su Evemero.

Ci limiteremo ad un accenno a Leone di Pella, cui risale uno scritto di tendenza razionalistica — o meglio evemeristica — intorno all'Egitto66. I pochi frammenti pervenutici di seconda mano, riguardano la divinità e denotano un indirizzo di idee affine a quello di Ecateo67. Sarebbe però azzardato affermare che ci sia stata un'influenza diretta di Leone su Ecateo o viceversa68, e ciò per quelle stesse argomentazioni per le quali non possiamo essere sicuri di un rapporto diretto fra Ecateo ed Evemero. Infatti anche la cronologia di Leone è incerta, pur essendovi da parte degli studiosi una generale tendenza a collocare il suo scritto nell'epοca immediatamente successiva ad Alessandro, quindi anteriore con ogni probabilità a quella di Ecateo. Di scarso aiuto sono pertanto i dati esterni, e il contenuto assai ridotto dell'opera ci permette appena di ravvisare in essa quelle caratteristiche comuni e indicative dell'epoca ellenistica.

***

Questo valga per le origini dell'evemerismo. La ragione del successo particolare di Evemero e l'attribuzione a lui di quella dottrina che abbiamo trovato espressa pure in altri scrittori, è dovuta al fatto che Evemero applico tale dottrina agli dèi propriamente greci. Inoltre la Ιερά Αναγραφή — per quanto possiamo desumere dagli stralci pervenutici attraverso Diodoro — doveva essere un'opera organica e ben congegnata, nella quale l'autore dopo aver delineato le caratteristiche naturali dell'isola di Pancaia, passava a descriverne le condizioni politico-sociali e le norme amministrative, per giungere poi alla parte culminate, rappresentata dalla stele con la sacra iscrizione su cui era narrata la storia degli dèi greci. Ad Evemero non dovettero mancare doti di concisione, chiarezza espositiva ed anche una certa vivacità e malizia, senza dubbio favorevoli a cattivare il pubblico dei lettori. Tutto ciò sembra che manchi ad Ecateo, la cui opera di genere compilativo, si perde in lungaggini e spesso in ripetizioni ed è appesantita da una dottrina che l'autore non riesce a far sua perché non la sente69.

Alla conoscenza di Evemero e alla diffusione delle teorie da lui esposte, contribuì non poco la traduzione latina della Ιερά Αναγραφή fatta da Ennio, ed è di tale traduzione che si valsero i padri della chiesa per combattere le dottrine pagane con armi fornite loro dai pagani stessi. Senza addentrarci nello studio della fortuna di Evemero nel mondo romano dove nell'interpretazione del pensiero del nostro autore, prevalse appunto l'indirizzo non sempre obiettivo della patristica, considereremo brevemente le ragioni per le quali in un determinato momento si manifestò a Roma interesse per Evemero e la sua opera: interesse, vedremo, così profondo e sostanziale che l'evemerismo fu assimilato e assorbito dal mondo latino. Ci proporremo il problema in modo analogo a quello in cui ce lo proponemmo per la Grecia: Ennio prenderà il posto di Evemero, seppure con il ruolo secondario di interprete e diffusore di una dottrina già altrove affermata. La versione latina di Εnniο della Ιερά Αναγραφή, a noi nota quasi unicamente attraverso i brani citati da Lattanzio, fu composta all'incirca un secolo dopo l'opera originale. Siamo quindi a Roma nell'epoca intorno alla seconda guerra punica. Le nuove correnti di pensiero e le nuove teorie filosofiche dovute all'influsso straniero — etrusco forse per quanto riguarda alcune concezioni intorno alle divinità70, e più estesamente greco — che si vanno via via diffondendo in occidente, producono grandi mutamenti nel campo religioso, politico e sociale. Ennio è il rappresentante di questa crisi spirituale: egli, il cantore di Roma, benché straniero di nascita, sentirà la grandezza della patria d'adozione nel suo giusto valore, seguendone e in certo modo anticipandone l'evoluzione nel tempo, senza lasciarsi opprimere dal peso di tradizioni superate e rivelando una mente aperta agli ideali vivi e innovatori. Il suo interesse per l'evemerismo va pertanto al di là di un interesse letterario ed è rivolto alla dottrina vera e propria nel suo significato —sia consentita l'apparente contraddizione verbale — più immediato e più lontano71. Il contrasto di questa dottrina con l'antico concetto che i Romani avevano della divinità è grandissimo ed è ovvio che Ennio se ne sia reso conto: la conoscenza lacunosa che noi oggi abbiamo della sua interpretazione della Ιερά Αναγραφή, non ci consente però di asserire che egli abbia lasciato da parte con intenzione gli dèi più prettamente latini72. Se così fosse si potrebbe pensare che Ennio avesse voluto evitare un attacco diretto alla religione tradizionale, senza mancare tuttavia lo scopo di fomentare quel movimento spirituale che, sebbene latente, cominciava ad essere avvertito anche nel mondo romano.

In Roma si verifica un processo simile a quello che si verificò in Grecia nell'età di Alessandro, con la differenza che qui — dato il diverso punto di partenza — il cambiamento sarà più forte e in un certo senso più radicale. I Greci avevano uno spirito duttile, pronto ad accogliere le innovazioni nonché i compromessi con la loro coscienza religiosa: possedevano inoltre la nozione degli eroi e semidei, e gli dèi stessi erano da loro concepiti come persone e rappresentati in figura vicina all'umana. Gli antichi Romani invece erano privi di sfumature e ignoravano i mezzi termini: i loro dèi non erano individualità, bensì forze, potenze, che si esprimevano nella natura senza assumere mai forma visibile. Cionondimeno anche a Roma l'evoluzione spirituale e psicologica non fu unicamente dovuta a influenza straniera, bensì alle mutate condizioni interne della vita politica e sociale, e al conseguente manifestarsi in questo campo, di nuove esigenze. Gli uomini cessano di essere unità equivalenti conglobate nell'ingranaggio statale, tra di essi emergono forti personalità di capi e di condottieri che le guerre e le rivoluzioni mettono in luce e propongono all'ammirazione del popolo.

È un graduale affermarsi dell'individualismo soggettivamente e oggettivamente inteso. La contemporanea diffusione di concezioni antropomorfiche insinua nelle menti romane idee che soltanto pochi decenni prima sarebbero state loro del tutto ostiche. Si aprono più vasti orizzonti: umanità e divinità sono ormai su un medesimo piano. Sfruttando lo stato d'animo popolare, soggiogato dal fascino delle nuove teorie, era facile a individui d'eccezione presentarsi quali discendenti divini e ricevere il tributo di onoranze riservate prima esclusivamente agli dèi. Scipione è l'uomo del momento: valoroso soldato a cui arrise il successo sui campi di battaglia, profondo conoscitore e ammiratore della cultura greca, legato a Ennio da intima amicizia, si presenta come il depositarlo del volere divino che viene a lui palesato in mistici colloqui73. Egli può essere considerato il precursore ovvero il capostipite di quel circolo degli Scipioni che negli anni successivi riunirà gli spiriti più eletti di Roma con lo scopo di studiare, assimilare e diffondere le conquiste della filosofia greca74. Nei confronti dell'Africano Maggiore sembra manifestarsi a Roma per la prima volta il culto della personalità, che aprirà lentamente la strada al culto imperiale.

Ennio contribuì non poco all'esaltazione di Scipione: in primo luogo rendendo accessibile ai Romani la dottrina di Evemero, li induceva a modificare il concetto della divinità e facilitava loro la realizzazione di quel processo che, secondo Evemero, si sarebbe verificato fin dai tempi antichissimi, e che la mentalità primitiva non aveva saputo individuare, limitandosi ad accettarne i risultati, i quali — in quanto tali — avevano assunto una forma sempre più cristallizzata. Inoltre egli ne celebrò la gloria apertamente nello Scipio, di cui purtroppo non possediamo che scarsi frammenti. Sembra comunque che si trattasse di una vera e propria apoteosi letteraria, stando alla testimonianza di un epigramma dello stesso Ennio indirizzato sempre a Scipione75, nonché di accenni di Silio Italico76 e di Lattanzio77.

L'evemerismo nel campo della letteratura aveva fatto degli dèi uomini: nella realtà storica si segue ora il procedimento inverso: sono gli uomini ad essere fatti dèί. Per Ennio tutto ciò è spiegabile e rientra nella sua formazione spirituale: anche le divinità superiori o celesti che egli, come gli altri evemeristi, ammette, sono da lui concepite in maniera conforme alla dottrina epicurea:

Ego deum genus esse semper dixi et dicam caelitum, Sed eos non curare opinor, quid agat humanum genus: Nam si curent, bene bonis sit, male malis, quod fune abest78.

Per i Romani tradizionalisti la cosa è differente e certo ci volle un periodo di adattamento prima che tali idee innovatrici penetrassero i vari strati della popolazione e fossero universalmente accettate. L'influenza di Ennio coadiuvata, come vedemmo, da un complesso di circostanze concomitanti, fu però di vasta portata e preparò gli animi ad accogliere il concetto della divinità degli imperatori.

Riservandoci di tornare su questo punto, quando considereremo la posizione di Diodoro rispetto al problema, ricerchiamo ora le tracce dell'evemerismo nella letteratura greca degli ultimi secoli a. C. e del primi dell'èra volgare.

