Noi marxisti siamo internazionalisti non solo perché propugniamo la solidarietà internazionale della nostra classe, che è una classe internazionale, ma perché partiamo dal presupposto, scientificamente dimostrato, che 1) il capitalismo è un sistema mondiale che ha leggi universali di movimento e che 2) il capitalismo non è, quindi, un insieme di particolarità nazionali ma un sistema generale e tipico le cui manifestazioni particolari e specifiche sono determinate proprio dalle tendenze generali e non da tendenze autonome, settoriali, nazionali. In altre parole: in Italia il capitalismo ha certamente forme particolari ma le ha proprio perché quelle stesse forme sono determinate dal movimento del sistema mondiale capitalistico, di cui l'Italia è parte integrante.
Nè in pratica nè in teoria si può concepire il capitalismo in Italia come un fenomeno a sé, come un fenomeno isolato o isolabile. L'Italia che dobbiamo analizzare e in cui dobbiamo operare è quella che il movimento mondiale del capitalismo ha determinato e determina ogni giorno, anche perché i fatti sociali, economici e politici che si sono espressi e che si esprimono in Italia altro non sono, in ultima istanza, che il riflesso particolare e specifico di un processo vasto, profondo ed estremamente complesso di dimensioni mondiali.
Questa è la base oggettiva delle lotte delle classi.
Mano a mano che lo sviluppo mondiale del capitalismo accumula le sue gigantesche contraddizioni la internazionalizzazione delle lotte delle classi diventa tanto pressante, capillare ed ineluttabile da essere ammessa dagli stessi responsabili borghesi e dai loro fiancheggiatori riformisti e opportunisti.
"I fatti sono testardi" diceva Lenin. Sono tanto testardi che la testa la fanno rompere a tutti i mistificatori della realtà, a tutti coloro che credono di cancellare la realtà con le loro ideologie controrivoluzionarie. Il capitalismo mondiale proprio perché si sviluppa accumula il materiale sociale delle contraddizioni e proprio perché si sviluppa provoca le crisi. Su questo punto fermo si è formata la nostra organizzazione leninista. Negli anni '50 negammo la validità delle cosiddette "vie nazionali al socialismo" ed affermammo che la inevitabile via rivoluzionaria sarebbe stata imposta storicamente dallo sviluppo del capitalismo nelle nuove e sterminate aree economiche. L'egemonia dell'opportunismo sul movimento operaio, con le sue "vie" "pacifiche" "democratiche" e "nazionali", avrebbe dovuto fare i conti con fattori internazionali che non era in grado di determinare e, molto spesso, neppure di prevedere. Negli anni '60 criticammo tutte le false analisi "sottosviluppiste" e tutte le concezioni che parlavano di accerchiamento della città da parte delle campagne. Infine, dopo decenni, il ciclo di sviluppo del capitalismo mondiale, accumulando un materiale socialmente esplosivo nella periferia e nelle metropoli, apriva la fase di ripresa delle lotte operaie. I centri dell'imperialismo erano destinati ad essere investiti da un nuovo corso di lotte di classe.
Anche le lotte operaie in Italia erano la manifestazione di un ciclo che aveva visto il capitalismo italiano integrarsi in un mercato regionale come il MEC.
L'aspetto particolare della situazione italiana non è stato tanto il ritmo di sviluppo capitalistico e la conseguente lotta di classe quanto il fatto che il capitalismo italiano utilizzava il ciclo mondiale con una sovrastruttura ed uno Stato arretrato in confronto alle tendenze internazionali. Inevitabilmente, mancando un adeguamento della sovrastruttura, si sarebbe prodotto uno squilibrio tra lo sviluppo strutturale determinato dall'andamento internazionale e il mancato adeguamento di uno Stato caratterizzato come sovrastruttura di un sistema agricolo-industriale.
Nel 1960 il commercio estero italiano rappresenta il 24% del reddito nazionale lordo, nel 1970 il 30%, nel 1972 il 33%. Questo balzo dimostra chiaramente come i fattori internazionali diventano sempre più determinanti nella società italiana. Un paese la cui economia è per un terzo coinvolta nel commercio internazionale è oggettivamente condizionato da ciò che avviene sulla scena mondiale.
Ma non è ancora questa la particolarità italiana. Il fatto è che mentre le importazioni dal 1960 al 1970 triplicavano, le esportazioni, nello stesso periodo, quadruplicavano addirittura. Ciò provocava due risultati: 1°) nel decennio il totale netto dell'esportazione di capitali raggiungeva i 4,5 miliardi di dollari; 2°) mentre nel 1960 l'esportazione italiana rappresentava il 2,8% dell'esportazione mondiale, nel 1970 ne rappresentava il 4,3%. In questo modo l'imperialismo italiano partecipava e si integrava nel modello di ripartizione del prodotto mondiale.
