Titolo originale: Action and the «Pursuit of Happiness», in Politische Ordnung und Menschliche Existenz, Fesgare für Eric Voegelin zum 60. Geburtstag, hrsg. von H. Arendt, A. Dempf, F. Engel-Janosi, München, Beck, 1962, pp. 1-16.
Tradotto da: Gaetano Rametta
Fra le molte sorprese che questo paese tiene in serbο per i suoi nuovi cittadini, specialmente se di retroterra e οrigine eurοpei, c'è la sorprendente scoperta che la ricerca della felicità, che la dichiarazione d'indipendenza ha affermato come unο degli inalienabili diritti umani, è rimasta fino ad oggi, nella vita pubblica e privata della repubblica americana, molto più di uno slogan insignificante, nella misura in cui esiste qualcosa come una mentalità americana, essa è stata di certo profondamente influenzata, nel bene e nel male, da questo che è il più elusivo fra i diritti umani, e che apparentemente attribuisce agli uomini, con le parole di Howard Mumford Jones, «lo sgradevole privilegio d'inseguire un fantasma e di abbracciare una delusione». Le brevi osservazioni che seguono non si propongono di esplorare questo argomento in tutta la sua importanza storica e politica. Il mio proposito è molto più modesto, e consiste nel sollevare la questione di una possibile relazione fra l'azione e la felicità, in uno sforzo volto a scoprire il retroterra d'esperienza autentico e non ideologico dietro a questa sconcertante ricerca.
Che il fenomeno dell'azione, in quanto è una delle elementari attività umane, possa contenere indicazioni a tale proposito, mi è stato suggerito da un episodio che, benché non possieda in sé stesso un grande importanza, ha risvegliato alcuni corsi di pensiero che per qualche tempo erano rimasti assopiti sullo sfondo della mia mente. L'episodio mi ha convinto della vecchia verità che nulla è trascurato più facilmente di ciò che si trova davanti ai nasi di tutti. La mia giustificazione per raccontarvi queste cose è che ho creduto che, per quanto astratte possano sembrare le nostre teorie, o per quanto coerenti possano apparire i nostri argomenti, dietro ad essi si trovano storie ed episodi che, almeno per noi stessi, contengono come «in nuce» il pieno significato di ciò che dobbiamo dire. Il pensiero stesso, nella misura in cui è più di un'operazione logico-tecnica per svolgere la quale macchine elettroniche potrebbero essere anche meglio equipaggiate del cervello umano, sorge dalla realtà di episodi che appartengono all'esperienza vivente, e che per il pensiero devono rimanere i suoi poli d'orientamento, se non vuol perdersi nelle sommità cui si eleva o nelle profondità verso cui deve discendere. In altri termini, la curva descritta dall'attività del pensiero deve restare legata a tali episodi, così come il circolo resta legato al suo centro; e l'unico guadagno che ci si può legittimamente aspettare da questa attività umana — la più misteriosa — non sono né definizioni né teorie, ma piuttosto la lenta, arrancante scoperta e, forse, la ricognizione topografica della regione che quell'episodio aveva, per un istante fuggevole, completamente illuminato.
Non è né consueto né saggio parlare ad un pubblico, e tanto meno ad un pubblico colto, degli episodi e delle storie attorno ai quali il processo del pensiero descrive i suoi circoli. È molto più sicuro accompagnare l'ascoltatore e il lettore lungo il corso del pensiero stesso, affidandosi alla persuasività inerente alla successione delle cose messe in rapporto, anche se questa successione nasconde così come preserva la fonte originaria, dalla quale il pensiero è sorto e scaturito. Perché gli episodi non sono persuasivi in sé stessi, sono istanze per definizione isolate e perciò aperti ad un'infinita interpretazione. Per di più, essi sono spesso ordinari e comuni, e per quanto ciò che è ordinario e comune debba restare la nostra principale preoccupazione, l'alimento quotidiano del nostro pensiero — se non altro perché è da esso che emerge lo straordinario e l'insolito, e non da questioni che sono sofisticate e difficili — è più saggio richiamare l'attenzione su tali questioni, alienando artificialmente le nostre menti da quello, allo scopo di riprodurre la meraviglia e la sorpresa con cui ciò che è comune, che noi tendiamo costantemente e inevitabilmente a trascurare per la sua familiarità, deve colpirci per far valere la sua effettiva significanza.