La cosa non è facile sempre per la ragione che — come si è detto — conoscendo noi Evemero per via indiretta, soltanto con approssimazione possiamo ricostruirne il pensiero, e non siamo in grado di fissare con assoluto rigore i limiti del suo insegnamento. Sembra di notare nella critica in genere ed in quanti si sono occupati della questione sia pure in forma marginale, una tendenza a individuare influssi evemeristicí là dove in realtà Evemero è assolutamente estraneo, e questa tendenza già derivante da un'inesatta conoscenza del nostro autore, porta di necessità ad alterarne ulteriormente il pensiero. È pertanto nostro proposito inquadrare il problema in uno schema ben definito, prendendo in esame e ponendo a raffronto quei testi che rivelano chiari e precisi punti di contatto con la dottrina evemeristica vera e propria. Lasceremo da parte gli sviluppi a cui questa dottrina in epoca successiva poté dar luogo, per evitare di cadere nel vago e di avanzare ipotesi che, prive di solide basi, non farebbero altro che infittire la nebulosità che circonda la figura del nostro autore. Come per la conoscenza della Ιερά Αναγραφή siamo debitori in massima parte a Diodoro, così è ancora Diodoro che ha per noi il merito di conservare passi — ricavati, pare, da autori diversi — che presentano indubbia relazione con l'opera del nostro. Giova qui ricordare che di Evemero è passata alla storia la dottrina riguardante la divinità, tema, come dicemmo, divenuto vieppiú scottante con il progredire della speculazione filosofica, e al quale egli propose una soluzione che ai Greci conservatori sembrò a tutta prima empia e rivoluzionaria. Omettendo dunque le teorie politico-sociali, i riferimenti storico-geografici, e tutti quegli elementi che costituiscono la parte marginale della Ιερά Αναγραφή79, avremo lo schema dell'evemerismo comunemente inteso, schema che può essere rappresentato con questa semplice espressione: «gli dèi non sono altri che uomini, o più precisamente re, i quali avendo esercitato la giustizia e la beneficenza furono divinizzati».

Non sembra quindi ci siano relazioni fra Evemero e Polibio80. Secondo Polibio i vati, i sapienti meritano onore e potere e sono creati re: gli dèi poi sono onorati in quanto si siano resi utili ed abbiano fatto del bene81, ma — si osservi — sono dèi indipendentemente da questi loro meriti umanitari. Polibio del resto non si pone il problema religioso in sé e per sé, bensì lo considera indirettamente per i riflessi che esso porta nella vita dello stato. Egli è un razionalista: non crede alle divinità, ai riti, alle manifestazioni della religione popolare, però, come già i sofisti, vede nel mondo divino una garanzia di sicurezza per lo stato, un freno agli istinti e alle passioni pericolose della folla ignorante priva dei profondi ideali dello spirito82.

***

La prima eco sicura della dottrina di Evemero la riscontriamo nell'ampio estratto della narrazione di Dionisio Scytobrachion, riportato sempre da Diodoro. Dionisio visse intorno al II secolo a. C., esercitò l'attività di grammatico ad Alessandria, ed è soprattutto noto come scrittore di romanzi mitologici83. In uno di questi egli espone in forma alquanto particolareggiata la storia e le credenze degli Atlantide, presso i quali — stando alle loro proprie affermazioni84 — avrebbe avuto origine la stirpe degli dèi, di cui fu capostipite Urano, dèi dotati di caratteristiche analoghe a quelle delle divinità menzionate nella stele di Pancaia:

μυθολογοῦσι δὲ πρῶτον παρ᾽ αὑτοῖς Οὐρανὸν βασιλεῦσαι καὶ τοὺς ἀνθρώπους σποράδην οἰκοῦντας συναγαγεῖν εἰς πόλεως περίβολον, καὶ τῆς μὲν ἀνομίας καὶ τοῦ θηριώδους βίου παῦσαι τοὺς ὑπακούοντας, εὑρόντα τὰς τῶν ἡμέρων καρπῶν χρείας καὶ παραθέσεις καὶ τῶν ἄλλων τῶν χρησίμων οὐκ ὀλίγα: κατακτήσασθαι δ᾽ αὐτὸν καὶ τῆς οἰκουμένης τὴν πλείστην, καὶ μάλιστα τοὺς πρὸς τὴν ἑσπέραν καὶ τὴν ἄρκτον τόπους. [4] τῶν δὲ ἄστρων γενόμενον ἐπιμελῆ παρατηρητὴν πολλὰ προλέγειν τῶν κατὰ τὸν κόσμον μελλόντων γίνεσθαι: εἰσηγήσασθαι δὲ τοῖς ὄχλοις τὸν μὲν ἐνιαυτὸν ἐνιαυτὸν ἀπὸ τῆς τοῦ ἡλίου κινήσεως, τοὺς δὲ μῆνας ἀπὸ τῆς σελήνης, καὶ τὰς κατ᾽ ἔτος ἕκαστον ὥρας διδάξαι. [5] διὸ καὶ τοὺς πολλούς, ἀγνοοῦντας μὲν τὴν τῶν ἄστρων αἰώνιον τάξιν, θαυμάζοντας δὲ τὰ γινόμενα κατὰ τὰς προρρήσεις, ὑπολαβεῖν τὸν τούτων εἰσηγητὴν θείας μετέχειν φύσεως, μετὰ δὲ τὴν ἐξ ἀνθρώπων αὐτοῦ μετάστασιν διά τε τὰς εὐεργεσίας καὶ τὴν τῶν ἄστρων ἐπίγνωσιν ἀθανάτους τιμὰς ἀπονεῖμαι: μεταγαγεῖν δ᾽ αὐτοῦ τὴν προσηγορίαν ἐπὶ τὸν κόσμον, ἅμα μὲν τῷ δοκεῖν οἰκείως ἐσχηκέναι πρὸς τὰς τῶν ἄστρων ἐπιτολάς τε καὶ δύσεις καὶ τἄλλα τὰ γινόμενα περὶ τὸν κόσμον, ἅμα δὲ τῷ μεγέθει τῶν τιμῶν ὑπερβάλλειν τὰς εὐεργεσίας, καὶ πρὸς τὸν αἰῶνα βασιλέα τῶν ὅλων αὐτὸν ἀναγορεύσαντας85.

Il passo messo a confronto con il corrispondente di Evemero:

μετά ταῦτά φησι πρῶτον Ούρανόν γενονέναι βασιλέα, έπιεικῆ τινα ἄνδρα καί εύεργετικόν καί της των άστρων κινήσεως επιστήμονα' ὅν καί πρῶτον θυσίαις τιμῆσαι τούς ούρανίους θεούς, διό καί Ούρανόν προσαγορευθήναι86.

rivela — a parte i più numerosi particolari — alcune nette divergenze. Lo stile di entrambi i passi è analogo, perché in entrambi è Diodoro a riferire il pensiero sia di Dionisio sia di Evemero, ed è proprio questa analogia di forma che ci consente di rilevare più agevolmente le disparità di contenuto87. Secondo Dionisio gli Atlantidi avrebbero attribuito il nome di Urano al firmamento, in quanto era fama che Urano avesse posseduto un'esatta conoscenza degli astri e del fenomeni celesti. Secondo Evemero invece Urano sarebbe stato così chiamato, perché per primo aveva onorato con sacrifici gli dèi celesti. La versione di Dionisio si avvicina pertanto a quella che dello stesso episodio è data nella traduzione di Ennio della Ιερά Αναγραφή, con la sola differenza che secondo Ennio è Giove che impone al cielo il nome dell'avo, mentre secondo Dionisio è la credenza popolare. Di tale problema che investe uno dei punti più controversi e incerti della dottrina evemeristica, già ci occupammo88; a conferma però della tesi da noi sostenuta vorremmo ancora osservare che Evemero parla di sacrifici resi da Urano agli dèi celesti, e dice che proprio per questo suo atto di omaggio verso divinità superiori, sarebbe stato a lui attribuito il nome di Urano, Dionisio invece parla di una semplice conoscenza scientifica dei «fenomeni celesti da parte di Urano. C'è una differente scala di valori: da un lato divinità celesti e divinità terrene, dall'altro fenomeni celesti (non divinità), e quindi qualcosa di inferiore alle divinità terrene. In Dionisio la rappresentazione di Urano non è molto chiara, e questo dio pare un po' oscillante fra le divinità celesti e le divinità terrene. Come conseguenza dell'attribuzione del suo nome al cielo egli viene ad essere in certo modo assimilato al cielo, in quanto proprio per questo diventa in eterno re dell'universo, onore certo superiore ai benefici da lui resi all'umanità. Confrontiamo ancora i due testi. Evemero dice: «Per primo fu re Urano, un uomo giusto e benefico, conoscitore dei movimenti degli astri». Dionisio non dice che Urano sia stato un uomo, bensì presentandolo immediatamente investito delle funzioni caratteristiche degli dèi, lascia supporre che quest'essere fosse in effetti un dio. Citiamo testualmente: «Per primo regnò Urano»89, che insegnò agli uomini le norme della civiltà, per la quale ragione «i più ritennero che l'inventore di queste cose partecipasse della natura divina, e dopo il suo allontanamento dagli uomini, per i benefici (da lui resi all'umanità) e per la conoscenza degli astri, gli attribuirono onori divini». Non sembra qui trattarsi dell'apoteosi di un uomo, ma piuttosto del riconoscimento della divinità di un essere già partecipe della natura divina.

Motivi evemeristici si riscontrano a proposito di divinità secondarie ricordate da Dionisio:

«La madre dei Titani fu divinizzata dopo la morte, perché saggia e benefattrice dei popoli»:

τὴν δὲ Τιταίαν, σώφρονα οὖσαν καὶ πολλῶν ἀγαθῶν αἰτίαν γενομένην τοῖς λαοῖς, ἀποθεωθῆναι μετὰ τὴν τελευτὴν ὑπὸ τῶν εὖ παθόντων Γῆν μετονομασθεῖσαν90.