In questo modo, ovviamente, ne veniva sempre più determinato. Contro tutte le posizioni che vedevano nell'economia italiana una colonia americana noi affermammo, invece, la maturità dell'imperialismo italiano così come affermammo che la lotta operaia in Italia, conseguente a questa maturità, richiedeva una strategia internazionale leninista e non poteva essere lasciata alla pura spontaneità tradeunionistica. Il modo di partecipazione dell'imperialismo italiano alla ripartizione del prodotto mondiale, infatti, avrebbe esasperato le tendenze di ripartizione del prodotto nazionale, a tutto svantaggio della classe operaia. Le posizioni delle frazioni borghesi, grandi, medie e piccole, hanno trovato una fonte di alimentazione nella partecipazione-integrazione al prodotto mondiale, gli strati intermedi hanno trovato uno sviluppo adeguato alla dimensione internazionale, il parassitismo sociale è stato massicciamente incrementato. In definitiva, il parassitismo sociale italiano trovava, con la espansione imperialistica, una sua dimensione collegata alla dimensione raggiunta dall'Italia. Anzi, la sua dimensione cresceva più rapidamente della capacità dell'imperialismo italiano ad espandersi.
Ciò ha finito con il creare una difficoltà aggiuntiva alla stessa capacità espansiva dell'imperialismo italiano.
Per venti anni lo sfruttamento operaio, basato anche su salari inferiori a quelli dei paesi concorrenti, è stato realizzato attraverso una esportazione i cui benefici hanno permesso non solo uno sviluppo della struttura industriale ma anche il prosperare di strati intermedi e di un vasto burocratismo parassitario.
Era inevitabile che i nodi sarebbero giunti al pettine di fronte all'azione di alcune tendenze sul mercato mondiale che hanno provocato profondi conflitti interimperialistici.
La concorrenza tra le metropoli imperialistiche viene esasperata nel 1974 da un processo in corso di profonde modifiche nella ripartizione del prodotto e del plusvalore mondiale.
Con una operazione artificiosa, di cui abbiamo un esempio nella relazione Carli, si vuole rappresentare il nuovo corso della ripartizione del prodotto mondiale con la nuova situazione delle bilance dei pagamenti dei vari paesi imperialisti. L'attivo di 12 miliardi di dollari nei loro conti correnti diventerebbe, nel 1974, un passivo di 35 miliardi ad opera dell'aggravio petrolifero determinato dai nuovi prezzi. Per i soli paesi dell'OCDE l'aggravio sarebbe di 39 miliardi di dollari, con un disavanzo globale di 28.
Posta in questi termini, la questione sarebbe semplice: nella ripartizione del prodotto mondiale una serie di nazioni deve cedere una quota maggiore ad un'altra serie di nazioni. In termini marxistici: una quota supplementare di prodotto mondiale deve andare alla rendita, in questo caso alla rendita percepita dai detentori del petrolio. Questo è vero, ma non può essere spiegato nei termini semplicistici del trasferimento da nazione a nazione. Innanzitutto perché la ripartine del prodotto mondiale non ha come soggetti che ripartiscono le nazioni ma le quote di capitale, ossia frazioni singole o unità del capitale sociale mondiale. Questo capitale sociale complessivo esiste solo in quanto realizza il suo prodotto e, quindi, realizza un plusvalore. La ripartizione del prodotto è la ripartizione del plusvalore a livello mondiale. Che una parte di questo plusvalore vada alla rendita, e nel caso specifico alla rendita petrolifera, è nella natura stessa della lotta per la sua spartizione. Ma questa lotta, in fondo, corrisponde alla situazione generale in cui si è avuta oggettivamente la formazione del prodotto mondiale. La parte di prodotto che andrà alla rendita sarà, in definitiva, determinata dal processo di formazione del prodotto steso, dalla sua grandezza, dal suo ritmo di crescita o di decrescita dal suo realizzo. Ammettendo che il cosiddetto aggravio petrolifero sia costituito tutto da nuova rendita (il che non è vero poiché una certa parte è rappresentata dal profitto dell'industria petrolifera, dal profitto commerciale dell'intermediazione e dall'imposta), ne deriva che tale rendita addizionale non è altro che una parte di un prodotto addizionale. Diminuendo questo diminuirebbe quella.
