"Le forme degli Stati borghesi sono straordinariamente varie, ma la loro sostanza è unica: tutti sono, in un modo o nell'altro ma, in ultima analisi, necessariamente una dittatura della borghesia" afferma Lenin. Con questa formula, Lenin sintetizza secoli di lotte sociali e politiche tra le classi. Che l'esperienza delle lotte del nostro secolo non abbia minimamente smentito la lapidaria sentenza di Lenin è abbondantemente dimostrato dal fatto che gli opportunisti, i quali negano che ogni variante dello Stato sia "necessariamente" una dittatura della borghesia, sono costretti a ripetere, spesso alla lettera, le tesi revisionistiche di Bernstein. Solo la scarsissima diffusione dei principi del marxismo nel proletariato permette agli opportunisti di contrabbandare come nuove concezioni stravecchie sullo Stato democratico. Berlinguer ed Amendola ripetono, spesso malamente dato il loro grado di conoscenza specifica, quello che più organicamente, a cavallo del secolo, ha elaborato il revisionismo socialdemocratico. Ancor più debbono ripeterlo di fronte ad una crisi politica che non ha soluzione con i logori strumenti elettorali e parlamentari.
Il problema di fondo della dittatura capitalistica in Italia risiede proprio nei suoi strumenti, risiede proprio nella riforma dello Stato. Questo problema si pose alle frazioni borghesi negli anni '60, quando il ciclo economico mondiale permise uno sviluppo economico in Italia e la espansione esterna di un imperialismo che poteva utilizzare bassi salari. La irrisolta riforma dello Stato viene a collocarsi, negli anni '70, in una crisi mondiale di ristrutturazione dalla quale emergono le potenze più capaci di riorganizzarsi e di collegarsi più efficacemente alla tendenza in atto di una nuova divisione internazionale del lavoro. La metropoli italiana, incapace a ristrutturarsi se non in alcuni gruppi di punta, viene ad avere due debolezze in una, struttura e Stato, ed una sola possibilità: l'aggancio alla ripresa mondiale. Questo aggancio è reso possibile solo nella misura in cui il capitalismo italiano può avere costi del lavoro inferiori a quelli dei suoi concorrenti e può aumentare la sua produttività generale.
La mancata ristrutturazione e la mancata riforma dello Stato rendono impossibile un aumento della produttività generale e frenano lo stesso aumento della produttività industriale la quale è, poi, la vera e propria produttività del lavoro.
I partiti parlamentaristici, per decenni, hanno negato la teoria marxista per la quale i movimenti politici sono espressione dei rapporti sociali tra le classi e, quindi, anche del rapporto tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo che li sostanzia. Oggi, data la crescente incidenza dei fattori internazionali, questa determinazione è diventata addirittura contingenza politica.
Marx ed Engels già ne "L'ideologia tedesca", che i soliti intellettuali più o meno organici hanno scambiato per un testo filosofico mentre in realtà è un testo politico di strategia rivoluzionaria, ponevano la questione: "I rapporti tra le nazioni dipendono dalla misura in cui ciascuna di esse ha sviluppato le sue forze produttive, la diffusione del lavoro e le relazioni interne. Questa affermazione è generalmente accettata. Ma non soltanto il rapporto di una nazione con le altre, bensì anche l'intera organizzazione interna di questa nazione dipende dal grado di sviluppo della sua produzione e delle sue relazioni interne ed esterne".
Per chi sa leggere politicamente e strategicamente il significato è inequivocabile: l'intera organizzazione interna di una frazione economico-sociale, cioè la struttura e lo Stato, dipende dal mercato mondiale. Non tanto perché il capitalismo in una nazione è ovviamente una parte del capitalismo mondiale, quanto perché la sua organizzazione sociale e politica interna è determinata dal rapporto che si instaura tra la sua evoluzione e la evoluzione mondiale. Il capitalismo in Italia è capitalismo mondiale, indipendentemente dalla sua organizzazione politica e statale; ma il suo tipo di organizzazione, il suo tipo di Stato nazionale è il risultato dialettico dei fattori interni e dei fattori internazionali. Solo in questo modo può essere posto il problema del parassitismo sociale che dal fondo è inevitabilmente emerso alla superficie della lotta politica in Italia. In realtà, la lotta politica verte sul grado di parassitismo e non sul parassitismo stesso in quanto questo è insito nella natura della società borghese e del suo Stato. Marx attacca gli economisti borghesi che vedono la differenza tra produttivo e improduttivo non nella produzione ma nel consumo. "E' esattamente il contrario" dice. Il consumo produttivo è il consumo "che è posto esso stesso a sua volta come oggetto": il consumo improduttivo, invece, è il consumo individuale. "La produzione destinata al consumo improduttivo è produttiva tanto quale lo è quella destinata al consumo produttivo; sempre supposto che si produca o riproduca capitale". Perciò "lavoratore produttivo è colui che aumenta direttamente il capitale".
