In poco più di un mese la questione energetica è stata l'oggetto di discussione e di scontro di ben cinque vertici che hanno impegnato i capi delle maggiori potenze nell'AIE, nell'OCDE, nella CEE, nell'OPEC e, infine, a Tokyo. L'incontro nella capitale nipponica, infatti, non è stato che l'ultima delle trattative che si sono susseguite a ritmo serrato e che si sono concluse con un compromesso formale ma poggiante su di un equilibrio precario. Il nodo energetico non è stato sciolto; anzi, è destinato ad aggrovigliarsi ulteriormente. Non a caso è un nodo che se è riassumibile nella questione energetica, tuttavia non risolvibile in essa. Tanto meno è comprensibile nei termini puramente energetici.
Lo scontro per l'energia è, in questo momento, il nodo principale nei rapporti interimperialistici sul quale si accavallano e si collegano tutti i rapporti monetari, valutari, commerciali, creditizi, militari e diplomatici che agitano il corso mondiale dell'imperialismo. E' uno scontro che, in apparenza, riguarda il petrolio ma che, in realtà, investe tutta l'energia e, in particolare, quella nucleare. In altre parole riguarda, come cercheremo di dimostrare, la concorrenza ad un nuovo livello tra le potenze imperialiste poiché, in termini economici, dire energia è dire produttività.
Lo scontro sulla energia vede impegnate grandi e medie potenze, coinvolge anche le piccole, muove governi nazionali ed istituzioni internazionali, ma in realtà le vere e proprie protagoniste sono le imprese sia in senso orizzontale, nella concorrenza mondiale di settore, che in senso verticale, nelle molteplici interdipendenze nelle quali si trasmette il costo della energia stessa. Praticamente è impossibile in alcuni articoli dare conto di quali e quanti interessi differenziati entrano in campo nella determinazione del costo dell'energia e di quali e quanti, di conseguenza, conflitti di settore e di impresa entrano in gioco nella formazione dei suoi prezzi. Basti pensare che il costo è il risultato contingente di una dinamica incessante e che il prezzo, o i prezzi, sono il risultato di una ancor più incessante oscillazione attorno al costo.
Se a noi interessa vedere l'aspetto politico di questo scontro economico conviene, quindi, riferirci ad uno dei massimi punti di sintesi e di aggregazione, ossia ai rapporti tra le potenze imperialistiche.
Solo in questo senso possiamo dire che il nodo energetico simboleggia, da un lato, un momento di massima tensione tra le maggiori metropoli imperialiste e, dall'altro, la conseguenza della loro ristrutturazione. Il costo dell'energia è, in definitiva, un costo relativo perché deve essere riferito all'apparato produttivo che consuma produttivamente l'energia come materia prima. Il grado di ristrutturazione di un apparato produttivo diventa, a questo punto, un elemento importante per valutare lo scontro sul costo e sui prezzi dell'energia. I consumi privati di energia, specie di elettricità e di benzina, sono secondari in questo scontro sia per la quantità che la qualità. Per la quantità perché essi sono determinati dalla quantità del prodotto sociale, ossia da una quantità superiore. Per la qualità perché in tutte le merci interviene il costo della energia.
Non è la riduzione dei consumi privati di energia a ridurne il costo poiché, a rigore, il consumo privato di tutte le merci è un consumo di energia; è l'aumento della produttività che riduce il costo relativo della energia e che, in ultima istanza, ne aumenta il consumo privato.
Il fatto che il consumo privato di benzina venga assunto nella polemica pubblica come motivo di costo e di prezzo energetico dimostra proprio quello che andiamo sostenendo. E' un motivo di lotta politica utilizzato nello scontro tra le potenze imperialistiche.
Citiamo due dichiarazioni estremamente significative.
La prima è di Fukuda, ex capo del governo giapponese, in una intervista del 2 luglio a "Newsweek":
"Oggi la situazione è molto più seria che nel '77, all'epoca del summit di Londra. Non è molto diversa dai giorni precedenti la seconda guerra mondiale. Oggi però ci troviamo di fronte non solo ad un possibile caos tra le nazioni libere ma anche ad una preoccupazione per le implicazioni Est-Ovest, una situazione che non esisteva allora, benché possa esserci un equilibrio tra Est e Ovest, e questa è forse la ragione per cui siamo ancora vivi oggi. Lo shock petrolifero è sentito più pesantemente dal mondo libero che dalle nazioni socialiste. Se non facciamo qualcosa ciò potrebbe facilmente turbare quell'equilibrio. Ad un'altra conferenza del 1933, durante la depressione USA, ogni paese diventò più protezionista, più nazionalista e l'economia mondiale fu gettata in una situazione di ancora maggiore egoismo. La seconda guerra mondiale fu un modo per uscirne. Noi non dobbiamo ripetere ora la follia dei nostri predecessori".
La seconda è di Helmut Schmidt, in una intervista a "Time" dell'11 giugno:
"La scarsità di petrolio e i prezzi crescenti del greggio che sono una minaccia per le nostre economie, possono portare a delle guerre".
Se aggiungiamo i propositi espressi da Carter per una forza di intervento nel Golfo Persico abbiamo un quadro completo. Le maggiori potenze parlano ormai apertamente di guerra a difesa dei loro interessi vitali. Come mai non rispettano più neppure le apparenze della "distensione"? Perché vogliono rendere chiaro che di fronte ai loro interessi vitali non sono disposte a transigere. USA ed URSS l'hanno reso chiaro molto spesso. La novità è che oggi lo dicono anche la Germania e il Giappone: segno, da un lato, della loro emergenza e, dall'altro, dell'importanza interimperialistica della lotta per l 'energia.
Noi non crediamo che, nell'attuale situazione, la lotta per l'energia possa condurre a guerre tra le grandi potenze imperialistiche; crediamo, però, che se l'argomento guerra è entrato a far parte della disputa non è per retorica esagerazione ma per l'effettiva posta in gioco.
Vediamo alcuni elementi di questa posta e alcune regole di questo gioco.
"Nouvel Economiste" ha elaborato due indici in prezzi ufficiali in dollari sino al 1978 e in media ponderata dei prezzi OPEC nel 1979.
Il primo indice riguarda i prezzi del petrolio ed il secondo i prezzi dei prodotti importati dall'OPEC. Fatto il 1974 uguale a 100, si ha nel 1978 per il primo indice 117 e per il secondo 144. Nell'aprile 1979 si aveva, invece, 148 e 156.
In sostanza: nel 1978 i prezzi dell'export delle metropoli nell'OPEC avevano superato di molto i prezzi del petrolio OPEC. Nel 1979, invece, a causa dell'aumento della domanda del petrolio OPEC, si è avviato un riequilibrio.
Nel 1978 la domanda mondiale del petrolio OPEC è stata inferiore del 5% a quella del 1973 a causa della produzione petrolifera non OPEC, dell'utilizzo di nuove fonti energetiche e di un generale rallentamento della domanda mondiale di petrolio.
Se nel periodo 1974-1978 fosse continuata al ritmo pre-1973 (+ 7,3% all'anno) si sarebbe avuto un incremento della domanda di petrolio OPEC del 50% in confronto al 1973. Essendo, invece, diminuita, il prezzo del petrolio OPEC nel 1978 era aumentato solo del 17% sempre in confronto al 1973.
Ad opera delle metropoli europee la rendita petrolifera OPEC nel 1978 era stata riportata a livelli poco superiori a quelli del 1973 e di ciò hanno beneficiato, soprattutto, l'imperialismo giapponese e l'imperialismo statunitense che hanno avuto convenienza ad incrementare fortemente l'importazione del petrolio OPEC a prezzi che, sostanzialmente, scoraggiavano forti investimenti in altre fonti energetiche, tipo il nucleare o il carbonifero, o nelle riserve petrolifere non OPEC.
Gli USA, infatti, hanno raddoppiato nel 1978 l'import petrolifero in confronto al 1973. In termini economici ciò significa che mentre le metropoli europee hanno diminuito l'acquisto del petrolio OPEC e, quindi, ne hanno ribassato il prezzo, il forte import da parte USA, oltre a sfruttare la contingenza, ha impedito il crollo del prezzo OPEC e, infine, lo ha rilanciato in alto.
Si è capovolta la situazione degli anni '50 e '60. Il limitato import petrolifero da parte degli USA aveva abbassato il prezzo OPEC e favorito il forte sviluppo economico europeo che, abbandonando la fonte carbonifera, aveva potuto utilizzare petrolio ed energia elettrica a basso prezzo.
Ora, il basso prezzo lo avevano determinato gli europei, e americani e giapponesi ne avevano approfittato.
Dati gli ingenti investimenti per la produzione, il trasporto e la commercializzazione delle grandi imprese petrolifere internazionali il gioco della domanda e dell'offerta mondiale segue un corso obbligato.