Lo squilibrio nelle bilance dei pagamenti dei vari paesi imperialisti non può, perciò, essere spiegato unicamente con l'aggravio petrolifero, cioè con una quota addizionale di prodotto percepita dai paesi produttori di petrolio e dall'industria multinazionale petrolifera. Per quanto possa essere alta questa quota di rendita e di profitto petrolifero è pur sempre una percentuale minima del prodotto mondiale. Di per sé non può bastare a determinare una crisi delle bilance dei pagamenti dei vari paesi imperialisti, e, soprattutto, non può determinare l'andamento del processo di formazione del prodotto mondiale. La rendita, in questo caso la rendita petrolifera, segue il processo e non lo determina. Marx ci spiega che, altrimenti, in pochi anni la produzione e la riproduzione del capitale cesserebbe. Nel caso specifico, la rendita petrolifera, determinando la caduta della produzione dei paesi imperialisti, determinerebbe la sua stessa caduta e il ciclo mondiale, con il suo processo di ripartizione del prodotto, ritornerebbe alle condizioni di partenza.
Non di un rapporto fra nazioni, petrolifere ed acquirenti, si tratta, come vuol far credere l'ideologia imperialista, ma di un rapporto tra quote del capitale sociale mondiale. Poiché questo capitale complessivo aumenta aumentano pure le quote detentrici di rendita. Le quote di capitale industriale, incorporando nel loro processo di produzione le materie prime, dovranno cedere una parte addizionale del prodotto alla rendita petrolifera.
Il rapporto non è, quindi, tra un capitale industriale mondiale e una rendita petrolifera mondiale con una diminuzione del primo a favore della seconda e con una ripartizione del prodotto mondiale che vede accrescere la seconda e diminuire il primo. Questa è una visione ideologica imperialista perché presuppone una staticità che non esiste.
In realtà, vi è una dinamica che vede il complesso delle quote di capitale industriale crescere più del complesso delle quote di rendita e, in definitiva, aumentare l'incidenza del capitale industriale sul capitale sociale mondiale complessivo in rapporto all'incidenza della rendita.
Per valutare l'aggravio petrolifero nella sua esatta dimensione dobbiamo collocarlo nell'aumento del prodotto mondiale.
Se l'aggravio petrolifero è di 39 miliardi di dollari per i paesi OCDE (più altri 6 per i paesi non OCDE, in gran parte i paesi più arretrati), l'aumento del prodotto mondiale è, contemporaneamente, di 200. Per l'Europa Occidentale l'aggravio petrolifero rappresenta il 2,2 per cento del suo prodotto, per il Giappone il 2,7.
Per l'Italia rappresenta il 2,7 per cento.
E' evidente che il disavanzo delle bilance dei pagamenti non trova spiegazione nell'aggravio petrolifero.
Se prendiamo le bilance di parte corrente dei principali paesi imperialisti del gruppo OCDE e confrontiamo il 1973 con la previsione 1974 troviamo che gli USA passano da un attivo di 2,7 miliardi di dollari a un passivo di 0,5; il Giappone da un pareggio a un passivo di 6; la Gran Bretagna da un passivo di 3,4 a un passivo di 6; la Francia da un attivo di 0,2 a un passivo di 3,4; l'Italia da un passivo di 1,7 a un passivo di 3,9; la Germania da un attivo di 3,5 a un passivo di 2,4. Se, invece, vediamo solo la bilancia commerciale troviamo per la Germania un attivo di 10 miliardi di dollari nel 1974, mentre il passivo dell'Italia sale a 5,6 e quello della Gran Bretagna a 8,5.
Lo stesso vale per gli USA che vedono il passivo aggravarsi di altri 3 miliardi di dollari, mentre quello del Giappone si alleggerisce di altrettanto.
Ciò significa che la rendita petrolifera non solo non pesa in eguale misura sulle varie quote di capitale industriale ma addirittura ne favorisce alcune nella lotta per la ripartizione del prodotto mondiale. In fondo è proprio la differente produttività delle varie quote di capitale industriale a determinare l'ineguale sviluppo delle varie componenti del prodotto mondiale, la crescita della rendita e la aumentata competizione tra le produzioni industriali che riescono ad assorbirla e quelle che ne vengono più danneggiate.
Al limite, come ci dimostra tutta la storia del capitalismo, l'aumento dei costi delle materie prime finisce col favorire alcune quote di capitale industriale a danno di altre e, quindi, col determinare una nuova ripartizione del prodotto mondiale, che in nessun modo potrà vedere crescere la parte che va ai produttori di materie prime (siano essi industriali o proprietari).
Ciò vale anche se identificassimo le quote del capitale industriale con altrettante nazioni industriali. In realtà, tali quote non sono nazionali ma sono quote internazionali di un capitale internazionale.