Riguardo a Espero figlio di Atlante:

τοῦτον δ᾽ ἐπὶ τὴν κορυφὴν τοῦ Ἄτλαντος ὄρους ἀναβαίνοντα καὶ τὰς τῶν ἄστρων παρατηρήσεις ποιούμενον ἐξαίφνης ὑπὸ πνευμάτων συναρπαγέντα μεγάλων ἄφαντον γενέσθαι: διὰ δὲ τὴν ἀρετὴν αὐτοῦ τὸ πάθος τὰ πλήθη ἐλεήσαντα τιμὰς ἀθανάτους ἀπονεῖμαι καὶ τὸν ἐπιφανέστατον τῶν κατὰ τὸν οὐρανὸν ἀστέρων ὁμωνύμως ἐκείνῳ προσαγορεῦσαι91.

e alle figlie di Atlante:

ὑπάρξαι δ᾽ αὐτὰς καὶ σώφρονας διαφερόντως, καὶ μετὰ τὴν τελευτὴν τυχεῖν ἀθανάτου τιμῆς παρ᾽ ἀνθρώποις καὶ καθιδρυθείσας ἐν τῷ κόσμῳ καὶ τῇ τῶν Πλειάδων προσηγορίᾳ περιληφθείσας92.

notiamo una contaminazione fra evemerismo e astrologia, il che ci rende inclini a dubitare che per Dionisio valesse in modo assoluto la distinzione fra divinità celesti o astrali e divinità terrene. Sembra quasi che l'evemerismo comparisca qui in funzione dell'astrologia, serva cioè a spiegare l'origine dei nomi degli astri. Ciò non è in contrasto con la fisionomia generale dello scritto di Dionisio, in cui manca la preoccupazione dell'esattezza dottrinale e abbonda invece la mescolanza di elementi e motivi riguardanti le diverse divinità93.

L'eco di Evemero torna a farsi sentire più distinto a proposito di Zeus, di cui prima è ricordata la lotta contro Crono per la supremazia, e poi sono menzionate le peregrinazioni sopra tutta la terra e i benefici resi all'umanità, che riconoscente lo proclama dio e signore dell'universo:

Κρόνου δὲ γενόμενον υἱὸν Δία τὸν ἐναντίον τῷ πατρὶ βίον ζηλῶσαι, καὶ παρεχόμενον ἑαυτὸν πᾶσιν ἐπιεικῆ καὶ φιλάνθρωπον ὑπὸ τοῦ πλήθους πατέρα προσαγορευθῆναι. διαδέξασθαι δ᾽ αὐτόν φασι τὴν βασιλείαν οἱ μὲν ἑκουσίως τοῦ πατρὸς παραχωρήσαντος, οἱ δ᾽ ὑπὸ τῶν ὄχλων αἱρεθέντα διὰ τὸ μῖσος τὸ πρὸς τὸν πατέρα: ἐπιστρατεύσαντος δ᾽ ἐπ᾽ αὐτὸν τοῦ Κρόνου μετὰ τῶν Τιτάνων κρατῆσαι τῇ μάχῃ τὸν Δία, καὶ κύριον γενόμενον τῶν ὅλων ἐπελθεῖν ἅπασαν τὴν οἰκουμένην, εὐεργετοῦντα τὸ γένος τῶν ἀνθρώπων94.

Diodoro passa poi a parlare delle antiche credenze su Dioniso, attingendo sia a Dionisio Scytobrachion, sia a un manuale mitologico95. Si tratta di una divinità dalle origini molto controverse — la tradizione ricorda più di un Dioniso96 — conosciuta non solo dai Greci bensì anche dai cosiddetti popoli barbari, i quali rivendicavano alla loro patria l'onore di aver dato i natali a Dioniso97. L'incertezza e la discordanza delle fonti mettono qui in imbarazzo Diodoro, il quale a un certo punto si dimostra dubbioso nel decidere se Dioniso debba essere considerato un dio vero e proprio o debba invece essere annoverato nella categoria degli eroi e semi-dèi98. Il dubbio sembra però risolversi a favore della prima ipotesi, anche per quanto riguarda l'opinione diretta dei Greci99. A Dioniso l'umanità riconoscente per i benefici ricevuti, rende sacrifici e onori divini, e conferisce l'immortalità:

ὁμοίως δὲ καὶ τῶν ἄλλων εὑρημάτων μεταδόντα πᾶσι τυχεῖν αὐτὸν μετὰ τὴν ἐξ ἀνθρώπων μετάστασιν ἀθανάτου τιμῆς παρὰ τοῖς εὖ παθοῦσιν100.

Ed ancora:

ἀνθ᾽ ὧν τοὺς εὖ παθόντας ἀπονεῖμαι τιμὰς ἰσοθέους αὐτῷ καὶ θυσίας, προθύμως ἁπάντων ἀνθρώπων διὰ τὸ μέγεθος τῆς εὐεργεσίας ἀπονειμάντων τὴν ἀθανασίαν101.

I Titani stessi sconfitti da Dioniso, lo adorano quale dio:

διὰ δὲ τὸ παράδοξον τῆς σωτηρίας προσκυνεῖν αὐτοὺς ὡς θεόν102.

E l'aio Aristeo è il primo fra gli uomini a sacrificare a lui come a una divinità:

μυθολογοῦσιν Ἀρισταῖον τὸν ἐπιστάτην αὐτοῦ θυσίαν τε παραστῆσαι καὶ πρῶτον ἀνθρώπων ὡς θεῷ θῦσαι103.

Tipicamente evemeristico è il concetto di un Dioniso che vuole il genere umano partecipe dei suoi ritrovati, proprio perché aspira a onori immortali:

καὶ βουληθῆναι τῷ γένει τῶν ἀνθρώπων μεταδοῦναι τῶν ἰδίων εὑρημάτων, ἐλπίσαντα διὰ τὸ μέγεθος τῆς εὐεργεσίας ἀθανάτων τεύξεσθαι τιμῶν104.

E di Dioniso che vuole lasciare perpetua memoria di sé:

βουλόμενον ἀθάνατον ἀπολιπεῖν ὑπόμνημα τῆς ἰδίας ἀρετῆς, τὸ καὶ διαμεῖναν μέχρι τῶν νεωτέρων χρόνων105.

Questi passi ci richiamano allo Zeus di Evemero, il quale va errando di regione in regione e dovunque fa inalzare templi dedicati al suo nome106.

Gli onori divini e l'immortalità quale compenso conseguente all'espansione del potere e all'elargizione dei benefici, sono motivi prettamente evemeristici che ricorrono di frequente a proposito di Dioniso:

...καὶ τήν τε πατρῴαν ἀνακτήσεσθαι βασιλείαν καὶ πάσης τῆς οἰκουμένης κυριεύσαντα θεὸν νομισθήσεσθαι107.

... ὅτι τοὺς ἀνθρώπους εὐεργετῶν τεύξεται τῆς ἀθανασίας108.

... πάντας δὲ προθύμως ὑπακούοντας ἐπαίνοις καὶ θυσίαις ὡς θεὸν τιμᾶν109.

τῷ δ᾽ αὐτῷ τρόπῳ φασὶν ἐπελθεῖν τὴν οἰκουμένην, ἐξημεροῦντα μὲν τὴν χώραν ταῖς φυτείαις, εὐεργετοῦντα δὲ τοὺς λαοὺς μεγάλαις τιμαῖς καὶ χάρισι πρὸς τὸν αἰῶνα. διὸ καὶ πάντας τοὺς ἀνθρώπους ἐν ταῖς πρὸς τοὺς ἄλλους θεοὺς τιμαῖς οὐχ ὁμοίαν ἔχοντας προαίρεσιν ἀλλήλοις σχεδὸν ἐπὶ μόνου τοῦ Διονύσου συμφωνουμένην ἀποδεικνύειν μαρτυρίαν τῆς ἀθανασίας110.

Da questi passi risulta pure evidente che l'immortalità fu conferita a Dioniso mentre era ancora in vita.

Ancora ad Evemero, e precisamente a Zeus che inalza un'ara ad Urano, fa pensare Dioniso che erige l'oracolo-santuario in onore del padre Ammone, e istituisce per lui un culto:

...τό τε χρηστήριον ἱδρύσατο τοῦ πατρὸς καὶ τὴν πόλιν οἰκοδομήσας τιμὰς ὥρισεν ὡς θεῷ καὶ τοὺς ἐπιμελησομένους τοῦ μαντείου κατέστησε111.

Ed evemeristica è altresì la maniera di definire la morte «un passaggio dalla vita umana all'immortalità»:

μετὰ δὲ ταῦτα Ἄμμωνος καὶ Διονύσου μεταστάντων ἐκ τῆς ἀνθρωπίνης112.

Sempre in Diodoro avevamo già trovato il mito di Dioniso, narrato in modo analogo a quello di Dionisio Scytobrachion, là dove egli descrive gli inizi della civiltà dell'India. Dioniso sarebbe stato appunto divinizzato per gli apporti da lui recati allo sviluppo ditale civiltà:

μυθολογοῦσι δὲ παρὰ τοῖς Ἰνδοῖς οἱ λογιώτατοι, περὶ οὗ καθῆκον ἂν εἴη συντόμως διελθεῖν. φασὶ γὰρ ἐν τοῖς ἀρχαιοτάτοις χρόνοις, παρ᾽ αὐτοῖς ἔτι τῶν ἀνθρώπων κωμηδὸν οἰκούντων, παραγενέσθαι τὸν Διόνυσον ἐκ τῶν πρὸς ἑσπέραν τόπων ἔχοντα δύναμιν ἀξιόλογον: ἐπελθεῖν δὲ τὴν Ἰνδικὴν ἅπασαν, μηδεμιᾶς οὔσης ἀξιολόγου πόλεως τῆς δυναμένης ἀντιτάξασθαι... [5]...καθόλου δὲ πολλῶν καὶ καλῶν ἔργων εἰσηγητὴν γενόμενον θεὸν νομισθῆναι καὶ τυχεῖν ἀθανάτων τιμῶν113.

