Lettera da Parigi [II]. Pittura e fotografia

Walter Benjamin (1936)


«Questo scritto, noto con il titolo di Pariser Brief [II]. Malerei und Photographie, venne redatto fra il novembre e il dicembre 1936. Era destinato alla rivista moscovita in lingua tedesca «Das Wort», che però si rifiutò di pubblicarlo. In esso, Benjamin sviluppa il tema delle relazioni tra fotografia e pittura affrontato da Gisèle Freund nella sua Tesi di dottorato, alla quale – l’anno seguente – egli dedicherà una recensione». [L'opera d'arte nell'epoca della riproducibilità tecnica e altri saggi sui media, a cura di Giulio Schiavoni, RCS Libri, Milano 2013].

Versione di: Leonardo Maria Battisti.


Se, di domenica e nei giorni festivi, si vaga con un clima decente nei quartieri parigini di Montparnasse o di Montmartre, talora si incontrano nelle ampie strade dei paraventi (allineati o accostati a formare piccoli labirinti) sostegni di dipinti in vendita. Raffigurano temi da salotto buono: nature morte e marine, nudi, quadri di genere e interni. Il pittore (spesso dall'equipaggiamento romantico: cappello floscio e giubba di velluto) sta vicino ai suoi quadri su una sedia pieghevole. La sua arte si rivolge alla famiglia borghese a passeggio, la quale è forse più attratta dal pittore o da come si veste che dai dipinti esposti. Ma si sopravaluterebbe il senso affaristico di tali pittori a pensar che si servano della propria persona per attrarre clienti.

Certo non si pensava a simili pittori nelle recenti querelle sullo stato della pittura1. La loro pittura è arte solo nel senso che pure la produzione artistica è sempre più destinata al mercato, inteso nel senso più generale. Ma ai pittori migliori non serve andare al mercato: dispongono di mercanti d'arte e sale di esposizione. I loro colleghi ambulanti (oltre al massimo degrado della pittura) ostentano un'altra cosa. Rivelano quanto sia diffusa una capacità media di maneggiare pennello e tavolozza. Donde nei dibattiti menzionati hanno trovato il loro posto, grazie alle parole di André Lhote:

«Chi oggi si interessi di pittura, prima o poi, inizia a dipingere [...]. Ma il giorno in cui un dilettante inizia a dipingere, la pittura cessa di esercitare su di lui il fascino quasi religioso che possiede agli occhi del profano» (Entretiens, p. 39).

L'idea di un'epoca in cui ci si potesse interessare alla pittura senza neppure pensare di mettersi a dipingere va fatta risalire ai tempi delle corporazioni. E, come capita sovente al liberale (Lhote è un genuino liberale), il suo pensiero trova compimento nel fascista, indi apprendiamo da Alexandre Cingria che la rovina sarebbe iniziata con l'abolizione del sistema corporativo, con la Rivoluzione francese. Dopo tale abolizione, gli artisti si sarebbero atteggiati «come animali feroci», senza più disciplina (Entretiens, p. 96). Circa il loro pubblico, i borghesi,

«liberati nel 1789 da un ordine costruito politicamente sulla gerarchia e spiritualmente sul primato dei valori intellettuali, [persero] sempre più la capacità di capire quella forma di produzione disinteressata, menzognera, amorale e inutile che presiede alle leggi dell'arte» (Entretiens, p. 97).

Come si sa, al congresso di Venezia il fascismo ha parlato chiaro. Tale congresso è stato caratterizzato dall'esser tenuto in Italia, così come il convegno parigino lo è stato alla Maison de la Culture. Questo circa l'aspetto ufficiale dei due simposi. Se poi si studiano i discorsi più attentamente, nel congresso veneziano (da stimare un congresso internazionale) si riscontrano osservazioni ben meditate e ponderate sulla situazione dell'arte; mentre non tutti i partecipanti del convegno parigino sono riusciti a evitare certi cliché. Ma è notevole che due dei più eminenti oratori veneziani abbiano partecipato a quello parigino riuscendo a sentirsi a proprio agio in quell'atmosfera: Lhote e Le Corbusier. Lhote ne ha approfittato per uno sguardo retrospettivo sul convegno veneziano:

«Allora noi sessanta ci incontrammo per [...] vedere un po' più chiaro in tali problemi. Affé non direi che uno solo di noi vi sia riuscito» (La querelle, p. 93).