Nessuno Stato è in grado di soppiantare le grandi imprese petrolifere in questo tipo di investimento: l'URSS, che cerca associazioni per gli investimenti in Siberia, ne è un esempio. Gruppi statali come l'ENI possono intervenire sul mercato mondiale solo entrando in consorzi e in alleanze con gruppi internazionali molto più forti.
La demagogia sulle programmazioni e sui piani nazionali non riesce più a nascondere il fatto che l'energia è un settore internazionalizzato al massimo grado che nessun confine nazionale è più in grado di contenere. Ormai, solo un sistema internazionale di grandi imprese energetiche è in grado di produrre, di trasportare, di vendere, di rifornire energia a tutti i settori produttivi. Questo sistema necessita di flussi finanziari e creditizi che solo una rete internazionale finanziaria è in grado di assicurare. Energia e finanza vivono, così, in simbiosi internazionale.
Data da dinamica del mercato mondiale, che vede tra l'altro alcune zone in forte espansione, la tendenza prevalente è ad una acuta concorrenza tra le grandi imprese petrolifere-energetiche che, spesso, supera la convenienza ad accordi di cartello. In generale, la cartellizzazione si accentua nella fase depressiva e, tuttavia, si incrina rapidamente.
In una fase espansiva la tendenza alla cartellizzazione si indebolisce. Non bisogna confondere il consorzio con il cartello. Oggi, la nostra valutazione è che la tendenza alla cartellizzazione sia debole nel settore petrolifero ed energetico, in generale, malgrado tutti i miti creati sull'OPEC e sulle "sette sorelle". Almeno una cinquantina di grandi imprese operano nel settore ed esasperano la concorrenza imperialistica.
Il controllo dei grandi gruppi internazionali è diventato una richiesta senza senso che, per la verità, è sempre meno pronunciata anche perché è sempre meno verosimile.
Il costo e i prezzi dell'energia, solo il mercato mondiale può determinarli: difatti, nel 1979, con un ritmo di crescita del prodotto mondiale del 4%, hanno segnato subito un aumento e su quest'aumento, che non è una impennata, si è aperto lo scontro tra le metropoli imperialiste.
L'ENI, concordando con alcune stime BP, ha calcolato che, nel 1978, i consumi di energia in tonnellate di petrolio o tonnellate equivalenti di petrolio (TEP) sono state nel mondo 6.652 milioni, con un incremento del 3,1% sul 1977. Di queste 6,65 miliardi di TEP, 1,94 sono state di combustibili solidi, in genere carbone, 1,12 di gas naturale, 3,06 di petrolio, 0,38 di energia idroelettrica e solo 0,15 (poco più del due per cento del totale) di energia nucleare.
All'attuale livello mondiale di industrializzazione e di consumo occorre più di una tonnellata e mezza (in TEP) di energia all'anno per ogni abitante, ossia più di 4 kg di energia al giorno.
Questa, ovviamente, è la media mondiale, ossia la media dei polli, poiché ogni abitante statunitense consuma 8 TEP, ogni tedesco 4,23 e ogni italiano 2,54.
Il consumo di TEP non è altro che un indice della produttività. Su questo si confrontano le potenze imperialistiche poiché la loro competizione si basa sulla loro forza economica e la loro forza economica si basa, sostanzialmente, sulla produttività in generale e sulla produttività industriale in particolare. Lo scontro, come vedremo in altri articoli, sul petrolio è, in realtà, uno scontro di quantità di energia, uno scontro, possiamo dire, in TEP.
E' in gioco, da un lato, la quantità di energia a disposizione delle varie potenze e, dall'altro, la produttività ottenibile con tale quantità. E' in gioco l'indebolimento o il rafforzamento relativo di ogni singola potenza. Anche da ciò ne deriva il movimento delle relazioni internazionali.
Nello scontro tra le potenze imperialistiche si verificano i rapporti di forza economici ed in questi rapporti una particolare incidenza ha il costo dell'energia.
Delle 6,65 miliardi di TEP (tonnellate di petrolio o di equivalente petrolio) consumato nel mondo nel 1978 una buona parte è consumata dalle maggiori potenze imperialistiche.
Anche nelle zone capitalisticamente meno sviluppate il consumo di energia non è inferiore ad un certo limite.
La teoria marxista del valore ha basato il suo calcolo quantitativo sulle ore di lavoro, ma nessun impedimento teorico vieta di usare il calcolo quantitativo in termini di energia; l'impedimento, caso mai, è nella qualità e nella quantità di materiale statistico adeguato, per cui diventa quasi obbligato il ricorso alle contabilità nazionali ed internazionali dei redditi, dei prezzi, nelle ore lavorate.
L'utilizzo che noi stessi facciamo dei dati riguardanti l'energia non è disgiunto da una certa causa. Le innumerevoli fonti presentano discordanze, spiegabili nella natura dei dati stessi che li fanno oggetto di contesa industriale e commerciale . Un esempio: le stime sulle riserve energetiche.
Ad ogni modo possibili divergenze di dati e di fonti su questa, come su altra, materia non impediscono alla nostra ricerca, come non hanno impedito in altre occasioni, di individuare specifiche tendenze le quali, proprio perché non sono ricavate da singoli dati sono sempre opinabili ma da una necessaria comparazione e proprio perché non colgono un singolo aspetto ma il nesso necessario tra vari aspetti, non possono neppure essere contestate con un singolo dato e con un singolo aspetto esaminato.
L'analisi marxista, che ha per scopo quello di ricostruire l'astrazione concettuale l'intera realtà economica, sociale e politica, non può fare esclusivo riferimento ad un singolo fatto o una singola serie di fatti e, quindi, ad un singolo dato quantitativo o ad una singola serie di dati quantitativi. Il marxismo è dialettica e non empirismo e solo un rigoroso e continuo richiamo ai fondamenti metodologici del marxismo è un sano antidoto al soggettivismo di chi vuole da una idea ricostruire il tutto e all'empirismo di chi vuole da un fatto o un dato statistico cogliere tutto l'universo sociale.
A tale sprovvedutezza di metodo e di applicazione provvedono, poi, le idee e i fatti. Le idee son confutate da altre idee e i fatti da altri fatti, i dati statistici dalle bizze della statistica. Guai all'ingenuo che ha poggiato tutto il suo ragionamento sulla stampella del singolo dato statistico; un colpo sulla stampella ed è subito a terra.
Non c'è singolo dato e non c'è singola tesi che non possono essere contestati, ma la validità del dato o della tesi si impone quando siano uno dei tanti esempi di una ricerca più ampia che attinge ad una infinità di altri esempi sottoposti a prove di comparazione e quando siano una delle tesi di un complessivo ed organico corpo teorico.
Tutte queste considerazioni diventano obbligatorie nell'analisi dell'imperialismo specie quando dal metodo di analisi si passa al metodo di esposizione e si cerca di illustrarne una singola manifestazione politica.
E il caso della lotta per l'energia. Facciamo un esempio. Alcune fonti calcolano che gli investimenti delle imprese petrolifere raggiungeranno nel 1979 la somma di 70 miliardi di dollari. Altre valutazioni possono contestare questa stima: in primo luogo perché è una stima, in secondo luogo perché l'effettivo investimento si potrebbe calcolare caso mai a 1979 concluso, in terzo luogo perché è probabile che l'esatto ammontare dell'investimento del 1979 non sarà mai conosciuto.
Non per questo è impossibile un'analisi della questione energetica se la stima sull'investimento viene confrontata con altri tipi di investimento di più accertata valutazione e se, da tale confronto, la stima stessa risulti corrispondente ad una determinata proporzione. In ogni modo si può lavorare attorno alla stima dei 70 miliardi di investimento ed anche la considerazione per la quale questa quota di investimento è pur sempre una quota ridotta del totale mondiale degli investimenti industriali non impedisce di vederne la sua consistenza in confronto ai soli investimenti di settore.
Comunque la si affronti, la questione energetica rimane sempre centrale. Possono variare fonti, dati e stime ma non ne possono capovolgere la importanza economica e, quindi. politica.
La posizione della Francia è significativa a proposito. Il ministro degli Esteri J.F. Poncet dice che il punto fondamentale è costituito dagli Stati Uniti: "La questione non è di sapere se gli americani ridurranno o no il loro consumo ma se essi limiteranno le loro importazioni".
Raymond Aron, su "L'Express'' del 14 luglio, sostiene una tesi che rafforza la posizione di Poncet. Dice, sostanzialmente, che il consumo di energia in TEP è rimasto nel 1978 invariato, in confronto al 1973, in Francia, Germania Federale e Stati Uniti, solo che, mentre la Germania Federale ha ridotto l'importazione di petrolio da 110 milioni di tonnellate nel 1973 a 95 nel 1978, gli Stati Uniti l'hanno aumentata.