La differenza di produttività e il conseguente grado di competitività si verificano sul mercato mondiale e non tra comparti nazionali. E' nell'ambito internazionale che si verificano i trasferimenti di valore e gli spostamenti nella lotta di ripartizione del prodotto.
Cosa c'entrano, allora, le bilance nazionali? C'entrano perché la produzione industriale non avviene nel vuoto ma in un processo di produzione e di distribuzione, in una realtà sociale di classi, frazioni e strati, in una sovrastruttura di Stati ed organizzazioni statuali. La produttività industriale è condizionata, quindi, da tutta una serie di spese generali e, in definitiva, da quella che viene definita la produttività generale.
E' in questo contesto che vanno valutati i rapporti interimperialistici. E' in questo contesto che va valutata la posizione dell'Italia, del suo relativo indebolimento e della crisi politica che ne scaturisce. Il problema contingente dell'imperialismo italiano è costituito dai mutamenti nella ripartizione del prodotto mondiale. Come abbiamo già visto, una parte, valutabile a un 2-3% del prodotto lordo mondiale, viene trasferita al profitto e alla rendita addizionale dell'industria estrattivo-mineraria. Da anni si è aperta una aspra lotta tra le metropoli imperialistiche. In questa lotta l'imperialismo italiano è uno dei più svantaggiati perché rappresenta una quota minore del capitale sociale mondiale, perché ha una più bassa produttività industriale derivata dalla più bassa concentrazione e dai più bassi investimenti nei settori di punta, e perché ha una più bassa produttività generale derivata dall'inefficienza del suo Stato e dal suo più alto tasso di parassitismo sociale. La crisi di squilibrio dell'imperialismo italiano, determinata dai fattori internazionali viene da questi esasperata al massimo grado o comunque a un grado consistente.
Per l'imperialismo italiano non vi è via d'uscita. Cede già una parte di prodotto mondiale e un'altra deve cederne. Quanta? E' difficile determinarlo per la ragione che la lotta interimperialistica è tuttora in corso e che, come abbiamo già spiegato, i gruppi imperialistici, essendo gruppi internazionali, possono recuperare da una parte quello che perdono da un'altra. La FIAT, ad esempio, può recuperare in America Latina o in Europa Orientale quello che cede in Italia. Comunque il grande capitale industriale italiano è costituito prevalentemente dal capitalismo statale che ha una minore espansione esterna e ciò fa sì che l'imperialismo italiano nel suo complesso venga ridimensionato sul mercato mondiale. Si può valutare che debba cedere dal 3 al 6% del suo P.N.L. e che, attualmente, debba cedere un valore equivalente a circa lo 0,5% del prodotto mondiale.
Se gli strati salariali italiani potessero pagare interamente loro questo ridimensionamento dell'imperialismo italiano senza provocare difficoltà economiche la questione sarebbe presto risolta perché sulla compressione del consumo proletario tutte le frazioni capitalistiche private e statali e tutti gli strati intermedi troverebbero l'accordo e l'unità. La questione è che se gli strati salariati saranno costretti a consumare 5-6 miliardi di dollari in meno, cioè saranno costretti a pagare il mutamento nella ripartizione mondiale, importante è in quali condizioni della produzione ciò avviene e avverrà. L'imperialismo italiano beneficia dell'attuale ciclo di sviluppo del mercato mondiale capitalistico che mantiene un tasso generale del 5%. Questo tasso si riflette sulle metropoli le quali riescono a mantenere una crescita equivalente e si riflette sul commercio internazionale che si sviluppa al ritmo del 12% in termini reali.
Il ciclo, d'altra parte, provoca una forte e inarrestabile inflazione, la quale mette a dura prova le capacità concorrenziali delle metropoli. Se l'imperialismo italiano riuscisse a beneficiare del ritmo internazionale di sviluppo e, contemporaneamente, ad allinearsi ai tassi inflattivi dei suoi concorrenti, potrebbe cedere una quota del suo plusvalore senza forti squilibri poiché una quota analoga, se non superiore, sarebbe riuscito ad estrarla dalla produzione aumentata. Il fatto è che non ci riesce, dato che il suo tasso d'inflazione è del 20% mentre quello tedesco, ad esempio, è del 7%. Ciò provoca un suo ulteriore indebolimento, il quale non può essere arrestato solo comprimendo il consumo proletario e modificando ancora a svantaggio del lavoro salariato la ripartizione del prodotto nazionale. E' proprio questa soluzione precaria ed insufficiente ad aggravare la crisi politica e la lotta fra le frazioni borghesi in Italia.
E' proprio questa situazione a richiedere l'autonomia del proletariato e la guida del partito leninista.
Ultima modifica 31.3.2002