Resta spiacevole che a Venezia l'Unione Sovietica non fosse rappresentata e la Germania lo fosse da una sola persona (benché del calibro di Thomas Mann). Ma sarebbe erroneo supporre che mancassero tesi più avanzate, sostenute almeno in parte da scandinavi come Johnny Roosval, austriaci come Hans Tietze, e dai citati francesi2. A Parigi ha prevalso senz'altro l'avanguardia, composta pariteticamente da pittori e scrittori. Così è emersa la necessità che la pittura ritrovi una ragionevole capacità di comunicazione con la parola scritta e orale.

La teoria si è staccata dalla pittura, lasciata in balia della critica d'arte. Causa di tale divisione del lavoro è la scomparsa della solidarietà che un tempo legava la pittura agli interessi pubblici. Courbet è stato forse l'ultimo pittore ad avercela. La teoria della sua pittura non risponde solo a problemi pittorici. Con gli impressionisti il gergo degli atelier perde valore teorico, giungendo oggi (continuando a evolversi) allo stadio in cui un osservatore intelligente e informato ha potuto sostenere che la pittura è

«divenuta una faccenda solo esoterica, roba da musei; l'interesse per l'arte figurativa e pei suoi problemi non esiste più. [...] Essa è quasi un residuo fossile. Dedicarvisi è cadere in disgrazia»3.

Responsabile di tali idee è la critica d'arte più che la pittura. La critica d'arte serve il pubblico solo apparentemente; in realtà serve il mercato. Non conosce concetti, ma solo slang che muta ad ogni stagione. Non a caso Waldemar George (per anni il più autorevole critico d'arte parigino) si è presentato a Venezia da fascista. Il suo gergo snobistico può essere valido finché lo sono le forme attuali del mercato d'arte. Si capisce come George sia giunto ad aspettarsi la salvezza della pittura francese da un «duce» che deve arrivare (cfr. Entretiens, p. 71).

L'interesse del dibattito veneziano si lega a quelli sforzatisi descrivere senza compromessi la crisi della pittura, specialmente Lhote. La sua nota per cui «siamo ante il problema del dipinto utile» (Entretiens, p. 47) indica dove serva cercare il punto archimedico del dibattito. Lhote è sia pittore sia teorico. Come pittore discende da Cézanne; come teorico lavora nel contesto della «Nouvelle Revue Française». Non sta nell'estrema ala sinistra, onde non solo lì si avverte la necessità di riflettere sull'«utilità» del dipinto. Il concetto di utilità non può riferirsi solo all'utilità che il dipinto ha per la pittura o per il godimento artistico (anzi: è l'utilità di queste che va stabilita con il dipinto). Del resto, mai il concetto di utile si può intendere in modo abbastanza ampio. Considerare solo l'utilità più immediata che un'opera riveste grazie al suo soggetto precluderebbe ogni via. La storia prova che spesso la pittura ha svolto compiti sociali generali tramite effetti di tipo mediato. Vi allude il teorico dell'arte viennese Tietze, allorché nei termini seguenti definisce l'utilità dell'immagine:

«L'arte fa capir la realtà [...]. I primi artisti che imposero le prime convenzioni della visibilità resero all'umanità un servizio pari a quello di quei geni preistorici che formarono le prime parole» (Entretiens, p. 34).

Lhote segue la stessa linea in senso cronologico. Dice: alla base di ogni nuova tecnica sta una nuova ottica.

«Sappiamo quali deliri accompagnarono l'invenzione della prospettiva (la scoperta decisiva del Rinascimento). Il primo a scoprirne le leggi fu Paolo Uccello, sì preso dall'entusiasmo da svegliar in piena notte sua moglie per darle la straordinaria notizia».