E per le stesse ragioni sarebbe stata attribuita la divinizzazione anche ad Ercole:

καὶ τὸν μὲν Ἡρακλέα τὴν ἐξ ἀνθρώπων μετάστασιν ποιησάμενον ἀθανάτου τυχεῖν τιμῆς114.

La fonte di Diodoro per quanto riguarda l'India è in massima parte Megastene, come si è potuto stabilire dal confronto con la Storia indica di Arriano che è assai simile all'estratto di Diodoro. Può darsi che la nota evemeristica — che riguardo a Ercole manca in Arriano — sia dovuta a un'interferenza estranea115, però non è assolutamente necessario ricorrere a tale ipotesi. Megastene visse fra il 350 e il 290 a. C., la sua opera quindi fu composta al principio del terzo secolo, proprio quando le idee evemeristiche cominciavano a farsi strada, ed è perciò naturale che risenta l'influenza delle concezioni generali dell'età alessandrina.

Di Ercole riprende poi a narrare Diodoro, attingendo non più a Dionisio Scytobrachion, bensì a un trattato mitologico ispirato alle medesime tendenze. Ercole sembra appartenere decisamente alla categoria degli eroi: l'immortalità fu il premio delle sue imprese straordinarie ed eccelse fra quante memoria d'uomo ricordi:

δυσέφικτον οὖν ἐστι τὸ κατὰ τὴν ἀξίαν ἕκαστον τῶν πραχθέντων ἀπαγγεῖλαι καὶ τὸν λόγον ἐξισῶσαι τοῖς τηλικούτοις ἔργοις, οἷς διὰ τὸ μέγεθος ἔπαθλον ἦν ἡ ἀθανασία116.

Imprese che egli compie proprio per il desiderio di ottenere questo compenso:

...καὶ τοὺς ἄθλους ἀποτετελεκώς, προσεδέχετο τῆς ἀθανασίας τεύξεσθαι, καθάπερ ὁ Ἀπόλλων ἔχρησεν117.

Anche per Ercole si verifica l'ormai ben noto processo di divinizzazione118:

Ἡρακλῆς δὲ παρελθὼν εἰς Δελφοὺς καὶ περὶ τούτων ἐπερωτήσας τὸν θεόν, ἔλαβε χρησμὸν τὸν δηλοῦντα διότι τοῖς θεοῖς δέδοκται δώδεκα ἄθλους τελέσαι προστάττοντος Εὐρυσθέως, καὶ τοῦτο πράξαντα τεύξεσθαι τῆς ἀθανασίας119

Che l'immortalità di una divinità o di un eroe debba essere posta in relazione alle imprese da lui compiute, è un dato acquisito. Quando però questa relazione diviene troppo stretta, notiamo che l'immortalità è abbassata addirittura al livello delle cose materiali, tanto da essere considerata quantitativamente:

ὁμοίως δὲ καὶ αὐτῷ τῷ Ἡρακλεῖ τούτου συμβαίνοντος, καὶ τοῦ ἄθλου δεκάτου τελουμένου, νομίσας ἤδη τι λαμβάνειν τῆς ἀθανασίας, προσεδέχετο τὰς τελουμένας ὑπὸ τῶν ἐγχωρίων κατ᾽ ἐνιαυτὸν θυσίας120.

La narrazione di Diodoro non sempre procede con ordine: talora è l'esposizione di dottrine religiose che gli suggerisce riferimenti a popoli e a luoghi diversi, talora invece la descrizione delle varie regioni della terra, degli abitanti e dei loro usi e costumi, lo induce ad entrare altresì nel campo delle credenze e dei culti religiosi vigenti in quei luoghi. Così, parlando dell'isola di Creta che era ritenuta la culla degli dèi121, Diodoro rifà la storia delle antiche divinità, anche qui rappresentate secondo l'ormai più volte menzionata concezione evemeristica. I primi abitanti di Creta ottennero onori immortali per aver beneficato il genere umano:

οἱ δ᾽ οὖν κατὰ τὴν Κρήτην Ἰδαῖοι Δάκτυλοι...δόξαντας δὲ μεγάλων ἀγαθῶν ἀρχηγοὺς γεγενῆσθαι [6] τῷ γένει τῶν ἀνθρώπων τιμῶν τυχεῖν ἀθανάτων122.

Analogamente i Titani:

ὧν ἕκαστόν τινων εὑρετὴν γενέσθαι τοῖς ἀνθρώποις, καὶ διὰ τὴν εἰς ἅπαντας εὐεργεσίαν τυχεῖν τιμῶν καὶ μνήμης ἀενάου123.

Per i Titani troviamo un'ulteriore precisazione: essi non solo meritarono onori immortali, ma furono anche ammessi nell'Olimpo:

οὗτοι μὲν οὖν οἱ θεοὶ πολλὰ τὸν ἀνθρώπινον βίον εὐεργετήσαντες οὐ μόνον ἀθανάτων τιμῶν ἠξιώθησαν, ἀλλὰ καὶ πρῶτοι τὸν Ὄλυμπον ἐνομίσθησαν οἰκεῖν μετὰ τὴν ἐξ ἀνθρώπων μετάστασιν124.

Tale precisazione, su cui Diodoro non si sofferma, lascia supporre che la dimora nell'Olimpo fosse un qualcosa di più dell'immoralità, una prerogativa — come risulta anche da passi che vedremo in seguito — riservata agli dèi veri e propri, beninteso sempre della seconda categoria, e dalla quale erano esclusi i semi-dèi e gli eroi. La storia delle divinità si sviluppa ormai secondo uno schema preordinato e Diodoro usa sempre gli stessi termini e le medesime espressioni. Crono, terminata la vita fra gli uomini, raggiunge gli dèi:

... καί τινες μέν φασιν αὐτὸν μετὰ τὴν ἐξ ἀνθρώπων τοῦ Κρόνου μετάστασιν εἰς θεοὺς διαδέξασθαι τὴν βασιλείαν125.

Al suo regno segue quello di Zeus, il quale Zeus si distingue per potenza e generosità, si da meritare la dimora nell'Olimpo come re in eterno:

διὰ δὲ τὸ μέγεθος τῶν εὐεργεσιῶν καὶ τὴν ὑπεροχὴν τῆς δυνάμεως συμφώνως αὐτῷ παρὰ πάντων συγκεχωρῆσθαι τήν τε βασιλείαν εἰς τὸν ἀεὶ χρόνον καὶ τὴν οἴκησιν τὴν ἐν Ὀλύμπῳ126.

A Zeus sono resi onori particolari, ed è cosa naturale e ovvia per gli uomini che da lui sono stati beneficati, ammetterne la sovranità:

καταδειχθῆναι δὲ καὶ θυσίας αὐτῷ συντελεῖν ὑπὲρ τοὺς ἄλλους ἅπαντας, καὶ μετὰ τὴν ἐκ γῆς μετάστασιν εἰς τὸν οὐρανὸν ἐγγενέσθαι δόξας δικαίους ἐν ταῖς τῶν εὖ πεπονθότων ψυχαῖς, ὡς ἁπάντων τῶν γινομένων κατ᾽ οὐρανὸν οὗτος εἴη κύριος127.

Poco oltre un breve accenno ad Ercole sottolinea il ben noto tema:

τοῦτον [...]διὰ δὲ τὰς εὐεργεσίας ἀθανάτου τιμῆς ἔτυχε παρ᾽ ἀ νθρώποις128.

I testi greci presi finora in esame, ribadiscono i pochi concetti fondamentali dell'evemerismo. Non abbiamo ridotto la rassegna — pur rischiando di essere monotoni — perché da questa risulta come la dottrina rivoluzionaria del nostro autore nel giro di alcuni decenni prolungò il suo raggio di espansione e ispirò tutta una letteratura.

La Biblioteca di Diodoro è per noi la fonte di questi dati interessanti anche dal punto di vista storico. Giunti al termine della nostra indagine, sembra perciò naturale porsi la domanda se Diodoro sia stato o no un seguace dell'evemerismo, e a tale domanda saremmo propensi a rispondere affermativamente. Pur restando infatti la sua opera, un'opera compilatoria, di cui sovente egli stesso cita le fonti — e dove non le cita si è potuto rintracciarle valendosi di indizi sicuri — nondimeno essa, specie nella prima parte in cui alla storia si mescola la leggenda e in cui non esiste confine tra reale e fantastico, riflette l'interesse diretto dell'autore, se non addirittura la sua posizione personale di fronte alle dottrine che espone. Si tratta, è vero, nel maggior numero dei casi, di dati di fatto, valori quindi oggettivi: la teologia degli Egizi, la Ιερά Αναγραφή, la storia degli Atlantide; ma, sia in questi passi, sia, in modo ancora più vistoso, in quelli in cui sono riferite credenze e miti anonimi intorno alle divinità più comuni, si nota da parte di Diodoro una certa compiacenza nell'indugiare, nel ritornare sui motivi che sono alla base dell'evemerismo (l'elargizione di benefici all'umanità, l'assolvimento di imprese straordinarie: azioni che meritano come compenso onori divini).