Ecco il consumo in TEP degli USA: 1973, 1.827 milioni, 1978, 1.872 milioni. Ed ecco il consumo della Germania (1973, 267 milioni TEP, 1978, 271 milioni) e della Francia (1973, 174 milioni TEP, 1978, 182 milioni). Ma siccome la parte di petrolio nel consumo TEP in USA è aumentata (passando da 818 nel 1973 a 905 nel 1978) e non avendo incrementato in proporzione la produzione petrolifera interna come ha fatto la CEE nel Mare del Nord, anche l'andamento dell'import petrolifero ne ha risentito. La CEE è passata da 607 milioni t a 481, gli Stati Uniti da 171 nel 1974 a 340 milioni t nel 1978.
Per i francesi si tratta, quindi non tanto di ridurre il consumo di energia quanto di ridurre l'import di petrolio. E questo devono farlo soprattutto gli Stati Uniti e soprattutto nel Medio Oriente.
Il legame con la lotta d'influenza tra americani, russi ed europei in Medio Oriente risulta evidente. Meno evidente, ma presente, è anche quello, già accennato da Fukuda, con la suddivisione delle sfere di influenza tra USA e URSS in Europa, suddivisione che veniva sancita con il Salt II in concomitanza con i vertici energetici e che, non a caso, veniva accolto freddamente dalla Francia. E già aperta la trattativa informale per il Salt III che dovrebbe affrontare anche le cosiddette "zone grigie", cioè gli aspetti militari non inclusi nel Salt II che riguardano in particolare gli europei e che potrebbero trattare il potenziale nucleare inglese e francese.
La Francia, per ora, non è disposta ad essere inclusa nella trattativa, la Germania, invece, spinge per entrarvi come blocco europeo. E un aspetto che riguarda l'alleanza franco-tedesca, le sue premesse e le sue prospettive e, senz'altro, non è estraneo ad un certo appoggio che Schmidt ha fornito a Giscard a Strasburgo e a Tokyo nel fare impegnare Carter per un limite di 8,5 milioni di barili al giorno di importazione nel 1985. Non è tanto la certezza dell'impegno quanto il fatto politico che sia stato strappato che interessa i francesi.
Non a caso J.F. Poncet dice che è "un impegno preciso e formale" e R. Aron che il vertice di Tokyo "è finito meglio di come era cominciato".
Infatti, per noi, non finisce sul petrolio ma inizia sulla energia e sulla energia nucleare.
Negli anni scorsi vi è stato un duro scontro sulla vendita di centrali nucleari e degli impianti di ritrattazione della tedesca KWU e della francese FRAMATOME all'Iran, Brasile, Sud Corea e ad altri paesi emergenti. Gli Stati Uniti, per impedirla, arrivarono ad una specie di blocco sull'uranio arricchito. Da qualche tempo lo scontro sembra placato ed è sintomatico che nei documenti ufficiali dei vertici energetici l'argomento sia stato trattato genericamente ed, anzi, sia stata affermata la necessità dell'aumento della produzione di centrali nucleari. Non viene, però, affrontata in modo chiaro la questione degli impianti del combustibile nucleare.
Schmidt, appena tornato da Tokyo, ha esposto la necessità di incrementare la gassificazione del carbone e la creazione di centrali nucleari. Evidentemente ripropone la questione del combustibile nucleare.
Le grandi banche tedesche ed imprese come la Siemens ritengono che la via nucleare sia oggi più aperta. La CEE sostiene un progetto di 150 centrali nucleari in 10 anni, con un investimento di circa 500 miliardi di dollari. Negli stessi USA, la General Electric e la Westinghouse premono sull'amministrazione Carter per una intensificazione del settore nucleare. In Italia la battaglia è in corso.
Ora l'investimento sul nucleare è deciso, più che dalle lotte tra i grandi gruppi, dal costo dell'energia ed è, quindi, difficile prevedere se tutti questi progetti prenderanno corpo. Resta il fatto che, come abbiamo visto, la produzione di energia nucleare, essendo molto ridotta, ha un ampio spazio nella produzione TEP.
Non saranno i quantitativi di import petrolifero stabiliti a Tokyo ma il loro costo a influenzare i tipi di investimento.
Per gli USA e il Canada, nei sei anni fino al 1985, è stata concordata la media di import del 1977-1978-1979, ossia 450 milioni di tonnellate all'anno. Per Gran Bretagna, Francia, Germania, l'import è congelato a livello 1978. La CEE, nel complesso, è stabilita per 470 milioni di tonnellate extra europei e l'Italia fa eccezione, pur sempre nel contesto del "tetto" CEE, potendo aumentare il suo import.
Ma è soprattutto il Giappone a poter incrementare del 25% il suo import del 1978 e ad avere una quota di 350 milioni di tonnellate annue.
Segno politico della forza del Giappone, della sua relativa autonomia e del suo gioco tra USA e CEE.
Indipendentemente dalle quote concordate, che per noi hanno un valore relativo, sono i rapporti politici ad essere interessanti perché riflettono la linea di Strasburgo che fissava il limite temporale nel 1985 e nell'import (tesi francese, come abbiamo visto) e non nei consumi.
Sarà da vedere, poi, come i quattro europei riusciranno in novembre al consiglio CEE di Dublino a ripartire le disponibilità di petrolio paese per paese e come le grandi imprese che operano nel Mare del Nord influenzeranno tale disponibilità.
Sui costi, invece, i progetti sono ancor più aleatori. Molto dipende dai costi della produzione interna USA. Gli Stati Uniti hanno pattuito dei semplici "gentleman agreements" per ridurre i sussidi all'import e per accelerare la liberalizzazione dei prezzi interni petroliferi, ma non sono andati oltre. Lo scontro di interessi tra i vari settori e i grandi gruppi è tanto forte in USA da paralizzare lo stesso governo e da provocarne un clamoroso rimpasto.
In realtà la previsione sui costi dell'energia è impossibile e lo diventa ancor più nella misura in cui aumentano, con lo sviluppo del capitalismo nel mondo, i punti di produzione e i punti di consumo di energia. Prendiamo un esempio: le previsioni sull'aggravio dei prezzi petroliferi nel 1979. Esse sono infinite e si va dal 20 ai 60 miliardi di dollari rendendo inutile ogni calcolo.
Sostanzialmente, tra le tante previsioni che circolano le più solide sono due.
La prima ,che esprime il "liberismo imperialistico" di metropoli come quella tedesca, prevede un corso del mercato mondiale che stabilizzerà i prezzi non molto in alto. Naturalmente, in questo liberismo neanche la libertà di investimento nucleare .
La seconda, a carattere più keynesiano o programmatore, prevede che l'aumento dei prezzi petroliferi, pur colpendo di più CEE e Giappone, non permetterà agli Stati Uniti di ridurre il deficit della bilancia dei pagamenti e ciò aprirà forse la crisi del dollaro. Naturalmente, in questa previsione non viene presa in considerazione la diminuzione del costo dell'energia e il suo aumento di produttività.
Ed è proprio su questo terreno che viene combattuta la lotta per l'energia.
Il confronto interimperialistico è sul prodotto, o reddito prodotto, per TEP.
La Esso italiana ha fornito la stima di 480 mila lire di reddito prodotto in Italia per una TEP e ha sostenuto che la spinta dovrebbe essere a produrne 550-580 mila. Il ragionamento fila poiché significherebbe un incremento dal 10 al 20% di reddito prodotto per una TEP; il che è equivalente ad un aumento del 10-20% del costo di una TEP.
Insomma la metropoli italiana dovrebbe allinearsi alle sue concorrenti che hanno un più alto reddito prodotto per una TEP. Ma se andiamo a vedere meglio il termine di confronto, non dichiarato dalla Esso italiana e da "La Stampa'' che ha ripreso la tesi, è la Germania Federale che produce un terzo di reddito procapite in più dell'Italia per ogni TEP consumata.
Da un calcolo sommario che abbiamo fatto per il 1978, risulta che gli Stati Uniti hanno prodotto 1.086 dollari per abitante per una TEP, l'Italia 1.370 e la Germania Federale 1.979. Nei valori influisce certamente il mutato rapporto valutario tra dollaro e marco, ma si può facilmente vedere la preminenza tedesca e la collocazione italiana.
Aumentare di un quinto il reddito prodotto per una TEP in Italia significa portarlo quasi alle spalle della Germania. E' un incremento di produttività che richiede investimenti ingenti ed una profonda ristrutturazione dell'apparato produttivo.
Sono questi i motivi di fondo della lotta interimperialistica in corso su scala mondiale. Sono queste le cause ultime del nodo energetico che ne impediscono lo scioglimento e che ne prolungano l'inasprimento.
("Lotta Comunista" n.107,108 luglio-agosto 1979)
La battaglia su di un fronte
Il peso del settore automobilistico
Caratteri della battaglia automobilistica
Covata da anni è esplosa la battaglia mondiale dell'industria automobilistica. Essa è il primo grande e lampante esempio della crisi di ristrutturazione degli anni 1974 e 1975 e della riorganizzazione dell'apparato industriale mondiale che l'ha precorsa e, soprattutto, seguita.