Prosegue Lhote:

«Potrei illustrare le varie tappe dell'evoluzione della percezione visiva dai primitivi a oggi col semplice esempio del piatto. Un primitivo, come un bambino, lo avrebbe disegnato come un cerchio; l'uomo rinascimentale come un ovale; infine l'uomo moderno (cui campione è Cézanne) [...] come una figura guari complicata, immaginabile come un ovale dalla parte inferiore appiattita e uno dei lati rigonfio» (Entretiens, p. 38).

Si potrebbe obiettare: tali conquiste pittoriche non sono utili per la percezione ma solo per la sua riproduzione più o meno suggestiva; ma ciò porrebbe comunque l'utilità in un campo extrartistico. Infatti la riproduzione agisce sul livello di produzione e cultura della società tramite copiosi canali (dal disegno industriale all'immagine pubblicitaria; dall'illustrazione popolare a quella scientifica).

Il nostro concetto elementare dell'utilità dell'immagine è stato guari esteso dalla fotografia. Tale forma estesa è quella attuale. Il dibattito odierno ha l'acme nei punti in cui include nell'analisi la fotografia e ne spiega i nessi con la pittura.

Ciò è mancato a Venezia, ma a Parigi Aragon ha rimediato all'omissione (per farlo servì coraggio, come raccontò poi). Per alcuni dei pittori presenti era offensivo basare idee di storia della pittura sulla storia della fotografia. Aragon conclude:

«Si immagini un fisico che si senta offeso se gli si parli di chimica»4.

Gli studi sulla storia della fotografia iniziarono otto o dieci anni fa. Sono lavori perlopiù illustrati sui suoi inizi e sui maestri5.

Spetta però a una delle più recenti pubblicazioni il merito di trattare il soggetto in relazione alla storia della pittura. Il fatto che tale tentativo sia avvenuto nello spirito del materialismo dialettico fornisce una nuova conferma degli aspetti estremamente originali che tale metodo permette di esperire. Lo studio di Gisèle Freund (La Photographie en France au dix-neuvième siècle6) correla l'ascesa della fotografia all'ascesa della borghesia appalesando tale dipendenza tracciando la storia del ritratto. Partendo dalla tecnica ritrattistica più diffusa sotto l'ancien régime (la costosa miniatura in avorio) l'autrice indica i diversi procedimenti che verso il 1780 (vale a dir 60 anni prima dell'invenzione della fotografia) permisero una produzione più rapida e meno cara, aumentandone la domanda. La sua descrizione del fisiognotraccia come anello di congiunzione fra la miniatura e la riproduzione fotografica illustra magistralmente come le condizioni tecniche possano esser rese evidenti sul piano sociale. Poi l'autrice espone come nella fotografia lo sviluppo tecnico raggiunga uno stadio di adeguatezza sociale, rendendo il ritratto accessibile a vasti strati borghesi. Illustra poi come i miniaturisti divennero le prime vittime della fotografia fra le file dei pittori. Infine riferisce sul conflitto teorico fra pittura e fotografia intorno alla metà del secolo.

In campo teorico, tale disputa fra pittura e fotografia si concentrava sul quesito se la fotografia fosse un'arte. L'autrice pone l'accento sulla particolare costellazione che emerge in risposta a tale quesito. Constata quanto sia stato alto il livello artistico di tanti dei primi fotografi che facevano un lavoro senza pretese artistiche, da esibire solo a una stretta cerchia di amici.

«La pretesa che la fotografia sia un'arte fu avanzata proprio da coloro che con essa volevano fare affari» (p. 49).

In altri termini: la pretesa della fotografia di essere un'arte è coeva al suo comparire come merce.