La visione storica di Diodoro è pertanto evemeristica: i primi protagonisti della storia, sia dei popoli barbari sia dei Greci, sono dèi, eroi, semi-dèi, uomini illustri che meritarono onori divini, culti e sacrifici, unicamente per aver beneficato l'umanità, ed unicamente per questo la storia li celebrò con lodi immortali129. Diodoro accetta in pieno tale dottrina, generalizzata com'essa fu da Evemero:

περὶ ὧν ἐν ταῖς συγγραφαῖς αὐτοῦ λέγει καὶ ὁ ∆ιόδωρος ὁ σοφώτατος ταῦτα ὅτι ἄνθρωποι γεγόνασιν οἱ θεοί, οὕστινας οἱ ἄνθρωποι ὡς νομίζοντες δι' εὐεργεσίαν ἀθανάτους προσηγόρευον130.

Questo per quanto concerne le fasi più antiche della storia. Scendendo nel tempo — l'opera di Diodoro arriva fino all'età di Cesare — vediamo affermarsi quale fenomeno politico più che religioso, il culto della personalità, ovvero il culto dei sovrani: la forma attuale — allora — dell'evemerismo. Diodoro usa a questo riguardo un linguaggio alquanto sobrio e misurato, il linguaggio distaccato del cronista. Egli non sente il problema; forse perché si trovò a vivere in un'epoca di transizione, in cui il mito di Alessandro era un po' svaporato, o perlomeno era stato riportato alle sue giuste proporzioni131, e la divinità degli imperatori romani non era stata ancora proclamata; forse perché quale straniero, se non proprio ostile, come sembrerebbe talvolta, era comunque indifferente all'affermarsi della potenza di Roma. Egli si limita a prendere atto delle imprese gloriose di Cesare e del fatto che a seguito di esse il condottiero romano fu chiamato dio132. Concludendo, l'interesse di Diodoro per l'evemerismo non pare determinato da fatti contingenti, non è un interesse vivo che sa e vuole cogliere di una dottrina gli elementi vitali, attuali ed attuabili, ma è l'interesse dell'antiquario, dell'erudito che si ferma su un'epoca per lui cristallizzata senza soluzioni di continuità con le successive133.

***

Una eco del pensiero di Evemero la riscontriamo ancora nella Praeparatio Evangelica di Eusebio, là dove l'autore espone la storia dei Fenici che, stando ai suoi detti, furono, «insieme agli Egizi, il popolo presso cui cominciò il vaneggiamento della fede pagana passato poi ai Greci e agli altri popoli»134. Eusebio cita come fonti Erennio Filone di Biblo e Porfirio che dipende a sua volta da Filone. Quest'ultimo avrebbe tradotto in greco l'opera di un certo Sanchuniaton, composta nella lingua dei Fenici e basata su documenti ritrovati in antiche città e su iscrizioni di templi135. Intorno al problema di Sanchuniaton molto si è discusso. La tesi sostenuta in un primo tempo da alcuni critici, che Sanchuniaton fosse una persona immaginaria e tutto il racconto di Filone una mistificazione ideata allo scopo di dare maggiore attendibilità alla dottrina evemeristica di cui egli sarebbe stato seguace136, è invalidata dalle recenti scoperte dei testi del letterato fenicio Ilumilku di Ugarit e dell'assirο Belubur. Il confronto di questi testi con le notizie che riguardo a Sanchuniaton danno Porfirio e Filone attraverso Eusebio, ha permesso di stabilire in gran parte l'autenticità di queste ultime, e quindi l'autenticità di Sanchuniaton quale personalità storica vissuta all'incirca nel 1500 a. C.137

οἱ παλαίτατοι τῶν βαρβάρων, ἐξαιρέτως δὲ Φοίνικές τε καὶ Αἰγύπτιοι, παρ’ ὧν καὶ οἱ λοιποὶ παρέλαβον ἄνθρωποι, θεοὺς ἐνόμιζον μεγίστους τοὺς τὰ πρὸς τὴν βιωτικὴν χρείαν εὑρόντας, ἢ καὶ κατά τι εὖ ποιήσαντας τὰ ἔθνη· εὐεργέτας τε τούτους καὶ πολλῶν αἰτίους ἀγαθῶν ἡγούμενοι ὡς θεοὺς προσεκύνουν, καὶ εἰς τὸ χρεὼν μεταστάντας ναοὺς κατασκευασάμενοι, στήλας τε καὶ ῥάβδους ἀφιέρουν ἐξ ὀνόματος αὐτῶν, καὶ ταῦτα μεγάλως σεβόμενοι, καὶ ἑορτὰς ἔνεμον αὐτοῖς τὰς μεγίστας Φοίνικες138.

Senza addentrarci oltre nei termini generali della questione, considereremo quei passi di Filone che sembrano portare un'impronta evemeristica. L'evemerismo non risale ovviamente a Sanchuniaton: come è Ecateo nei riguardi della religione egizia, così è Filone nei riguardi della religione fenicia a ragionare da evemerista, appoggiando la sua concezione con i dati che trovava nella più antica tradizione. Nei testi di Ugarit gli iniziatori della civiltà sono divinità, anche se rappresentate umanamente come in tutte le religioni primitive: per Filone invece essi saranno uomini, che a seguito del contributo da loro recato al progresso, verranno onorati quali dèi:

Anche i Fenici avrebbero distinto gli dèi in due categorie e attribuito agli astri — divinità eterne — il nome dei loro re:

ἐξαιρέτως δὲ καὶ ἀπὸ τῶν σφετέρων βασιλέων τοῖς κοσμικοῖς στοιχείοις καί τισι τῶν νομιζομένων θεῶν τὰς ὀνομασίας ἐπέθεσαν· φυσικοὺς δὲ ἥλιον καὶ σελήνην καὶ τοὺς λοιποὺς πλανήτας ἀστέρας καὶ τὰ στοιχεῖα καὶ τὰ τούτοις συναφῆ θεοὺς μόνους ἐγίνωσκον, ὥστ’ αὐτοῖς τοὺς μὲν θνητοὺς, τοὺς δὲ ἀθανάτους θεοὺς εἷναι139.

Ritorna pure qui il caso particolare di Urano:

ὃν ὕστερον ἐκάλεσαν Οὐρανόν· ὡς ἀπ’ αὐτοῦ καὶ τὸ ὑπὲρ ἡμᾶς στοιχεῖον δι’ ὑπερβολὴν τοῦ κάλλους ὀνομάζειν οὐρανόν140.

Tralasceremo la complessa e intricata genealogia delle divinità fenicie, poiché a noi della storia dei Fenici interessa non tanto il valore contenutistico, il dettaglio, quanto il criterio direttivo, il motivo ispiratore filtrato — come dicemmo — attraverso la personalità di Filone. La tendenziosità della sua interpretazione sarà ulteriormente accentuata da Eusebio, che scrivendo un'apologia contro il paganesimo, sceglierà fra i documenti disponibili, i meglio rispondenti al suo scopo, e darà loro uno speciale rilievo:

ὁ δὲ προιὼν, οὐ τὸν ἐπὶ πάντων θεὸν, οὐδὲ μὴν θεοὺς τοὺς κατ’ οὐρανὸν, θνητοὺς δὲ ἄνδρας καὶ γυναῖκας, οὐδὲ τὸν τρόπον ἀστείους, οἴους δι’ ἀρετὴν ἄξιον εἶναι ἀποδέξασθαι ἢ ζηλῶσαι τῆς φιλοσοφίας, φαυλότητος δὲ καὶ μοχθηρίας ἁπάσης κακίαν περιβεβλημένους Θεολογεῖ. καὶ μαρτυρεῖ γε τούτους αὐτοὺς ἐκείνους εἶναι, τοὺς εἰσέτι καὶ νῦν θεοὺς παρὰ τοῖς πᾶσι νενομισμένους κατά τε τὰς πόλεις καὶ τὰς χώρας. δέχου δὲ καὶ τούτων ἐκ τῶν ἐγγράφων τὰς ἀποδείξεις141.

Con il passare del tempo la letteratura — se così possiamo chiamarla — evemeristica sempre più risponderà a uno schema anche formale. Essa si vale di testimonianze antichissime, generalmente di sacre iscrizioni di mano di dèi o dèi-re142: la nota arcana e misteriosa143 dovrebbe accrescere la suggestione delle storie ormai comuni — i parallelismi stessi fra le divinità delle diverse religioni sono una prova di ciò — ivi narrate. Altri scrittori sono dalla tradizione annoverati fra gli evemeristi, ma per noi non sono che nomi, perché le loro opere, o sono interamente perdute, o sono note soltanto attraverso scarsi frammenti, giunti per via indiretta e privi per lo più di significato sostanziale.

Secondo Atenagora, Apollodoro di Atene nella sua opera Περὶ Θεῶν, avrebbe aderito alla concezione evemeristica per quanto riguarda le due categorie di diνinitá:

Καὶ ὅτι μὲν ἄνθρωποι, δηλοῦσι μὲν καὶ Αἰγυπτίων οἱ λογιώτατοι, οἵ, θεοὺς λέγοντες αἰθέρα γῆν ἥλιον σελήνην, τοὺς ἄλλους ἀνθρώπους θνητοὺς νομίζουσι καὶ ἱερὰ τούς τάφους αὐτῶν· δηλοῖ δὲ καὶ Ἀπολλόδωρος ἐν τῷ περὶ θεῶν144.