La battaglia su di un fronte
Il peso del settore automobilistico
Caratteri della battaglia automobilistica
Da quella crisi alcuni imperialismi ne uscirono indeboliti ed altri rafforzati, alcune imprese ne emersero più forti ed altre più deboli.
Oggi, quella che poteva sembrare una analisi arida ed astratta prende corpo nella vita sociale quotidiana che coinvolge le larghe masse delle popolazioni di tutti i continenti. I miti ideologici del "superamento dell'automobile" e del "nuovo modello di sviluppo" crollano come birilli.
Risuonano, nei discorsi correnti, i temi di quella che pomposamente veniva liquidata come letteratura vetero - marxista.
La battaglia dell'automobile non è più solo un argomento di studio della scuola marxista; è il fatto del giorno.
L'ascesa dell'imperialismo giapponese non è più solo l'oggetto di esame delle lotte interimperialistiche, è l'allarme per l'invasione giapponese lanciato, ad esempio, in Italia dalla FIAT di fronte alla proposta di accordo Alfa - Nissan.
Si rende necessario un primo tentativo di interpretazione del fenomeno in corso. Cerchiamo innanzitutto di individuare le sue tendenze di fondo collegate al processo di concentrazione. In seguito, porteremo una più dettagliata analisi statistica e finanziaria.
Lo scontro tra le potenze imperialistiche, che vediamo nei suoi riflessi politici, e che sintetizziamo nella dinamica dei PNL e dei Prodotti industriali, in realtà si concretizza in una infinità di scontri tra imprese. La dinamica di migliaia di imprese è, in fondo, la dinamica dell'imperialismo; questa dinamica non può essere rappresentata che graficamente. Statisticamente si può operare solo una sintesi per settore, rappresentando la dinamica delle maggiori imprese.
La battaglia generale combattuta su più fronti dai grandi gruppi (e, ad un livello più aggregato, dai grandi insiemi finanziari) può essere, in questo modo, seguita e ricomposta attraverso le battaglie di settore. Diventa, così, più comprensibile.
Abbiamo analizzato la battaglia energetica, la quale è fondamentale, per il suo peso specifico mondiale, per la sua esemplarità a livello qualitativo e quantitativo. Essa, però, riguarda un meccanismo difficile da rappresentare: il costo energetico, la quota di costo energetico contenuta in ogni merce, la sua correlazione con la produttività. La battaglia avviene su questo terreno di scontro, mentre in apparenza si presenta, invece, come lotta sulla quantità e sul prezzo dell'energia.
Anche la battaglia automobilistica avviene su di un terreno di scontro che fondamentalmente riguarda il costo energetico e la produttività. Però maggiore è la sua esemplarità per i seguenti motivi: la sua importanza a livello quantitativo, il fatto che coinvolga direttamente milioni di addetti (a cui si aggiungono altri milioni nelle produzioni indotte), la popolarità dei suoi protagonisti. Più che in ogni altro settore, il consumatore conosce marca e modello, ossia società ed articolo; in parte ciò avviene anche per le società petrolifere, però molte di esse non commercializzano al dettaglio (ad es. la NIOC) ed altre, ancora ,sono conosciute solo per marchio di commercializzazione al dettaglio (ad es. la TOTAL della CFP, 19a società mondiale e 10a società petrolifera, o la ARAL della VEBA, ecc.).
Questi motivi spiegano perché delle tante battaglie economiche e commerciali in corso a livello mondiale quella dell'industria automobilistica occupi la ribalta e l'attenzione.
Per le stesse ragioni di esemplarità essa richiede una particolare attenzione all'analisi leninista dell'imperialismo.
Il settore automobilistico rappresenta circa il 3-4% del Prodotto lordo mondiale.
Nelle prime 1.000 società mondiali (classifiche Fortune 1978) le società del settore auto sono 29 e quelle del settore componenti auto altrettante. Il loro fatturato totale è 332,9 miliardi di dollari, ossia il 13,8% del fatturato delle prime 1.000 società mondiali; mentre gli addetti sono circa il 13% degli addetti delle prime 1.000 società.
Per stabilire un paragone: le 90 società petrolifere rappresentano il 23% del fatturato totale ed il 5,7% degli addetti totali delle prime mille società mondiali.
Il grado di concentrazione del settore è molto alto: 11 società auto nelle prime 50 società mondiali, e 12 società auto nelle prime 100 società mondiali, le prime 20 società automobilistiche rappresentano il 96,7% del fatturato totale delle 29 società del settore e se si considera anche il fatturato delle società componentistiche, la quota delle prime 20 società rappresenta l'82,8% del totale.
Per mantenere il paragone del settore petrolifero, le prime 20 società petrolifere rappresentano l'85 per cento del fatturato totale delle 90 società del settore comprese nelle prime 1.000 società mondiali.
Come si vede da questi dati, la concentrazione dell'industria automobilistica è maggiore di quella dell'industria petrolifera.
Può sembrare strano dato che questi dati, a differenza di quelli riguardanti le società petrolifere, non vengono mai sottolineati nella pubblicistica corrente.
Tutti gli attuali gruppi sono il risultato di precedenti battaglie di assorbimenti e di fusioni. E ciò è dimostrato dall'alto grado di concentrazione. Essa è il risultato di una recente battaglia di concentrazione negli anni '60.
In Francia: nel 1958 la Chrysler (USA) entra con partecipazione del 15% nella Simca e nel 1960 in alleanza con la FIAT maggioritaria nella Simca Industrie, nel 1966 la quota Chrysler salirà al 77% mentre la FIAT nel 1966 creerà la FIAT France con le società UNIC (camions) e SOMECA (trattori) ponendo fine all'alleanza con la Simca. Nel 1955 Citroen assorbe la Panhard e poi nel 1967 la Berliete nel 1968 si associa alla FIAT.
1966: accordo di cooperazione tra Peugeot-Renault e Volvo. 1974-76: l'associazione tra FIAT e Citroen entra in crisi; 1974: la Peugeot entra nella Citroen ed infine nel 1976 l'assorbe. Con la crisi del gruppo Citroen, la società Berliet (camions) viene assorbita dalla Renault.
In Inghilterra: nel 1964 la Chrysler acquista la società Rootes e poi creerà la Chrysler UK;
1967: la British Motors Corp. per superare la sua crisi si fonde con la Leyland, allora emergente, da cui nasce la British Leyland Motors Corp. che passerà sotto il controllo statale nel 1975.
In Germania la Volkswagen assorbe Audi - NSU; in Svezia fusione fra Saab e Scania nel 1968; in Italia la FIAT assorbe la Lancia, l'OM, l'Autobianchi; in USA la Mack Truks viene assorbita dal conglomerato Signal Companies nel 1967.
In Giappone le due società Toyota e Nissan sono il risultato di numerosi assorbimenti di piccole società a partire dalla seconda metà degli anni '50. E dei primi anni '70 sono le associazioni tra la Mitsubishi Motor e la Chrysler con una partecipazione del 15% nella società giapponese, e fra la Isuzu Motor e la General Motors con il 34,2% nella società giapponese. Nel 1969 iniziano trattative della Toyo Kogyo con la Ford, ma falliscono nel 1972.
Nel 1966-1967 (anni cruciali),nel clima di " la sfida americana "e delle campagne sul Vietnam, vi furono, come adesso, molti progetti pubblici di accordi e fusioni, forse più propagandistici che altro: Dreyfus (presidente Renault) propone la fusione a Valletta e a Nordhoff (presidente Volkswagen), mala VW rifiuta l'alleanza contro gli USA; trattative per accordo tra Pierre Bercot (Citroen) e Nordhoffma la VW si ritira; accordo tra Citroen e la società NSU; accordo British Leyland Motors con la Innocenti - Italia.
In Italia negli anni cruciali l'Alfa Romeo crea l'Alfa - Sud mentre la FIAT è l'unica società che spera di salvarsi lanciandosi sul mercato russo con la creazione di Togliattigrad: nel 1967 in piena crisi della VW la FIAT è la prima società europea sulle auto ma dieci anni dopo sembra perdente.
L'attuale fase della battaglia automobilistica vede una recentissima concentrazione che ha rappresentato un consistente spostamento di peso specifico e che è stato un segno di forte crisi del 3° gruppo USA con un suo declino e l'ascesa del gruppo francese Peugeot. Tale fatto ha scatenato tutta una serie di contraccolpi nell'industria automobilistica. Renault: accordo con la Mack Truks e con la Volvo svedese, accordo della British Leyland con la Honda, tentativo di accordo tra Alfa Romeo e la Nissan, fusione degli interessi argentini delle due società Peugeot e FIAT.
Il fatto che a distanza di pochi anni da una ondata di concentrazione, e malgrado l'estensione della suddetta ondata, siano i gruppi che attuarono l'ondata ad essere in crisi (British Leyland, Saab Scania, Chrysler, FIAT), dimostra l'acutezza della battaglia automobilistica degli anni '80.