Precisato che il lavoro produttivo è solo quello che aumenta direttamente il capitale e che, per la sua definizione, è indifferente il tipo di consumo, occorre vedere quale rapporto oggettivo esiste tra i vari redditi.
Il "reddito lordo" (capitale variabile + plusvalore) "può aumentare senza un concomitante aumento di questa massa che è capitale variabile. Quest'ultimo può anche diminuire. In questo caso vi è un maggiore consumo da parte dei capitalisti, dei loro parassiti, delle classi improduttive, dello Stato, delle classi intermediarie (lavoratori del commercio) ecc". Ma affinché possa aumentare il reddito del parassitismo sociale occorre che aumenti il reddito netto, ossia il plusvalore.
Il reddito lordo è uguale al salario per l'operaio più il profitto, più la rendita. Il reddito netto è al contrario il plusvalore e per conseguenza il plusprodotto che resta, fatta deduzione del salario".
A questo punto il problema diventa quello del rapporto tra consumo produttivo e consumo improduttivo, cioè tra investimento e consumo individuale sia dei singoli che dello Stato che redistribuisce ai singoli. La crisi politica italiana trova al suo fondo una sproporzione tra il consumo produttivo e consumo improduttivo.
Vedere solo la sproporzione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo è, in ultima istanza, mascherare i reali rapporti di classe. In primo luogo perché il rapporto tra il lavoro che si scambia con capitale e il lavoro che si scambia con reddito è un rapporto oggettivo, determinato. E' l'aumento della forza produttiva nell'industria a permettere "di adoperare improduttivamente una parte sempre maggiore della classe operaia, e quindi di riprodurre specialmente gli antichi schiavi domestici".
In secondo luogo lo sviluppo delle forze produttive determina "il forte sviluppo delle classi medie, le quali stanno tra i lavoratori da una parte e i capitalisti e possidenti dall'altra, sono mantenute per la maggior parte con il plusvalore, pesano come un fardello sulla classe lavoratrice e aumentano la sicurezza e il potere dei ricchi".
In terzo luogo, la domanda "è essenzialmente condizionata dai reciproci rapporti delle diverse classi economiche e delle rispettive posizioni economiche; vale a dire, in primo luogo, dal rapporto tra plusvalore totale e salari, e, in secondo luogo, dalla distribuzione del plusvalore tra i suoi vari componenti (profitto, interesse, rendita fondiaria, imposte, ecc.), il che mostra ancora una volta che assolutamente nulla può esserci spiegato dal rapporto dell'offerta e della domanda, a meno che non sia stata preventivamente appurata la base su cui poggia quel rapporto".
Alla luce di questa teoria marxista risulta chiaro che il parassitismo sociale è determinato oggettivamente dal reddito netto o plusvalore prodotto dal lavoro produttivo della classe operaia.
Risulta, inoltre, che più questo plusvalore è consumato produttivamente, cioè investito, più il lavoro produttivo permette la espansione del parassitismo sociale.
Quindi la questione, dibattuta oggi in Italia dalle frazioni borghesi, va capovolta: non è in discussione il rapporto tra il lavoro produttivo ed il lavoro improduttivo ma è, invece, la quota di consumo produttivo che deve essere stabilita affinché il lavoro produttivo possa assicurare il mantenimento del lavoro improduttivo.
In altri termini, è in discussione la ripartizione del plusvalore estorto dal lavoro produttivo. Quanto di questo plusvalore deve essere consumato e quanto deve essere investito affinché l'aumento della produttività del lavoro permetta di continuare a riprodurre il capitale, da un lato, ed il parassitismo sociale, dall'altro? Dato che è sulla base della ripartizione del plusvalore che si determina l'esistenza ed il peso sociale delle varie frazioni borghesi, grandi e piccole, private e statali, è su questa base stessa che verte la crisi politica e la lotta ad essa collegata. Il tentativo di risolverla ne esaspera, sino alla degenerazione violenta, tutte le manifestazioni. L'incapacità a risolverla, invece, ne spinge l'imputridimento.
In questa situazione, il nostro Partito deve far sua l'indicazione che Lenin dava ad un compagno nel 1909: "Dobbiamo impostare il lavoro in modo tale che esso, comunque vadano le cose, sia una conquista imprescrittibile e duratura".
Ultima modifica 2.4.2002