Tale stato di cose ha la sua ironia dialettica: il procedimento destinato più tardi a mettere in dubbio il concetto stesso di opera d'arte (poiché con la sua riproduzione ne accelerava il carattere di merce) si definisce artistico7. Tale sviluppo successivo inizia con Disdéri, il quale sapeva che la fotografia è una merce: qualità di tutti gli altri prodotti della nostra società. (Pure il dipinto è una merce). Disdéri poi individuò i servizi che la fotografia può render all'economia delle merci. Fu il primo a usar il procedimento fotografico per immettere nel processo di circolazione beni che, in varia misura, gli era stati sottratti. Anzitutto, le opere d'arte. Disdéri ebbe l'idea intelligente di farsi dare un monopolio statale per la riproduzione delle opere d'arte tenute al Louvre. Da allora la fotografia ha aperto al mercato sempre più settori del campo della percezione ottica. Ha immesso nella circolazione delle merci oggetti prima pressoché esclusi.

Tal evoluzione esula già dai limiti dello studio di Gisèle Freund, ristretto all'epoca in cui la fotografia inizia la sua marcia trionfale. È l'epoca del juste milieu. L'autrice ne definisce il punto di vista estetico e, nella sua esposizione, ha valore più che aneddotico che l'ideale pittorico di uno dei coevi maestri in voga fosse l'esatta raffigurazione delle squame di pesce. Tale scuola vide realizzati dalla fotografia i suoi ideali. Un pittore coevo, Galimard, lo rivela ingenuamente in una relazione sui dipinti di Meissonier, scrivendo:

«Il pubblico non dissentirà se esprimiamo la nostra ammirazione [...] per il sensibile artista che [...] quest'anno ci ha offerto un dipinto che può competere con l'esattezza dagherrotipi»8.

La pittura del juste milieu aspettava solo di farsi trainare dalla fotografia. Così non stupisce che la pittura non aiutò l'attività fotografica a svilupparsi (almeno non in modo valido). Dove la fotografia ne è influenzata, ci sono fotografi che cercano di imitare i pittori di soggetti storici (nello stesso periodo affrescavano Versailles per ordine di Luigi Filippo), con l'aiuto di comparse e attrezzi nei loro studi (fotografie dello scultore Callimaco che inventa il capitello corinzio osservando una pianta di acanto; o della scena montata di Leonardo che dipinge la Gioconda).

La pittura del juste milieu trova un'antitesi in Courbet. Con Courbet, per un certo tempo, si inverte il rapporto fra pittore e fotografo. Il suo famoso dipinto intitolato L'onda equivale alla pittura che scopre un soggetto fotografico. L'epoca di Courbet non conosce il primo piano né l'istantanea. La sua pittura ne indicò la via, allestendo un viaggio di scoperta in un mondo di forme e strutture che solo molti lustri dopo si potrà traslare in fotografia.

Courbet ha un ruolo particolare: fu l'ultimo a tentare di far meglio della fotografia. I pittori successivi cercarono di sfuggirle, ad iniziar dagli impressionisti. Il dipinto sfugge al giogo del disegno, negandosi così alla concorrenza della macchina fotografica. Lo provano i tentativi della fotografia fin de siecle di imitare a sua volta gli impressionisti. La stampa ricorre alla gomma bicromata (procedimento che è noto degradare la fotografia). Aragon ha colto bene il nesso:

«I pittori [...] videro nell'apparecchio fotografico un concorrente. [...] Cercarono di differenziarsene. Questo il grande piano. Rifiutare un'importante conquista dell'umanità [...]infine [...] doveva avere una conseguenza reazionaria. Col tempo i pittori (specie i più dotati) [...] sono divenuti invero ignoranti»9.

Aragon ha affrontato le questioni sollevate dalla storia più recente della pittura in uno scritto nel 1930: Sfida alla pittura10. Sfidante è la fotografia. Lo scritto considera la svolta che ha indotto la pittura ad affrontare la fotografia, mentre in passato cercava di evitare lo scontro. Aragon mostra il come ricordando i lavori dei suoi amici surrealisti coevi. Si usavano varie tecniche.

«Si incollava una fotografia in un dipinto o su un disegno; o si disegnava o dipingeva direttamente su una fotografia» (p. 22).