Ritenere in base a questa affermazione, Apollodoro evemerista, sembra però deduzione avventata145. Atenagora cita Apollodoro di seconda mano146, e anche la sua posizione di apologista ci autorizza a diffidare dell'attendibilità della sua interpretazione. Mancano pertanto elementi per un giudizio esatto intorno al περὶ θεῶν di Apollodoro, poiché i frammenti pervenutici mediante diversi scrittori rispecchiano gli ideali e i punti di vista di questi ultimi, piuttosto che di Apollodoro. L'uso delle etimologie, talora assurde147, la spiegazione dei nomi degli dèi, la configurazione antropomorfica di questi in base alle loro precipue virtù e poteri, non sono certo prerogative di Apollodoro, e potrebbero acquistare significato per il nostro scopo e permetterci di accostare Apollodoro all'evemerismο, soltanto dietro la convalida di indizi più sicuri che invece mancano totalmente.

Altrettanto incerta è la posizione di Mnasea di Patro, di cui pure sappiamo ben poco148. I frammenti pervenutici sia quali scoli a Omero, Esiodo, Pindaro, Apollonio, sia attraverso altri scrittori tardivi, dovevano far parte di un'opera geografico-mitologica. Il gusto per le etimologie, i proverbi, le genealogie delle divinità secondarie, l'accostamento di sovrani e tirannia queste divinità, sono i motivi ricorrenti che hanno fatto pensare a una tendenza everneristica di Mnasea, e di conseguenza indotto i critici a una sua svalutazione149.

Si tratta qui, in ogni caso, di un evemerismo degenerato, i cui rapporti con la dottrina originaria sono piuttosto lontani. Evemerismo e sfaldamento della religione sono due fenomeni strettamente collegati: degenerazione dell'evemerismo e progressivo decadimento della religione sono le conseguenze di questi fenomeni, le cui orbite rischiano di essere sovrapposte e confuse, proprio per l'espansione dei successivi sviluppi a cui diedero luogo.

Una risonanza evemeristica di scarso significato sembra potersi individuare in qualche frammento del cronografo Thallos150. Costui considera Crono, i Titani, Zeus e gli altri «cosiddetti dèi» uomini151, e Tertulliano, Lattanzio e Minucio sottolineano ovviamente questa opinione152.

È parimenti difficile dire se negli Oracoli Sibillini ci fu qualche infiltrazione evemeristica. Siamo ormai nel vago e nell'approssimativo, poiché in questa anonima raccolta non sicuramente databile, confluiscono svariate tendenze filosofico-religiose, e la rappresentazione delle lotte tra le antiche divinità e della loro rivalità per la supremazia non è necessariamente da ricondursi all'influenza dell'evemerismo153, bensì rientra nel panorama più vasto del razionalismo.

Non si deve equivocare tra razionalismo ed evemerismo: l'evemerismo è una conseguenza estrema — esasperata quasi — del razionalismo, quindi non tutti i seguaci di questa corrente di pensiero sono di necessità evemeristi. I capisaldi della dottrina di Evemero sono chiari e precisi: «gli dèi erano uomini», Evemero lo dice espressamente, questo è il punto essenziale, una realtà, non una possibilità affidata a un'intuizione ovvero a un'illazione più o meno plausibile e accettabile.

Non ci assumeremo infine l'arbitrio di negare perentoriamente l'eventualità che si possa ritrovare ancora qualche traccia di evemerismo nei frammenti di tardi scrittori o compilatori: ci sia consentito però di opinare che si tratterà in ogni caso di una eco sempre più lontana e indiretta dalla quale la voce del nostro autore, che oseremo dire sincera, senza dare con questa affermazione un giudizio sulla sua validità, risulterà alquanto alterata e sminuita nella sua efficacia e indubbia suggestione.


Note

1. G. VALLAURI, Evemero di Messene. Testimonianze e frammenti con Introduzione e Commento, Università di Torino, Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia, vol. VIII, 3, Torino 1956.

2. Cfr. Μ. WUNDT, Geschichte der griechischen Ethik, ΙΙ, Leipzig 1911, ρ. 42; Κ. I. KAERST, Geschichte des hellen Zeitalters, Berlin 1926, ρ. 80 ss.; W. TARN, Hellenistic Civilisation, London 1930, ρ. 44 ss.; W. SCHUBART, Die rel. Haltung des frühen Hellenismus, Leipzig 1937 (Der alte Urient 35-2).

3. Späthellenistische Berichte über Welt, Kultur und Götter, Basel 1959, p. 164 ss.

4. DIOD. V, 44, 3.

5. Cfr. XVII, 89, 3, dove è menzionato Alessandro che fa un sacrificio al Sole.

6. Spoerri stesso (o. c., p. 203, n. 12) cita a questo proposito Megastene.

7. O. c., p. 202.

8. I, 46, 8.

9. I, 46, 8.

10. De Isid. 6, p. 353 Β.

11. Cfr. E. SCHWARTZ in PAULY-WISSOWA, R. E. V', col. 670 ss.

12. O. c., p. 194.

13. Cfr. DIOD. I, 46, 8, in JACOBY, F. Gr. Hist, III A, Leiden 1940, p. 11 ss. Citeremo Diodoro-Ecateo sempre secondo l'edizione del Jacoby.

14. Lo Spoerri (ο. c., p. 163) attribuendo all'ἀναβλέψαντας un valore che va al di là del suo immediato significato letterale, vede in esso l'espressione di un topos molto diffuso nel tardo ellenismo e nella letteratura stoico-posidoniana: l'atteggiamento dell'uomo rivolto verso l'alto a denotare la suα superiorità sugli animali e la sua affinità con il cielo. Nella traduzione della Ιερά Αναγραφή di Ennio, troviamo però la corrispondente forma latina «suspexit» (LACT. Div. inst., I, 11, 63) a proposito di Giove che contempla il cielo; non c'è quindi ragione di pensare che anche la forma greca non fosse usata al tempo di Evemero e Ecateo.

15. DIOD., I, 11, 1.

16. Cfr. HYG., Poet. astr. II, 13; Et. 1. 215, 37.

17. Lo SCHWARTZ (Hekataeos von Teos, Rh. Mus. XL, 1885, p. 223 ss.) ritiene che Ecateo per quanto riguarda la divinità dei corpi celesti e gli elementi, si ricolleghi a dottrine platoniche e in particolare stoiche, intendendo naturalmente il più antico stoicismo.

18. Lo Spoerri (o. c., p. 195 ss.) riferendosi in modo particolare agli elementi qui in funzione di divinità, riporta tutta la dottrina teologica esposta nel passo di Diodoro al tardo ellenismo, e ritiene che l'autore segua riguardo alla distinzione delle categorie degli dèi un duplice criterio direttivo. Secondo il primo gli dèi sarebbero divisi in tre gruppi: astri, elementi, uomini divinizzati, conformemente a una teoria simile a quella di un Dionisio stoico. Seguirebbe poi una divisione degli dèi in due gruppi: dèi celesti e, dèi terreni. Quest'ultima sembra — a nostro avviso — essere in realtà la sola divisione valida fin dall'inizio, poiché nel testo è detto chiaramente che i cinque elementi sono prodotti e quindi parti del sole e della luna. Il passo concorda con un passo di Manetone in cui l'enumerazione dei cinque elementi, considerati divinità, segue quella del sole e della luna, essi pure divinità: in entrambi i passi la denominazione di questi elementi è uguale e infine anche in Manetone non manca l'accenno al fatto che uomini mortali (gli dèi del secondo gruppo) ricevettero un nome analogo a quello delle divinità (cfr. EUS., P. E. III, 2, 6 ss. in JACOBY, Fr. Gr. Hist. III C, 1, p. 100). Manetone, come dicemmo, è all'incirca dell'epoca di Ecateo: tale dottrina degli elementi può pertanto risalire al III secolo a. C.

19. Anche Manetone (cfr. PLUT., De Is. 9, p. 354 c) e Erodoto (II, 42) riferiscono che gli Egizi chiamavano Zeus col nome di Ammone. In Evemero c'è un accenno non molto chiaro ad Ammone: sembra comunque trattarsi di una divinità del secondo gruppo (cfr. DIOD. V, 44, 6 s.).

20. DIOD., I, 13, 1 ss.

21. O. c., p. 190s.

22. Cfr. G. VALLAURI, o. c., pp. 11, 50.

23. Praep. ev. II, 2, 58.

24. Cfr. EUS., Praep. ev. II, 2, 58.

25. Cfr. G. VALLAURI, o. c., p. 10 ss.

26. Su ciò è d'accordo anche Spoerri, o. c., pp. 190 s. n. 8, 192 s. n. 22 Ritroviamo le due categorie dì divinitá, senza ulteriori indizi evemeristici, a proposito delle credenze religiose degli Etiopi, di cui sempre Diodoro (III, 9, 1) parla:

περὶ δὲ θεῶν οἱ μὲν ἀνώτερον Μερόης οἰκοῦντες ἐννοίας ἔχουσι διττάς. ὑπολαμβάνουσι γὰρ τοὺς μὲν αὐτῶν αἰώνιον ἔχειν καὶ ἄφθαρτον τὴν φύσιν, οἷον ἥλιον καὶ σελήνην καὶ τὸν σύμπαντα κόσμον, τοὺς δὲ νομίζουσι θνητῆς φύσεως κεκοινωνηκέναι καὶ δι᾽ ἀρετὴν καὶ κοινὴν εἰς ἀνθρώπους εὐεργεσίαν τετευχέναι τιμῶν ἀθανάτων.