L'alienazione, come mezzo per far convergere l'attenzione, è abbastanza comune nella letteratura e nell'arte, specialmente nella poesia e nella pittura moderne, dove ha ricevuto più considerazione del dovuto. Io credo che essa sia non meno presente nella filosofia moderna, e ciò nella misura in cui la filosofia si occupa ancora di quelle plausibilità elementari che sono argomenti comuni a tutti, tranne che al filosofo. La filosofia moderna ha scoperto che l'interpretazione dei testi, l'arte dell'ermeneutica, può essere un mezzo di alienazione molto efficace, e le frequenti proteste contro la distorsione del significato e la violenza fatta agli autori hanno una strana somiglianza con le note proteste contro la distorsione della realtà nella pittura e nella scrittura moderne. La giustificazione corrente per questa maniera indiretta di parlare e di scrivere sarebbe data dalla «necessità di risalire alle fonti stesse», ed io non metto in dubbio la sua legittimità. Tuttavia, esistono altre ragioni ammesse meno candidamente, ed io sospetto che siano di eguale rilevanza. Anzitutto, c'è la tendenza a presentare il punto di vista più recente come riscoperta della «verità più antica», e in secondo luogo c'è una tecnica del tutto recente, e tuttavia relativamente diffusa, di citare singole frasi e talvolta semplici parole a prescindere dal contesto, senza alcun intento fraudolento, ma semplicemente con propositi di isolamento e, per così dire, di purificazione, in modo da prevenire qualsiasi trasmissione di banalità, la contaminazione con quell'atmosfera di verbosità vuota e banale che ha infettato il nostro linguaggio e corrotto le parole-chiave del pensiero speculativo — come verità, libertà, fede, ragione, giustizia, e simili. Metaforicamente parlando, è come se invece dì versare il vino nuovo in bottiglie vecchie, il vino vecchio fosse impiegato per provocare la fermentazione che, naturalmente, sì può raggiungere solo se prima se n'è distillato lo spirito. Questo rifuggire dal discorso diretto e questo impiego peculiare dei testi del passato hanno certamente molte cause; fra queste c'è l'intuizione che in tali argomenti «nulla che sia del tutto nuovo può essere vero» (Karl Jaspers), più la convinzione che, allo stesso modo, non può essere vero ciò che sostiene solo un uomo. Ma questo bisogno di appoggio e di compagnia non la dice tutta; esso non spiega la distillazione e la distorsione che ne derivano, quest'apparente arbitrarietà nel trattare i vecchi testi, o questa improvvisa passione di leggere in essi significati sempre più profondi e più recenti. La distillazione, allora, come quintessenza della nuova arte dell'ermeneutica, svolge nella moderna scrittura teoretica lo stesso ruolo dell'alienazione nell'arte e nella poesia moderne.
Questi metodi di linguaggio indiretti tramite interpretazione, benché quasi sconosciuti prima del nostro secolo, sono ormai diventati la forma che ci si aspetta, anche se non è affatto generalmente accettata, da ricerche di un certo tipo, e io stessa farò presto ricorso a ciò che è forse l'unico modo per procurare almeno un minimo di plausibilità ad asserzioni che non possono venir dimostrate con argomenti conclusivi, né sperano d'essere accettate come verità auto-evidenti. Cominciare raccontando l'aneddoto di un episodio reale va contro tutte le regole del gioco; ma queste regole non sono assolute, sono regole di cautela piuttosto che leggi del pensiero, e quindi possono essere infrante.
L'episodio che ha suscitato le seguenti considerazioni, allora, è questo: ero impegnata a conversare con uno di quei vecchi radicali comunisti, trotzkysti, e simili, — che, credo, noi tutti contiamo fra i nostri conoscenti e amici, ed ero curiosa di sapere come questa particolare persona considerava il suo passato, com'era pervenuto ad accettare le sue convinzioni precedenti. Sullo sfondo avevo in mente le alternative convenzionali su cui probabilmente sarebbe caduta la risposta — il marxismo, in quanto ideologia, forniva una struttura adeguata di pensiero e di argomentazione, per la spiegazione del passato e la profezia del futuro; oppure il disgusto per la religione istituzionale e la ricerca di un nuovo dio, il cui eventuale fallimento spesso indirizza i suoi seguaci precedenti alla ricerca di dèi ancor più nuovi, per la verità non meno strani, benché finora meno pericolosi di quello abbandonato; oppure, la possibilità presumibilmente migliore, il vecchio e appassionato disprezzo per i modelli dominanti della società «borghese», più la compassione, non meno appassionata, ma meno prontamente ammessa, verso quelli che la società continuava a trattare ingiustamente. (Quest'ultima, per inciso, la passione della compassione, è stata fra le motivazioni psicologiche più forti nel corso della storia della rivoluzione, da Robespierre sino a Lenin e Trotzky. Quelli che con maggiore probabilità venivano coinvolti nei vari movimenti rivoluzionari che hanno spazzato il mondo occidentale fra le due guerre erano gente in cui la passione per la giustizia aveva maggior peso e prevaleva non solo sul compiacimento e l'opportunismo, ma anche sulle passioni per la libertà e la verità. Ed in questo, essi non erano assolutamente eccezionali rispetto alle norme della società, per come noi siamo venuti a conoscerla: una delle principali caratteristiche della società moderna è data precisamente dal fatto che considerazioni di giustizia tendono ad avere importanza superiore rispetto a tutte le altre).