Aragon cita pure altre tecniche. Es. Il lavoro con illustrazioni ritagliate per dargli forma diversa da quella degli oggetti raffigurati (ritagliar una locomotiva da un foglio con stampata una rosa). In tale procedimento (connesso al dadaismo) Aragon vedeva garantita l'energia rivoluzionaria della nuova arte. La confrontava con l'arte tradizionale.

«La pittura è da tempo in comoda posizione: adula il colto conoscitore pagante. È un bene di lusso [...]. Da tali ultimi esperimenti si evince che i pittori possono emanciparsi dall'addomesticamento prodotto dal denaro. Infatti il collage è una tecnica povera di mezzi. E il suo valore sarà disconosciuto ancora per molto tempo» (Aragon, p. 19).

Era il 1930. Oggi Aragon non lo scriverebbe più. Il tentativo dei surrealisti di superare «artisticamente» la fotografia è fallito, facendo lo stesso errore dei fotografi industriali il cui credo piccolo borghese dà il titolo al noto libro di foto di Renger-Patzsch: Il mondo è bello [Die Welt ist schön]. Non hanno riconosciuto la forza di penetrazione a livello sociale della fotografia, e annessa importanza della didascalia: la miccia che porta una scintilla critica al miscuglio di immagini (come prova più di tutti Heartfield). Di recente Aragon si è occupato di Heartfield11, approfittandone per indicar la presenza dell'elemento critico nella fotografia. Oggi lo vede pure nell'opera apparentemente formale di un virtuoso della macchina fotografica come Man Ray. Con Man Ray (ha spiegato Aragon al simposio parigino) la fotografia riesce a riprodurre il modo di dipingere dei pittori più moderni.

«Chi non conoscesse i pittori a cui allude Man Ray non potrebbe apprezzare appieno la sua opera» (La querelle, p. 60).

Possiamo finire questa storia avvincente dell'incontro fra la pittura e la fotografia con la gentile formula offerta da Lhote? Per Lhote è indubbio

«che la famigerata sostituzione della pittura con la fotografia può attuarsi nel disbrigo dei cosiddetti “affari ordinari” [...]. Ma alla pittura resta il dominio misterioso dei puri valori umani, eternamente irrealizzabili» (La querelle, p. 102).

Purtroppo tale interpretazione è una trappola che consegna il pensatore liberale inerme al fascismo. Ben più lungimirante il rozzo pittore di idee Antoine Wiertz, che quasi un secolo fa, al tempo della prima esposizione mondiale di fotografia, scrisse:

«Pochi anni fa è nata la gloria della nostra epoca, una macchina che ogni giorno stupisce il nostro pensiero e spaventa i nostri occhi. Tale macchina fra meno di un secolo sarà il pennello, la tavolozza, i colori, l'abilità, l'esperienza, la pazienza, l'agilità, il tocco, l'impasto, la velatura, il modello, la compiutezza, l'estratto della pittura [...]. Non si pensi che il dagherrotipo uccida l'arte [...]. Allorché il dagherrotipo, gigante bambino, sarà cresciuto; allorché tutta la sua arte e la sua forza si attueranno, allora il genio l'afferrerà per la nuca e griderà: “Vieni qui! Ora mi appartieni! Lavoreremo insieme”»12.

Chi ha presenti i grandi dipinti di Wiertz sa che il genio di cui parla è un genio politico. Per lui, pittura e fotografia dovevano un giorno fondersi nel lampo di una grande ispirazione sociale. Tale profezia contiene una verità, ma la fusione si è realizzata nei maestri, non nelle opere. Maestri della generazione di Heartfield che, grazie alla politica, da pittori sono divenuti fotografi.

La stessa generazione ha prodotto pittori come George Grosz o Otto Dix, che hanno lavorato per lo stesso obiettivo. La pittura non ha perso la sua funzione. Ma non va concepita à la Christian Gaillard:

«Per far delle lotte sociali il soggetto delle mie opere, dovrei esserne impressionato visivamente» (La querelle, p. 190).