27. Cfr. Manetone in JACOBY, Fr. Gr. Hist. III C, pp. 82 s., 99 s.; HEROD., II, 145.

28. Spoerri (o. c., p. 193) ritiene che Diodoro-Ecateo e Evemero non siano d'accordo sulle caratteristiche degli dèi della seconda categoria. Siamo dinuovo di parere contrario al suo: sia per Ecateo sia per Evemero la prerogativa indispensabile per ottenere la divinizzazione è la εὐεργεσία (cfr. DIOD. I, 13, 1; EUS. P. E. II, 2, 53, 53). Spoerri medesima ammette un rapporto fra i nostri due autori per ciò che concerne l'appartenenza degli antichi sovrani alla seconda categoria degli dèi, la genealogia di questi ultimi e la loro attività. Il concetto dell'εὐεργέτης si affermò prima che lo stoicismo lo accogliesse: ancora Spoerri (p. 194 s.) richiama le tendenze politiche dell'ellenismo: Alessandro incarna la figura del βασιλεύς εὐεργέτης e lappellativo passa ai suoi successori.

29. Su questo punto della dottrina evemeristica ci soffermeremo in seguito. Ci limiteremo ora a sottolineare l'accordo tra Evemero ed Ecateo nell'interpretazione di un episodio di cui è pure attestata una versione contraria.

30. DIOD. I, 13 4.

31. Cfr. EUS. P. E. II, 2, 59.

32. Spoerri (ο. c., p. 195) osserva che la genealogia degli dèi esposta nel passo di Diodoro, concorda parte con Manetone — per quanto riguarda le divinità egizie —e parte con Evemero — per quanto riguarda le divinità greche —. Sempre Spoerri ritiene che l'«ἔνιοι δὲ τῶν ἱερέων» (DIOD. I, 13, 3) si riferisca a Manetone la cui genealogia inizia appunto con Efesto secondo una versione, secondo un'altra con Ermes (cfr. JACOBY, F. Gr. Hist. III C, I, p. 12, 82). Anche secondo Leone di Pella (cfr. JACOBY, F. Gr. Hist. III C, I, p. 210) il capostipite degli dèi sarebbe stato Efesto che in Evemero invece non compare per nulla.

33. DIOD. I, 14, 1.

34. LACT. Div. inst. I, 13, 2.

35. DIOD. I, 15, 3.

36. EUS. P. E.II, 2, 61; LACT. Div. inst. I, 11, 63; 1, 11, 65.

37. DIOD. I, 17, 1-2. Citiamo il passo dall'edizione di Diodoro di OLDFATHER, London 1933. Il Jacoby lo omette seguendo l'opinione dello SCHWARTZ (Hekateos von Teos, Rh. Mus. XL, 1885, p. 223 ss.), il quale lo ritiene di provenienza dubbia. Sempre lo Schwartz però, rivendicando l'attribuzione a Ecateo del passo di Diodoro I, 27, 3-6, in cui si parla delle tombe di Osiride e Iside, riconosce che il contenuto di quest'ultimo è strettamente collegato con quanto è detto in DIOD. I, 17-20.

38. LACT. Div. inst. 1, 22, 21 ss.

39. DIOD. I, 20, 5.

40.LACT. Div. inst. Ι, 11, 45.

41. DIOD. Ι, 20, 6.

42. LACT. Div. inst. Ι, 11, 46.

43. DIOD. Ι, 22, 2 ss.

44. LACT. Div. inst. Ι, 11, 46.

45. DIOD. Ι, 16. 2.

46. DIOD. V, 46, 7.

47. DIOD. Ι, 27, 3 ss.

48. EUS., P.E. ΙΙ, 2, 57; DIOD. V, 46, 7.

49. Cfr. DIOD. Ι, 13, 5; Ι, 14, 4; Ι, 15, 6; Ι, 17, 4.

50. PAULY-WISSOWA, R. Ε. VΙΙ (2), 2760.

51. Cfr. KAFRST, Geschichte des hellen. Zeitalters, Berlin 1909, p. 202 ss.; Η. FRANKFORT, Kingship and the Gods, Chicago 1948, p. 5.

52. Cfr. U. WILCKFΝ, Zur Entstehung des hellenist. Königskultes, Sitzungsb. der preuss. Akad. der Wissenschaf ten, Berlin 1938, p. 298 ss.

53. DIOD. Ι, 90, 2 b s.

54.Cfr. DK 84-B,5:

Πρόδικος δὲ ὁ Κεῖος «ἥλιον, φησί, καὶ σελήνην καὶ ποταμοὺς καὶ κρήνας καὶ καθόλου πάντα τὰ ὠφελοῦντα τὸν βίον ἡμῶν οἱ παλαιοὶ θεοὺς ἐνόμισαν διὰ τὴν ἀπ' αὐτῶν ὠφέλειαν, καθάπερ Αἰγύπτιοι τὸν Νεῖλον».

Πρόδικος δὲ τὸ ὠφελοῦν τὸν βίον ὑπειλῆφθαι θεόν, ὡς ἥλιον καὶ σελήνην καὶ ποταμοὺς καὶ λίμνας καὶ λειμῶνας καὶ καρποὺς καὶ πᾶν τὸ τοιουτῶδες.

Cfr. ancora: FRITZ in PAULY-WISSOWA, R. Ε. XXIII (1), 88; JACOBY in PAULY-WISSOWA, R. Ε. VI, 969; VII (2), 2753.

55. CIC. De nat. d. Ι, 15, 38. Cfr. DIELS, Fr. Vors6, ΙΙ, ρ. 317.

56. DIOD. Ι, 17, 2; Ι, 20, 5. Infondata appare pertanto l'opinione dello SCHWARTZ (o.c., ρ. 260): «Streng genommen trifft die Bezeichnung "Euhemerismus" nicht zu, da es für Euhemerus charakteristisch ist, dass nach ihm die Götter Könige sind, welche sich selbst bei ihren Lebzeiten dazu erklärt haben, nach Hekataeos aber solche, denen erst nach dem Tode göttliche Ehren zuerkannt worden sind».

57. LACT. Div. inst. I, 11, 45.

58. Cfr. HERZPG-HAUSER in PAULY-WISSOWA, R. Ε. Suppl. ΙV; 806 ss.; PFISTER, Der Reliquienkult im Atertum, Giessen 1909, ρ. 177; W. S. FERGUSON, Cambr. Ancient Hist. VII, 1928, p. 16; NILSSON, Gesch. der griech. Religion, II, München 1956, ρ. 128.

59. PAULY-WISSOWA, R. Ε. VII (2), 2759. Anche Spoerri (o. c., ρ. 193) sottolinea questo particolare senza però soffermarsi.

60. Div. inst. 1, 22, 21-23. L'«in tantam... insolentiam» e l'«astutissime» sembrano essere osservazioni di Lattanzio, piuttosto che parte del testo originale di Ennio.

61. LACT. Div. inst. I, 22, 26.

62. Cfr. NILSSON, o. c., p. 273 n. 2; Ε. KORNEMANN, Zur Geschichte der antiken Herrscherkulte, Klio I, 1902, p. 51 ss.

63. DIOD. I, 70, 1 ss. Non è chiara l'allusione che il JACOBY (PAULY-WISSOWA, R. Ε. VII (2), 2763) fa a questo riguardo a Evemero.

64. Stando a DIOD. I, 46, 8, Ecateo avrebbe visitato l'Egitto sotto Tolomeo Lago.

65. Cfr. JACOBY, F. Cr. Hist. III a (Kommentar), p. 75 ss.

66. JACOBY, F. Cr. Hist. III c (1) p. 208 ss.

67. Si veda p. e. l'identificazione di Iside con Demetra o Cerere (AUG. de civ. dei, 8, 27; CLEM. ALEX., Strom, I, 106, 3).

68. Cfr. J. GEFFCKEN, Zwei griechische Apologeten, Leipzig 1907, p. 223, n. 3.

69. Il fatto che sia Evemero sia Ecateo ci siano noti attraverso Diodoro facilita il confronto. La differenza che risulta da tale confronto fra i due autori, a parte le identità formali dovute probabilmente allo stesso Diodoro, induce a ritenere Diodoro una fonte attendibile.

70. Cfr. W. WARDE FOWLER, Roman Ideas of Deity in the fast century before the Christian Era, London 1914, p. 101; ID., The religious experience of the Roman people from the earliest times to the age of Augustus, London 1922, p. 240.

71. Parimenti l'Epicarmo attesta da parte di Ennio la ricerca nella filosofia greca di una soluzione al problema della divinità che fosse più aderente ai tempi e alla mentalità che veniva maturandosi nel popolo romano.

72. Cfr. J. BAYET, Histoire politique et psychologique de la religion romeine, Paris 1957, p. 160.

73. Cfr. Ρ. GRIMAL, Le siècle des Scipions. Rime et l'Hellénisme su temps des guerres puniques, Paris 1953, p. 90.

74. Cfr. R. Μ. BROWN, Α Study of the Scipionic circle, Iowa 1934, p. 85.

75. Cfr. J. VAHLEN, Ennianae poesis reliquiae, Lipsiae 1903, ρ. 216. Si veda anche: Α. ELTER, Donarem pateras, Bonn 1907.

76. Pun. ΧΙΙ, 410 s.

77. Div. inst. Ι, 18, 10.

78. J. VAHLEN, ο. c., p. 178 s.

79. Che la dottrina intorno alla divinità sia l'essenza dell'evemerismo risulta oltreché dal rilievo che ad essa è dato nel corso della Ιερά Αναγραφή, dalla tradizione, che ha accolto tale dottrina o per seguirla o per combatterla.