Essa è destinata ad animare parecchio le cronache future.
("Lotta Comunista" n.115 mar. 1980)
Sviluppo del mercato mondiale dei mezzi di consumo privati
Sviluppo del mercato mondiale dei mezzi di produzione
L'investimento industriale nei PVS
Tendenze del commercio mondiale negli ultimi anni
L'esportazione di macchinari nei PVS
Esportazione mondiale di macchinari
Esportazione mondiale di manufatti
Esportazione mondiale di macchinari
Velocità differenziate delle metropoli
Il ruolo del credito internazionale nella ristrutturazione
Lo sviluppo del capitalismo su scala mondiale dalla fine della seconda guerra mondiale imperialistica è stato la causa prima della crisi di ristrutturazione. Esso ha provocato una vasta estensione dell'apparato industriale in tutte le aree economiche del globo e, contemporaneamente, ne ha accelerato la costruzione.
Sviluppo del mercato mondiale dei mezzi di consumo privati
Estensione e ritmo dell'industria mondiale hanno caratterizzato il ciclo che si è chiuso con la crisi di ristrutturazione, il quale può essere visto anche con l'indicatore della produzione industriale ma deve, soprattutto, essere analizzato e considerato con l'indicatore della produzione dei mezzi di produzione. Da questo punto di vista il ciclo passato, la crisi di ristrutturazione, la ristrutturazione in atto ed il nuovo ciclo in corso trovano una più corretta interpretazione.
L'andamento dei cicli, dalle punte massime a quelle minime deve insomma, essere analizzato come andamento a livello mondiale del capitale costante fisso nella industria.
Se si esclude che la crisi sia stata una crisi generalizzata di sovrapproduzione e si esclude, di conseguenza, che si sia verificata una crisi di realizzo del plusvalore, è d'obbligo concentrare l'attenzione sull'andamento della produzione dei mezzi di produzione. Ogni storia del ciclo è storia di quella che Marx, nei suoi schemi di riproduzione, chiama Sezione I^, poichè il ciclo capitalistico non è nient'altro che la storia della riproduzione allargata del capitale. Tanto più lo è quanto più la riproduzione avviene su scala molto più estesa di quanto non fosse in precedenti cicli e con un ritmo più rapido di quanto si sia mai verificato.
Prima di vedere come si è sviluppato il mercato mondiale dei mezzi di produzione è utile vedere come si è sviluppato quello dei mezzi di consumo ad uso privato sul quale vi è più abbondanza di materiale statistico. I consumi privati, nelle fonti che abbiamo utilizzato, comprendono anche i prodotti agricoli ed i servizi, ma sono indicativi comunque dei consumi privati dei prodotti industriali per tutta una serie di ragioni.
In primo luogo, per la parte considerevole di consumo sociale di prodotti industriali che interviene nella produzione agricola destinata ai consumi privati di prodotti agricoli. In secondo luogo, per la lavorazione industriale (industria alimentare) della stessa produzione agricola destinata ai consumi privati. Ciò specie nei paesi industrializzati, ma anche in quelli in via di sviluppo il processo di produzione e di consumo presenta queste caratteristiche qualitative mentre, ovviamente, le mantiene a gradi quantitativi inferiori. Più difficile e controversa è la quantificazione dell'autoconsumo agricolo, specie nei paesi in via di sviluppo, ma ciò non inverte la tendenza generale che si può riscontrare a livello mondiale.
Purtroppo abbiamo potuto utilizzare i dati riguardanti i consumi privati mondiali partendo solo dal 1960.
La stessa ONU, forse la migliore e più attrezzata fonte per questa voce, non va oltre quella data nel presentare un quadro mondiale omogeneo, tale cioè da permettere le necessarie comparazioni quantitative. Ovviamente esistono singole fonti, singoli studi e singole stime per singoli paesi o gruppi di paesi, ma, al momento, non presentano possibilità di utilizzo sistematico, al fine che ci siamo proposto, per quanto riguarda i decenni precedenti quelli che, per questa voce, sono presi in considerazione.
(TABELLE)
Come si vede dai dati di tabella 1, nel periodo 1960-70 la crescita dei consumi privati ha lo stesso ritmo nei Paesi in Via di Sviluppo (PVS) e nelle regioni industrializzate, ma nei quattro anni successivi il ritmo di crescita nei PVS è superiore di 1,5 volte a quello delle regioni industrializzate e nel momento massimo di caduta del ciclo il ritmo dei primi è quasi due volte quello dei secondi. Se si prendono le singole aree ed il ritmo CEE come metro di paragone, si vede, a parte l'Africa più indietro nei primi due periodi, che tutte le aree PVS hanno ritmi superiori che al momento della crisi di ristrutturazione si accentuano: l' Africa quasi 4 volte superiore, l' America Latina 3 volte, il Medio Oriente 8 volte, l'Asia PVS quasi 3 volte.
Come si vede chiaramente, le aree in sviluppo costituiscono ormai un mercato di prodotti industriali destinati al consumo privato e ciò significa l'esistenza di un mercato di prodotti industriali destinati al consumo sociale, ossia un mercato di mezzi di produzione.
In realtà il reale processo capitalistico inizia da uno sviluppo più rapido della produzione dei mezzi di produzione e questo sviluppo determina l'espansione, ad un ritmo più lento, della produzione industriale di beni destinati al consumo privato.
Si può analizzare questo processo solo se lo si considera a livello mondiale, solo cioè se si considera il mercato mondiale poiché può accadere, come accade, che una parte dei mezzi di produzione siano importati dalle terre in sviluppo e meno industrializzate.
Sviluppo del mercato mondiale dei mezzi di produzione
E' necessario, a questo fine, analizzare i ritmi di sviluppo del PNL ed i ritmi di formazione del capitale fisso lordo per singole aree. I due ritmi ci danno, in assoluto, la velocità di sviluppo del prodotto sociale e del capitale mondiale.
Confrontandoli ci danno il loro rapporto relativo. Il ritmo più veloce della formazione del capitale fisso lordo dimostra nettamente il processo di accumulazione del capitale. Ciò vale per tutte le aree, e vale nettamente per le aree in sviluppo dove la tendenza non si arresta neppure, come avviene per le metropoli, negli anni 1974-1975.
Come vedremo, l'inversione nella formazione di capitale fisso lordo nelle metropoli è compensata dalla accelerazione del ritmo di esportazione dei mezzi di produzione dalle stesse metropoli verso le aree in sviluppo, per cui si può dire che la formazione del capitale fisso lordo mondiale non è rallentata neppure negli anni 1974-1975.
Il fenomeno risulta ancora più chiaro qualora si considerino a parte le costruzioni le quali, nella metodologia statistica ufficiale, vengono incluse nel capitale fisso lordo. Perciò, nella nostra elaborazione, pur considerando nella voce "formazione del capitale fisso lordo" anche le costruzioni, abbiamo calcolato a parte il ritmo delle costruzioni proprio per poter individuare, nel confronto col ritmo della voce comprensiva della voce "capitale fisso lordo", il probabile ritmo di formazione del capitale fisso lordo industriale in senso stretto, ossia dei mezzi di produzione.
Comunque questo ritmo risulta chiaro, come vediamo, dal rapporto tra il valore della produzione industriale manifatturiera dei PVS e la loro importazione dei mezzi di produzione ed, infine, dal rapporto tra i ritmi di sviluppo di queste due ultime voci.
La stessa fonte GATT ci permette di stabilire il confronto tra i ritmi di sviluppo della produzione manifatturiera dei PVS e del loro importo di mezzi di produzione (vedi tabella 2).
Si può calcolare che "nel lungo periodo", come dice il GATT, ossia dal 1963, la produzione manifatturiera dei PVS è cresciuta del 7% annuo e che, almeno nel periodo 1973-1976, l'import di macchinari per industrie specializzate è cresciuto al tasso medio del 32,4%.
Il movimento dell'economia, come il movimento della totale realtà sociale, risulta comprensibile solo se si analizzano i suoi nessi reciproci e necessari. Il metodo scientifico dialettico, da noi impiegato, ci permette di individuare una infinità di rapporti dai quali emergono nettamente una serie di tendenze.
Ci limitiamo ad indicare i principali, anche perchè questi sono sufficienti ad argomentare il nostro discorso senza appesantirlo ulteriormente.
Del resto è specifico di una tesi, come è la nostra sulla crisi di ristrutturazione e sulla ristrutturazione stessa, indicare i tratti salienti della ricerca che l'ha permessa.
Anche per i ritmi di sviluppo del PNL e della formazione di capitale fisso lordo, ricavati con nostre elaborazioni dalla fonte ONU, valgono le considerazioni ONU, valgono le considerazioni che abbiamo fatto precedentemente.