Per chi vive oggi nei paesi degli Stati fascisti, in cui dominano «pace e ordine», è una formulazione discutibile. È forse il caso di sperimentare su di sé il processo inverso? È forse l'ispirazione sociale a dover mutare in ispirazione visiva? Ciò è accaduto ai grandi caricaturisti, il cui sapere politico si è impresso nella loro percezione fisiognomica tanto profondamente quanto l'esperienza tattile si sia calata nella loro percezione dello spazio. La strada è indicata maestri come Bosch, Hogarth, Goya, Daumier. René Crevel (di recente defunto) scrive:

«Fra le opere pittoriche più importanti vanno annoverate quelle esibenti un processo di decomposizione incriminandone i responsabili. Da Grünewald a Dalí, dal Cristo putrefatto all'asino putrefatto13 [...] la pittura ha sempre saputo trovare nuove verità, che non erano solo verità di ordine pittorico» (La querelle, p. 154).

È insito nella natura della situazione dell'Europa occidentale che la pittura (proprio dove procede in libertà) abbia un effetto distruttivo e purificatore. Forse ciò non appare con evidenza in un Paese che gode ancora14 di libertà democratiche come dove è al timone il fascismo. Lì ci sono pittori cui è proibito dipingere. (E il divieto quasi mai colpisce il tema, bensì la perlopiù il modo di dipingere degli artisti. Tanto profondamente il fascismo è colpito dal loro modo di vedere). La polizia effettua controlli che non abbiano dipinto nulla dall'ultima retata. Lavorano di notte, con le finestre chiuse. La tentazione di dipingere «dal vivo» nel loro caso è scarsa. E le scialbe contrade dei loro quadri, popolate di spettri o mostri, non sono carpite alla natura ma allo Stato classista. Di costoro non si è parlato a Venezia né purtroppo a Parigi. Loro sanno cosa oggi in un quadro sia l'utile: un segno (evidente o segreto) che il fascismo ha incontrato nell'uomo barriere invalicabili tanto quanto quelle sul globo terrestre.


Note di Benjamin

1. Entretiens: L'art et la réalité. L'art et l'état (con contributi di Mario Alvera, Daniel Baud-Bovy, Emilio Bodrero e altri, Institut international de Coopération intellectuelle), Paris 1935. La querelle du réalisme. Deux débats par l'Association des peintures et sculptures de la Maison de la culture (con contributi di Lurçat, Gromaire e altri), Éditions socialistes internationales, Paris 1936.

2. D'altro lato a Venezia si sono incontrati residui letteralmente museali di epoche mentali dimenticate da tempo. Es. Si legga la definizione di Salvador de Madariaga:

«La vera arte è il prodotto di una combinazione del pensiero con lo spazio possibile in rapporti variabili; e la falsa arte è il prodotto di una combinazione in cui il pensiero pregiudica l'opera d'arte» (Entretiens, p. 160).

3. Hermann Broch, James Joyce e il presente. Discorso per il cinquantesimo compleanno di Joyce, Wien-Leipzig-Zürich 1936, p. 24.

4. Louis Aragon: Le réalisme à l’ordre du jour, in «Commune», settembre 1936, IV, serie 37, p. 23.

5. Cfr. ad esempio Helmut Theodor Bossert e Heinrich Guttmann: Dai primordi della fotografia: 1840-1870, Frankfurt am Main 1930; Camille Recht: La vecchia fotografia, Paris 1931; Heinrich Schwarz: David Octavius Hill, il maestro della fotografia, Leipzig 1931; e inoltre due importanti fonti: Disdéri, Manuel opératoire de photographie, Paris 1853; Nadar, Quand’ero fotografo, Paris 1900.

6. Gisèle Freund: La photographie en France au dix-neuvième siècle, Paris 1936. L'autrice, un'emigrante tedesca, si è addottorata alla Sorbona con questo lavoro. Chi ha assistito alla discussione pubblica che ha concluso l'esame è rimasto assai impressionato dall'apertura mentale e dalla liberalità degli esaminatori. Contro il pregevole libro si può sollevare en passant un'obiezione metodologica. Scrive l'autrice:

«Quanto maggiore è il genio dell'artista, tanto meglio la sua opera riflette (proprio grazie all'originalità della sua forma) le tendenze della società ad essa contemporanea» (p. 4).