80. Di parere contrario è F. SUSEMIHL, Geschichte der griech. Litteratur in der Alexandrinerzeít, II Band, Leipzig 1892, p. 102 s.

81. Cfr. STRAB. I, 23.

82. Cfr. POL. VI, 56, 6. Cfr. anche ZIEGLER in PAULY-WISSOWA, R. Ε. XXI (2) 1541 ss.

83. Cfr. JACOBY, F. Gr. Hist. I a, Kommentar, Leiden 1957, p. 509 ss.

84. DIOD. III, 56, 2. Citiamo Dionisio Scytobrachion secondo l'edizione del JACOBY, F. Gr. Hist. I a, Leiden 1957, p. 228 ss.

85. DIOD. III, 56, 3 ss.

86. EUS., Praep.ev. II, 2, 58.

87. La stessa osservazione facemmo a proposito del confronto di Ecateo con Evemero.

88. Cfr. G. VALLAURI, o. c, p. 10 s.

89. La scelta e la collocazione dei termini (si veda il testo greco alla pagina precedente), mette in evidenza il contrasto tra questo re che non è un re comune — non un uomo quindi — ma «regna» sugli uomini primitivi — non uomini indeterminati — ma «gli uomini», l'umanità pertanto, in opposizione alla divinità.

90. DIOD. III, 57, 2.

91. DIOD. III, 60, 3.

92. DIOD. III, 60, 5.

93. Cfr. JACOBY, F. Gr. Hist. Ι a Kommentar, Leiden 1957, ρ. 513: «Diese Kontamination, die das Interesse der Leser durch möglichsten Reichtum des Stoffes zu fesseln sucht und von den Vorgängern nur den Stoff, nicht die philosophischen, kulturhistorischen, naturwissenschaftlichen Theorieen nimmt ist für Dionysios charakteristisch».

94. DIOD. III, 61, 4; ΙΙΙ, 61, 6.

95. Cfr. SCHWARTZ in PAULY-WISSOWA, R. E. V (1) 670 ss.

96. DIOD. ΙΙΙ, 74, 1.

97. DIOD. IV; Ι, 6.

98. DIOD. IV, 1, 5: περὶ τῶν ἐπιφανεστάτων ἡρώων τε καὶ ἡμιθέων καὶ καθόλου τῶν κατὰ πόλεμον ἀξιόλογόν τι κατειργασμένων, ὁμοίως δὲ καὶ τῶν ἐν εἰρήνῃ τι χρήσιμον πρὸς τὸν κοινὸν βίον εὑρόντων ἢ νομοθετησάντων. [6] ποιησόμεθα δὲ τὴν ἀρχὴν ἀπὸ Διονύσου...

99. DIOD. IV, 1, 7:νῦν τὰ παρὰ τοῖς Ἕλλησι λεγόμενα περὶ τοῦ θεοῦ τούτου διέξιμεν.

100. DIOD ΙΙΙ, 63, 4.

101. DIOD. III, 64, 2.

102. DIOD. III, 71, 5.

103. DIOD. III, 72, 1.

104. DIOD. III, 70, 8.

105. DIOD. III, 72, 3.

106. LACT. Div. inst. I, 22, 22-23.

107. DIOD. ΙII, 73, 1.

108. DIOD. ΙΙΙ, 73, 3.

109. DIOD. ΙIΙ, 73, 5.

110. DIOD. ΙΙΙ, 73, 6.

111. DIOD. ΙΙΙ, 73, 1.

112. DIOD. III, 73, 8. Cfr. Ecateo in DIOD. Ι, 20, β e Evemero in LACT. Div. inst. Ι, 11, 46.

113. DIOD. ΙΙ, 38, 3 ss.

114. DIOD. ΙΙ, 39, 4.

115. Cfr. Ο. STFIN in PAULY-WISSOWA, R. E. XV (1), 254, 256, 258.

116. DIOD. IV, 8, 1.

117. DIOD. IV, 26, 4.

118. Sia consentito l'uso di questa espressione tecnica, che sembra atta ad indicare come, quella che era stata la teoria originale di Evemero, fosse ormai divenuta una formula, che veniva meccanicamente applicata per spiegare le origini delle divinità mitologiche.

119. DIOD. IV, 10, 7.

120. DIOD. IV, 24, 2.

121. DIOD. V, 64, 2.

122. DIOD. V, 64, 5.

123. DIOD. V, 66, 3.

124. DIOD. V, 67, 5. Ancora una volta constatiamo come secondo la concezione evemeristica, gli dèi non possano sussistere di per sé: essi hanno bisogno che la loro divinità sia essenzialmente decretata dall'uomo, o riconosciuta e sancita dall'uomo nel caso che siano essi stessi ad autoproclamarsi dèi.

125. DIOD. V, 70, 1.

126. DIOD. V, 71, 6.

127. DIOD. V, 72, 1. Il passo può essere variamente interpretato a seconda che si intenda il termine ούρανός equivalente a Ὄλύμπῳ, oppure no. Nel primo caso si alluderebbe di nuovo (cfr. DIOD. V, 71, 6) alla dimora di Zeus nell'Olimpo e alla sua sovranità sugli dèi, in pieno accordo con la dottrina evemeristica. Nel secondo caso invece, dovremmo richiamarci a quanto detto a proposito di Diod. III, 56, 3 ss.: Zeus divinità terrena, è superiore, anzi arbitro dei fenomeni celesti che non sono ritenuti divinità.

128. DIOD. V, 76, 1.

129. Cfr. DIOD. IV, 1, 4.

130. IOANNES MALALAS, Chronographia 64.

131. Diodoro (XVIII, 61, 1; XIX, 22, 1; XIX, 22, 3) parla di onori divini resi a Alessandro e Filippo da Eumene, uno dei diadochi, perciò in un ambiente ristretto quanto a tempo e luogo. Altrimenti Alessandro è magnificato quale eroe, non quale dio:

εἰκότως περιβόητον ἔσχε τὴν δόξαν καὶ τοῖς παλαιοῖς ἥρωσι καὶ ἡμιθέοις ἰσάζουσαν. (XVII, l, 4).

Ἀλέξανδρος μὲν οὖν, καίπερ πολλαῖς γενεαῖς προγεγονὼς τοῦ καθ᾽ ἡμᾶς βίου, τυγχανέτω καὶ παρὰ τῶν μεταγενεστέρων δικαίου καὶ πρέποντος ταῖς ἰδίαις ἀρεταῖς ἐπαίνου. (XVII, 38, 7).

132. IV, 19, 2; V, 21, 2; V, 25, 4; XXXII, 27.

133. Non fa d'uopo osservare che la posizione di Diodoro di fronte all'evemerismo è diametralmente opposta a quella di Ennio.

134. EUS., P. E. I, 9, 19 in JACOBY, F. Gr. Hist. III, C, II, p. 802 ss.

135. Cfr. EUS., P. E. I, 9, 21.

136. Cfr. MÜLLER, F. Η. G. ΙΙΙ, ρ. 560 ss.; GUDEMAN in PAULY-WISSOWA, R. E. VIII (1) 659 ss.

137. Cfr. O. EISSFELDT, Taautos und Sanchunjaton, Berlin 1952; Κ. MRAS, Sanchunjathon (Anzeig. d. österr. Akcd. d. Wiss. 89, 1952, 12, pp. 175-186); R. FOLLET, Sanchuniaton, personnage mythique ου personne historique? (Biblica, 34, 1953, ρ. 81 ss.).

138. EUS., P. E. I. 9, 29.

139. EUS., P. E. I, 9, 29. L'espressione «τισι τῶν νομιζομένων θεῶν» si riferisce agli «astri, gli dèi celesti», che più avanti sono detti i «θεοὺς μόνους» gli «ἀθανάτους θεοὺς». L'apparente contrasto si spiega tenendo presente che la prima definizione va messa in relazione a Filone (o forse a Eusebio?), che, quale interprete-traduttore, può avere un punto di vista personale riguardo a ciò che narra; le altre due vanno invece poste in relazione ai Fenici, che sarebbero gli autori e i seguaci della dottrina esposta.

140. EUS., P. E. I, 10, 15.

141. EUS., P. E. I, 9 22.

142. Cfr. EUS., P. E. I, 9, 21.

143. Cfr. EUS., P. E. I, 9, 26.

144. ATHEN., Leg. 28.7.

145. Cfr.JACOBY, F. Gr. Hist. ΙΙ BD II, p. 754.

146. Cfr. J. GEFFCKEN, Zwei griechische Apologeten, Leipzig 1907, p. 225.

147. Cfr. F. 88 in JACOBY, ο. c., p. 1044, e relativo commento.

148. Cfr. MÜLLER, F. Η. G., ΙΙΙ, pp. 149-158.

149. Cfr. LΑQUEUR in PAULY-WISSOWA, R. E., XV (2), 2250 ss.

150. Cfr. R. LΑQUEUR in PAULY-WISSOWA, R. E. zweite Reihe IX, 1225 ss.

151. Cfr. THEOPH. ad Autol. III, 29 in JACOBY, F. Gr. Hist. II B I, p. 1157.

152. Cfr. TERT. Apol. 10; LACT. Div. inst. I, 13; MIN. FEL. Oct. 21, 4 sempre in JACOBY, o. c.

153. Il passo che sembra avere relazione con la dottrina di Evemero è quello del libro III, vv. 97-294, in cui è descritta la costruzione della torre e il regno Crono, Titano e Giapeto. Cfr. J. GEFFCKEN, Die Oracula Sibyllina, Leipzig 1902. RZACH in PAULY-WISSOWA, R. Ε. zweite Reihe IV, 2123.



Ultima modifica 2018.11.05