Occorre partire dal 1960, data comunque sufficiente per poter abbracciare, anche se non totalmente, il ciclo mondiale.
Sinora, purtroppo, il pur abbondante materiale statistico non permette un calcolo corretto sulla formazione di capitale fisso industriale nei PVS per i decenni precedenti che sia confrontabile con il calcolo riguardante i paesi industrializzati e che sia, di conseguenza, omogeneo ad una valutazione, come la nostra, che ha come oggetto il mercato mondiale.
Infatti, la nostra tesi sostiene non solo che vi è stato uno sviluppo del capitalismo mondiale ma pure che il capitalismo si è sviluppato più rapidamente nelle aree arretrate e che ciò è causa della crisi di ristrutturazione e della nuova ricollocazione dell'apparato industriale nell'economia mondiale.
Confrontiamo (tabella 3) il ritmo di sviluppo del prodotto totale con quello degli investimenti totali (capitale fisso lordo)--il ritmo di sviluppo degli investimenti nelle costruzioni è molto più lento di quello degli investimenti totali a sottolineare che quest'ultimo è marcato da un forte ritmo degli investimenti nell'industria--nelle due zone che ci interessano (PVS e regioni industrializzate: non sono qui considerate le cosiddette economie "socialiste"); si vede che il ritmo dei PVS è superiore a quello delle regioni industrializzate ma la velocità del ritmo negli investimenti non si discosta molto da quella del PNL nel primo periodo. Ma nei due momenti successivi le due velocità si divaricano: mentre quella del PNL nei PVS è superiore di quasi due volte a quella delle regioni industrializzate, il ritmo degli investimenti nei PVS è di 3 volte superiore a quello delle regioni industrializzate. Ed al momento della crisi di ristrutturazione il fenomeno è ancora più accentuato: nei PVS si vanno sviluppando sempre di più mercati nazionali e di conseguenza gli investimenti nell'industria aumentano.
Da queste prime considerazioni pensiamo di aver indicato alcune linee di tendenza del capitalismo mondiale nelle sue parti mature imperialisticamente e nelle sue parti emergenti.
La ristrutturazione, come abbiamo visto e come vedremo in seguito è un processo mondiale. Su di essa il marxismo deve cimentarsi, se non vuole atrofizzarsi a pura e semplice agitazione. Il processo mondiale di ristrutturazione dell'apparato produttivo abbraccia diverse fasi dello sviluppo capitalistico nel tempo e diverse regioni economiche nello spazio. Sia nel tempo che nello spazio esprime, inoltre, diverse velocità dello sviluppo.
Abbiamo visto quali sono stati i ritmi di formazione del capitale fisso lordo industriale nelle regioni sviluppate e nelle regioni in sviluppo a partire dal 1960.
Abbiamo, inoltre, visto che, nel 1976, l'import di macchinari per industrie specializzate è stato nelle regioni sviluppate il 3,4% della produzione manifatturiera e nelle regioni in sviluppo il 15,4%, ossia più di 4 volte. Su 100 dollari di produzione manifatturiera i PVS importano 15,4 dollari di macchinari per quella produzione.
Difficilmente questo rapporto può scendere sensibilmente nel breve periodo. Ciò significa che la produzione manifatturiera dei PVS traina la produzione dei mezzi di produzione delle metropoli destinata all'export.
L'attenzione va, quindi, rivolta alla formazione del capitale fisso lordo industriale dei PVS, alla loro produzione manifatturiera ed al necessario rapporto con l'import di macchinari.
L'investimento industriale nei PVS
L'investimento in mezzi di produzione nei PVS si è trasformato in aumento della produzione industriale manifatturiera in questi paesi ed in assoluto su scala mondiale. La Conferenza dell'ONU a Lima nel 1974 prevede che la produzione industriale dei PVS passi dal 7% attuale al 20% nell'ultimo quarto di secolo. Indipendentemente da queste previsioni, rimane il fatto che la quota dei PVS è destinata a crescere dato che continua in essi l'investimento in mezzi di produzione e che questo investimento, proprio come risultato della ristrutturazione nelle metropoli, è destinato a continuare e a crescere.
E' questo un aspetto della diffusione del capitalismo e dello sviluppo del mercato mondiale il quale provoca, a sua volta, uno sviluppo del commercio internazionale. Infatti, il commercio internazionale si sviluppa ad un ritmo superiore al ritmo del prodotto lordo delle metropoli imperialistiche e allo stesso ritmo del prodotto lordo mondiale. E' un fenomeno costante da anni, ma quello che è più interessante constatare è che il ritmo del commercio internazionale dei mezzi di produzione supera lo stesso ritmo del commercio internazionale di tutte le merci e che il ritmo di importazione dei mezzi di produzione da parte dei Paesi in via di sviluppo supera tutti i ritmi in assoluto.
Queste differenti velocità delle componenti dell'economia mondiale sintetizzano chiaramente ed irrefutabilmente il suo movimento generale meglio di tante analisi parziali che non tengono conto dei nessi reali e delle molteplici interdipendenze.
Il ritmo di incremento dell'industria nelle varie regioni mondiali dal 1960 al 1976 dimostra chiaramente una tendenza di lungo periodo. Abbiamo già visto l'incremento dei consumi privati nel 1960-1975 ed abbiamo iniziato ad affrontare l'analisi dello sviluppo dei consumi sociali e produttivi nello stesso periodo.
La tendenza può essere analizzata dal lato della produzione industriale anche se produzione e consumi privati non sempre coincidono dato che nella congiuntura del ciclo il ritmo della produzione può superare il ritmo dei consumi privati, causando una sovrapproduzione o eccesso di offerta in questo particolare settore, e il ritmo dei consumi privati può superare quello della produzione, causando una sottoproduzione o eccesso di domanda. Per poter valutare esattamente la congiuntura occorrerebbe conoscere la consistenza delle scorte nelle varie regioni mondiali, cosa, per ora, impossibile data la scarsità delle fonti.
Si può, però, tentare una valutazione suddividendo come abbiamo fatto, il ritmo industriale in ritmo dell'industria leggera e in ritmo dell'industria pesante.
Può accadere che il rallentamento del ritmo dei consumi privati, sbocco dell'industria leggera, non sia che un aspetto dell'incremento dei consumi sociali o produttivi, sbocco dell'industria pesante, anche se non esclusivo, specie nella forma dei cosiddetti beni intermedi.
In questo senso, la " produzione per la produzione " che caratterizza secondo la teoria marxista, la riproduzione allargata del capitale non può e non deve essere considerata nella congiuntura annua dato il diverso ciclo di investimento (macchinari e scorte ossia capitale fisso e circolante) che abbraccia più anni. Del resto il fatturato, fatturato che è alla base dei calcoli statistici dei vari enti internazionali, di imprese che producono per l'investimento industriale spesso ha una scadenza pluriennale.
Comunque dalla tabella 1, si possono notare le due diverse velocità dell'industria leggera e dell'industria pesante. In particolare tale differenza è notevole nei PVS i quali registrano anche nel 1974-1975, di fronte ad un calo mondiale dell'industria pesante dell'1,5%, un incremento del 2,7%.
Tendenze del commercio mondiale negli ultimi anni
Il non rallentamento della produzione dell'industria pesante nei PVS significa, in altri termini, che la produzione dei mezzi di produzione in quelle regioni prosegue senza sosta. Ciò si traduce, da un lato, in un forte import di mezzi di produzione da parte dei PVS e, dall'altro, in un forte export degli stessi mezzi di produzione da parte dei paesi capitalisticamente maturi.
La crisi di ristrutturazione nelle metropoli imperialistiche ha visto un aumento della produzione dei mezzi di produzione esportati nei PVS.
Vediamo il commercio mondiale nel periodo della crisi di ristrutturazione (tabella 2).
Nel 1973 le esportazioni mondiali di macchinari per industrie specializzate erano il 9,48% delle esportazioni mondiali totali, nel 1977 sono state l'8,86%. Se si considera che tra le due date il valore dell'esportazione del petrolio, dato l'aumento dei prezzi, ha subito un fortissimo aumento, se ne deduce che il peso delle esportazioni di macchinari, seppure lievemente calato come incidenza percentuale, è aumentato considerevolmente.
Ciò ad opera, soprattutto dei PVS.
L'esportazione di macchinari nei PVS
Prendiamo in esame l'export di macchinari per origine e per destinazione nel 1973 e nel 1977 e vediamo quale incremento in valore si è verificato tra le due date, sia per regioni di origine che per regioni di destinazione. L'incremento mondiale è stato dell'89,5% ma, mentre l'import delle regioni industrializzate si è incrementato del 44,4%, quello dei Paesi dell'Est è stato del 69,3%, circa 1/2 in più, e quello delle regioni in sviluppo è stato del 129,6%, cioè quasi il triplo.