Ad apparir dubbio in tale frase non è il tentativo di definire la portata di un'opera dalla struttura sociale dell'epoca in cui è sorto; bensì l'idea che tale struttura si presenti sempre sotto lo stesso aspetto. Affé le sue sembianze mutano con le diverse epoche che volgono il loro sguardo all'opera. Perciò: definir il significato di un'opera d'arte dalla struttura sociale dell'epoca in cui è nata equivale piuttosto a definire la capacità dell'opera di consentire alle epoche più lontane ed estranee ad essa un accesso alla struttura sociale dell'epoca in cui è nata (cioè: equivale alla storia dei suoi effetti). Tale capacità è mostrata da Dante per il secolo XIII, dall'opera di Shakespeare per l'epoca elisabettiana. Chiarire tale problema metodologico è tanto più importante, in quanto la formula della Freund rischia di riportar a una tesi asserita nel modo più drastico e più problematico da Plechanov (contro Lanson):

«Quanto più uno scrittore è grande, tanto con più forza ed evidenza il carattere della sua opera dipende dal carattere della sua epoca, o, in altre parole: tanto meno c'è nelle sue opere ciò che si potrebbe definir l'elemento “personale”». (Georges [Georgij] Plechanov, Les jugements de Lanson sur Balzac et Corneille, in «Commune», dicembre 1934, II, serie 16, p. 306).

7. Una costellazione altrettanto ironica nello stesso campo è la seguente. La macchina fotografica, come apparecchio altamente standardizzato, non è più atta di un laminatoio a esprimere particolari caratteri nazionali nella forma del suo prodotto. Rende la produzione di immagini indipendente dalle convenzioni e dagli stili nazionali in misure prima ignote. Ciò ha inquietato i teorici che hanno giurato fedeltà a tali convenzioni e stili. La reazione non si è fatta attendere. Già nel 1859 si diceva nel commento a un'esposizione fotografica:

«Il particolare carattere nazionale emerge [...]con tutta evidenza nelle opere dei diversi Paesi [...]. Un fotografo francese [...] non potrà mai essere confuso con un collega inglese» (Louis Figuier: La photographie au salon de 1859, Paris 1860, p. 5).

Settant'anni dopo, al congresso di Venezia, Margherita Sarfatti dice del pari la stessa cosa:

«Un buon ritratto fotografico ci rivelerà a prima vista la nazionalità del fotografo, non della persona fotografata» (Entretiens, p. 87)

8. Auguste Galimard: Examen du salon de 1849, Paris s.d., p. 95.

9. La querelle, p. 64. Cfr. la maligna tesi di Derain:

«Il maggiore pericolo per l'arte è l'eccesso di cultura. Il vero artista è un uomo senza cultura» (Ibid., p. 163).

10. Louis Arahon: La peinture au défi, Paris 1930.

11. Id.: John Heartfield et la beauté révolutionnaire, in «Commune», maggio 1935, II, p.21.

12. A. I. Wiertz: Œuvres littéraires, Paris 1870, p 309. [La traduzione dal francese nel testo di Benjamin altera in parte il testo originale di Wiertz.]

13. In un quadro di Dalí.

14. Ancora: in occasione della grande mostra di Cézanne il giornale parigino «Choc» si è proposto il compito di farla finita con il «bluff» Cézanne. La mostra sarebbe stata organizzata dal governo di sinistra francese «per trascinare nel fango il senso artistico del proprio popolo, anzi di tutti». Così la critica. Del resto ci sono pittori che per ogni evenienza si sono cautelati. Sanno come Raoul Dufy, che scrive che, se fosse tedesco e dovesse celebrare il trionfo di Hitler, «lo farebbe alla maniera di certi pittori medievali dipingevano che hanno dipinto immagini religiose senza essere credenti» (cfr. La querelle, p. 187).



Ultima modifica 2019.12.01