I PVS petroliferi hanno visto, certamente, l'eccezionale incremento del 259,5%, ma i PVS non petroliferi, che hanno sopportato anch'essi l'aggravio dei prezzi petroliferi, hanno registrato un incremento dell'82% che è, pur sempre, quasi il doppio di quello delle regioni industrializzate.
Se poi passiamo al ritmo dei paesi esportatori vediamo che il Giappone con il 145,8% supera gli Stati Uniti che hanno il 92,0% mentre Canada con il 90,9% la CEE con l'80,6% e la EFTA con l'86% si collocano vicino agli Stati Uniti.
Questo sul totale mondiale, mentre nell'export verso i Paesi dell'Est, Canada con il 200%, Giappone con il 169,7%, EFTA con il 167,3%, CEE con il 107,1% superano tutti gli USA che hanno il 59,1% ossia un incremento minore di quello dell'export mondiale verso i Paesi dell'Est che è del 69,3%".
Esportazione mondiale di macchinari
Altrettanto significativo è il rapporto tra l'export di manufatti e quello di macchinari. Prima di commentarlo è indispensabile ricordare una tesi sostenuta per molto tempo e che ha trovato una autorevole interprete in Rosa Luxemburg.
Questa tesi vedeva nelle regioni arretrate uno sbocco per la produzione di merci delle metropoli e, nel caso della Luxemburg, uno sbocco per la realizzazione del plusvalore.
Ma quello che era più criticabile in questa tesi era che, oltre a trascurare o negare il ruolo fondamentale dell'esportazione di capitali da parte delle metropoli, vedeva l'export delle merci prevalentemente come export di beni di consumo privati.
Quello che è, invece, caratteristico nella ristrutturazione, ma anche nella fase precedente, è l'export di merci della Sezione 1^ e che, come è implicito nella teoria marxista, queste merci non possono che avere un consumo produttivo: in altre parole non possono che aumentare la produzione.
Certo in sé anche questo export è un realizzo di plusvalore da parte delle imprese della Sezione 1^ delle metropoli, ma se può costituire, come costituisce, uno sbocco per queste imprese, non lo costituisce per le imprese della Sezione II°. Nel complesso la produzione mondiale delle merci sia della I° che della II° Sezione, aumenta. Comunque ci si trova, in ambedue le Sezioni, di fronte ad un allargamento del mercato mondiale.
Questo è il problema da analizzare e non solo e non tanto il problema degli sbocchi il quale, in questo senso, diventa secondario (tabella 4).
Da quanto siamo andati analizzando emerge che dal 1973 la ristrutturazione dell'apparato industriale mondiale si è andata concretizzando in una massiccia esportazione di mezzi di produzione dalle regioni industrializzate verso i Paesi dell'Est, in quantità e con ritmo minore, e verso i PVS, in quantità e con ritmo maggiore.
La nostra tesi segue il seguente svolgimento:
1°) il processo molecolare dello sviluppo capitalistico nelle regioni arretrate, con il crescente impiego di forza-lavoro salariata incrementa i consumi privati di beni di consumo e i consumi sociali di beni di produzione.
2°) la produzione dei mezzi di produzione nelle regioni arretrate non è sufficiente a soddisfare la domanda creata dallo sviluppo. La domanda si indirizza, di conseguenza, al mercato mondiale dove esiste una offerta dei produttori dei mezzi di produzione nelle regioni industrializzate.
3°) L'export dei mezzi di produzione dalle regioni industrializzate e regioni arretrate accelera lo sviluppo capitalistico in queste regioni, in particolare, e in tutto il mondo, in generale.
La rotazione del capitale su scala mondiale avviene, così, ad una velocità che ne impedisce la caduta a seguito di una crisi di sovrapproduzione e di una conseguente crisi di eccedenza di capitale nelle regioni mature imperialisticamente.
L'andamento differenziato dei ritmi che andiamo analizzando sui vari aspetti del movimento generale dimostra che la logica del nostro svolgimento corrisponde allo svolgimento della realtà.
Esportazione mondiale di manufatti
L'esportazione di manufatti nel periodo 1973-1977 ha avuto un incremento inferiore a quella dei macchinari. Quella proveniente dal mondo verso i PVS è passata complessivamente da 67,6 a 138,6 miliardi di dollari, con un incremento del 104,9%, ossia un raddoppio in valore anche se non in quantità dato che il nostro calcolo è fatto in dollari correnti.
Siccome questo criterio lo abbiamo adottato per tutte le voci, il confronto avviene per dati omogenei e ci permette di stabilire quello che ci preme sottolineare: il movimento tra i vari rapporti. Il rapporto tra le varie quantità può, ovviamente, risultare, anche se non di molto, diverso ma non tale da infirmare la nostra tesi di fondo (tabella 5).
Un confronto significativo possiamo stabilirlo se accostiamo i ritmi di incremento nel periodo 1973-1977, dell'export di manufatti e dell'export di macchinari per regioni di origine e regioni di destinazione.
Ad esempio: l'export di tutto il mondo verso le regioni industrializzate vede un ritmo per i manufatti superiore a quello per i macchinari (48,9% e 44,4%). Verso i PVS avviene invece, il contrario: quello dei macchinari (129,6%) supera quello dei manufatti (104,9).
In questi export aggregati sono inclusi, ovviamente, gli scambi tra i paesi della regione industrializzata, nel primo, e gli scambi tra i PVS, nel secondo. Ma basta seguire attentamente l'export delle singole metropoli verso le regioni industrializzate e confrontarlo con il loro singolo export verso i PVS per vedere ancora più accentuate le tendenze che segnaliamo. Tutte le metropoli seguono un incremento maggiore del loro export di macchinari verso i PVS. Non si può dire altrettanto per l'export di macchinari delle metropoli verso le regioni industrializzate, export che in buona parte è un interscambio tra le metropoli considerate, anzi, nel caso della CEE, si ha un maggiore incremento dell'export di manufatti. E' interessante notare che, contemporaneamente, è proprio la CEE a registrare il maggiore incremento dell'export di macchinari verso i PVS (tabella 6).
Esportazione mondiale di macchinari
Ci siamo attardati nell'analisi dei molteplici aspetti della realtà presa in considerazione, ricercando anche pedantemente una serie di rapporti, proprio per poter individuare senza possibilità di equivoci la tendenza fondamentale della ristrutturazione.
Ora possiamo proseguire spediti nell'approfondire l'analisi della tendenza individuata. A questo punto ci occuperemo ormai del solo export di macchinari.
Esaminiamo, in primo luogo, l'export di macchinari per origine.
In pratica quasi tutto questo export ha origine nelle regioni che abbiamo considerato. Ciò chiarisce ancor più l'analisi e la stessa tendenza individuata. Abbiamo stabilito l'incremento tra il 1973 e il 1977 e, per meglio seguire l'andamento, l'incremento di anno in anno.
Nell'arco degli anni 1973-1977 l'incremento maggiore è registrato dal Giappone il quale si aggiudica, inoltre, anche l'incremento per ogni singolo anno. Va detto che il Giappone parte penultimo nel 1973. Nel 1977, però quasi raggiunge l'EFTA. Vedremo, in seguito, come questa velocità del Giappone si sia tradotta in un aumento della sua quota mondiale e come ciò sia avvenuto proprio in direzione dei PVS.
Anticipiamo, intanto, che proprio il dato basso di partenza del Giappone conferma un aspetto, che illustreremo nel proseguio, della nostra tesi per la quale il forte sviluppo industriale, in presenza di un vasto mercato interno in rapido sviluppo, non si traduce necessariamente in un forte export industriale e in incremento notevole del suo ritmo (tabella 7).
Esaminiamo, prima di passare al mercato PVS, la ripartizione per aree di destinazione.
Come si vede, tutte le principali metropoli modificano, a favore dei PVS, la composizione percentuale nel loro export di macchinari. Dal 1973 al 1977 la parte che va alle regioni industriali diminuisce per tutte le metropoli e si traduce in un aumento della quota che va ai PVS. Ma anche qui con velocità differenziate.
Mentre lo spostamento mondiale è 7,9 punti, quello USA è di 10,2 quello del Canada è solo di 3,9 quello del Giappone è anch'esso di soli 3,5 punti. L'EFTA non va oltre il 4,5 punti. E' la CEE a porsi in testa con 10,7 (tabella 8).
Già questi dati indicano che la ristrutturazione comporta un'aspra lotta tra le potenze imperialistiche. La concorrenza imperialista si manifesta nella spinta all'esportazione.
La maggiore velocità di espansione, nel periodo 1973-1977, della CEE verso i PVS è verificabile nell'analisi dell'incremento dell'export di macchinari e delle sue variazioni annue.
Va nuovamente ripetuto che il Giappone parte, in assoluto, da una base inferiore a quella CEE e a quella USA, anche se, in relativo, più della metà del suo export è destinato ai PVS. Aver aumentato ulteriormente tale export, in presenza di una forte pressione USA e CEE, è già un risultato. Comunque, anche se tutte le metropoli superano abbondantemente il tasso mondiale del 129,6%, è la CEE che si pone in testa con l'incremento del 187,5%, seguita dal Canada e dal Giappone.
Velocità differenziate delle metropoli
L'andamento nei singoli anni è, però, molto più differenziato (tabella 9).
Vediamo, infine, le quote delle singole regioni.
C'è poco da aggiungere a quanto abbiamo già detto. C'è da osservare solo questo: la maggiore velocità di espansione della CEE nei PVS non è stata sufficiente a compensare la minore velocità di espansione verso altre regioni. Il saldo è un calo di 2 punti. Per il Giappone il discorso è inverso. Il saldo è un aumento di 1,6 punti.
Sono, però, variazioni che si verificano all'interno di una generale tendenza ad un forte export di macchinari verso i PVS. Le variazioni riguardano, sostanzialmente, le revisioni verso le quali si rivolgeva tradizionalmente l'export di macchinari delle metropoli (tabella 10).
La tendenza possiamo verificarla dal lato dell'import.
In valore le regioni industrializzate importano macchinari per quasi il doppio di quanto ne importano PVS. Dato che hanno 4 volte di investimenti lordi, è evidente che una parte consistente di macchinari destinati all'investimento è prodotta in loco.
È interessante, però, notare che, in rapporto al prodotto lordo, gli investimenti lordi dei PVS sono più alti che nelle regioni industrializzate. Anche per questa considerazione, la tabella indica un aspetto di una più generale industrializzazione dei PVS (tabella 11).
L'export di macchinari dalle regioni industrializzate ai PVS sta creando un apparato produttivo industriale che si traduce in aumento della produzione manifatturiera. Quella dei PVS ha raggiunto, nel 1976, 186,8 miliardi di dollari in confronto ai 1160 delle regioni industrializzate. Essa rappresenta il 4,5% della produzione manifatturiera delle regioni industriali. Se facciamo 100 la produzione manifatturiera mondiale abbiamo: 12,7% per i PVS e 87,3% per le regioni industrializzate.
La esportazione manifatturiera è, invece, il 10,3% di quella delle regioni industrializzate.
Se facciamo 100 la esportazione manifatturiera mondiale abbiamo: 1,3% per i PVS e 90,7% per le regioni industrializzate. Come abbiamo già sostenuto, è lo sviluppo del mercato interno dei PVS a costituire il fattore determinante il loro aumento di produzione industriale in generale e di produzione manifatturiera in particolare. Il rapporto fra produzione ed export manifatturiero lo dimostra (tabella 12).
L'analisi statistica che siamo andati compiendo sui dati disponibili può essere sufficiente a dare la dimensione quantitativa al processo che abbiamo definito di ristrutturazione dell'apparato industriale mondiale.
Abbiamo, indubbiamente, analizzato solo un aspetto della ristrutturazione dato che questa non si limita alla sola industria. Però questo è l'aspetto caratteristico dal quale si può e si deve partire per affrontare gli altri.
Il ruolo del credito internazionale nella ristrutturazione
Da un punto di vista teorico più generale va anche detto che quella che definiamo ristrutturazione non è altro che un momento dello sviluppo capitalistico nella fase dell'imperialismo. Storicamente si situa nella fase che dura da quasi un secolo. Teoricamente richiede di essere collocato in uno studio complessivo dello sviluppo capitalistico che prosegua la strada tracciata da '"Lo sviluppo del capitalismo in Russia" di Lenin.
Alcuni problemi sorgono nelle metropoli imperialistiche dalla ristrutturazione dell'apparato industriale mondiale.
Riguardano la esportazione di capitali, l'interscambio di merci e la produttività industriale e generale.
Comportano i rapporti tra le potenze imperialistiche e i giovani capitalismi, i rapporti fra le potenze imperialistiche e i rapporti di concorrenza internazionale.
Per la loro natura coinvolgono, in vario modo, il mercato della forza-lavoro e la sua dinamica.
La classe operaia, perciò, non può fare a meno di conoscere il processo mondiale di ristrutturazione; essa stessa è ristrutturata.
Ma non lo può conoscere in forma diretta, se non episodicamente.
È la stessa dimensione internazionale del processo a costringerla ad una visione internazionale ed è la stessa complessità del fenomeno, che può essere seguito solo tramite la astrazione di strumenti teorici e statistici, ad obbligarla alla consapevolezza scientifica.
Lo sviluppo capitalistico nei PVS aumenta sul mercato mondiale la domanda dei mezzi di produzione. Questa domanda non è coperta finanziariamente dai PVS e ciò provoca due fenomeni:
1°) Un flusso di investimenti diretti, anche in mezzi di produzione, nei PVS da parte dei grandi gruppi internazionali che hanno la base nelle metropoli imperialistiche.
2°) Un flusso di credito ai PVS concesso dai grandi gruppi finanziari internazionali, pubblici e privati.
Questi due fenomeni costituiscono uno sbocco alla esportazione di capitale, provocata nelle metropoli imperialisticamente mature dalla eccedenza di capitale, dallo sviluppo ineguale tra i settori economici e dalla ricerca di un più alto tasso di profitto che contrarresta la tendenza storica alla sua caduta dato l'aumento della composizione organica del capitale.
In altri termini, lo sviluppo dei mezzi di produzione nei PVS costituisce un importante sbocco per l'imperialismo mondiale.
Sorge il problema del finanziamento della Sezione I dei PVS.
Nello schema di riproduzione allargata del capitale in termini materiali, queste regioni non hanno una base produttiva in grado di riprodurre in forma allargata i mezzi di produzione. Una quota consistente di questi deve essere obbligatoriamente importata. La riproduzione allargata del capitale in termini materiali dei PVS avviene ad opera del mercato mondiale in quanto non può essere un risultato del mercato nazionale. Ciò provoca un forte disavanzo nella loro bilancia commerciale dei mezzi di produzione.
Nello schema di riproduzione allargata del capitale in termini di valore, queste regioni non hanno un tasso di accumulazione in grado di riprodurre in forma allargata i mezzi di produzione.
Una quota importante di accumulazione deve essere importata e ciò provoca un forte disavanzo nella loro bilancia dei pagamenti.
Questi disavanzi, in termini materiali e in termini di valore, vengono colmati dalla esportazione di merci e di capitali da parte dei paesi imperialisti, ma l'espansione imperialistica non è il solo fattore che possa spiegare il processo di allargamento della base produttiva mondiale. Infatti l'espansione imperialistica si incontra con un altro fattore, ossia con il forte sviluppo del mercato capitalistico nei PVS e con il conseguente aumento dei consumi privati e dei consumi sociali.
Senza questo secondo fattore l'imperialismo sarebbe entrato in una crisi ancora più forte di quella che ha attraversato negli anni '30.
L'errore di tanti, ed anche di Trotsky, fu quello di aver ricavato la diagnosi della stagnazione del capitalismo giunto alla sua fase imperialistica da un solo fattore e di non aver visto la combinazione di fattori determinata dalla esportazione imperialistica di capitale e dalla velocità di sviluppo del mercato capitalistico nelle nuove aree.
Gli investimenti diretti stranieri e di crediti internazionali ottenuti dai PVS se creano disavanzi nella loro bilancia dei pagamenti vengono, in definitiva, ad essere finanziati in parte dalle vendite nei mercati dei PVS stessi.
Il fenomeno trova riscontro, ad esempio, nella produzione e nel consumo dell'industria automobilistica nei PVS. Esiste, indubbiamente, un rapporto tra l'aumento vertiginoso dei crediti internazionali ai PVS e il ritmo di incremento della loro produzione industriale e dei loro consumi privati industriali.
L'aumento dei crediti internazionali non potrebbe spiegarsi solo con l'eccedenza dei capitali nelle metropoli imperialistiche e nella conseguente necessità di esportazione di capitali. L'eccedenza di capitali in rapporto al prodotto sociale delle metropoli dell'epoca esisteva anche negli anni '30 e non fu fattore sufficiente ad incrementare il flusso finanziario verso i PVS. Anzi, la crisi finanziaria precedette quella industriale e quella agraria.
L'eccedenza dei capitali, del resto, è solo in rapporto ai tassi di profitto e l'esportazione dei capitali avviene solo se si ottiene, in vari modi, un tasso di profitto superiore; di per sè, quindi, la eccedenza di capitali non può spiegare l'incremento della esportazione di capitali nei PVS.
Senza il forte sviluppo del mercato interno dei PVS la massa dei crediti internazionali concessi ai PVS avrebbe già raggiunto un livello tale da provocare una crisi finanziaria di proporzioni enormi, certamente superiori, sia in termini assoluti che in termini relativi, a quella degli anni '30. Il ritmo di sviluppo dei PVS è un fattore importante che differenzia la crisi di ristrutturazione dalla crisi del 1929.
[INCOMPLETO]
("Lotta Comunista" )