In tutti questi casi, la rivoluzione sarebbe stata accettata come l'unico mezzo per condurre a una società migliore e più felice — con o senza un'ideologia a guidarla, con o senza credere nella necessità storica e nell'onda del futuro. E se qui tralasciamo la questione, altrimenti molto importante. dell'impiego della violenza per conseguire una felicità universale, bisogna ammettere che il rivoluzionario avrebbe avuto di nuovo pochi motivi per congratularsi con sé stesso sul fatto di essere libero dai comuni pregiudizi su cui poggiava la società stabilita. Giacché non è assiomatico per noi che il fine ultimo del governo e la prima legge di ogni azione politica è di promuovere la felicità della sοcietà?
Con mia sorpresa, la risposta del mio conoscente fu diversa da tutte queste aspettative. Invece di una risposta diretta, mi fu raccontata una storia, la storia di un giocatore incallito cui capitò di arrivare tardi in una strana città, e che naturalmente si diresse subito alla casa da gioco. Lì lo aννicinò uno del posto e lo avvisò che la ruota era truccata, dopo di che replicò lo straniero: «Ma in città non ce n'è nessun'altra». La morale della storia era chiara: in quei giorni, voleva dire il mio conoscente, se si voleva fare qualcosa, non si aveva nessun'altro posto dove andare; non ci si andava per il bene della società in generale, ma per il proprio interesse; anche se ci si andava per motivi diversi, e presumibilmente più onorevoli — come sappiamo, ad esempio, dalla Resistenza francese — poteva capitare che una volta coinvolti si sarebbe scoperto che quell' «épaisseur triste fra il mondo della realtà e sé stessi» non esisteva più, che cercando di salvare il proprio paese, uno aveva innanzitutto salvato sé stesso. In effetti molti, se avessero il coraggio non delle loro convinzioni, che è relativamente facile, ma delle loro esperienze, dovrebbero sapere di che cosa parlava il poeta e scrittore francese René Char quando, durante gli anni di guerra e dell'azione disperata, scrisse: «Se sopravvivo, so che dovrò rompere con l'aroma di questi anni essenziali, rigettare silenziosamente (non reprimere) il mio tesoro, tornare ai primi inizi, alla mia condotta indigente all'estremo, quand'ero alla ricerca di me stesso, senza padronanza, in nuda insoddisfazione, con una conoscenza appena percettibile e in atteggiamento di ricercante umiltà».
Ma il mio conoscente era americano, non francese, e la sua esperienza si riferiva ai primi anni trenta, quando lui, a differenza del giocatore della storia, avrebbe avuto altri posti dove andare. Ancor più dubbio se nella sua giovinezza, mentre ancora era impegnato in queste attività, egli sapesse veramente che la ruota era truccata; dubbio, anche, se allora egli avrebbe osato confessare le sue motivazioni, o addirittura se in qualsiasi modo queste fossero state davvero le sue. Ciò che qui ci deve interessare non è la sincerità di una persona, ma la verità di una storia, e la storia ci dice che nell'agire esiste una felicità così intensa che l'attore, come il giocatore, accetterà che tutte le probabilità siano contro di lui. Ammetto che questo è difficile da credere; ciò che mi ha convinto di avere ascoltato una verità è che la storia mi ha ricordato immediatamente uno strano passaggio nelle ultime lettere scambiate fra Jefferson e John Adams, quando, alla fine della loro lunga vita ed in un'attitudine riflessiva, hanno sentito il bisogno di spiegarsi l'uno con l'altro. Uno degli argomenti che discutevano di frequente era la morte, che ambedue attendevano «più con disponibilità che con riluttanza», con completa equanimità, in uno spirito egualmente remoto dall'angoscia e dal taedium vitae. E quando, in questa atmosfera di tranquillità e di calma, venne posta la questione della vita in un aldilà, Jefferson — che forse non aveva mai condiviso la convinzione di John Adams che la credenza in una condizione futura con ricompense e punizioni fosse indispensabile per le comunità civilizzate — concluse una delle sue lettere come segue: «Potessimo incontrarci nuovamente là a Congresso, con i nostri antichi colleghi, e ricevere con loro il suggello dell'approvazione: “Ben fatto, buoni e fedeli servitori”» (corsivi miei).
Certamente Jefferson parla scherzando, o piuttosto con la sovrana ironia che la vecchiaia conferisce a quelli che sono in pace con sé stessi, il cui innato orgoglio è rimasto intatto sotto i trionfi e i disastri della vita. Tuttavia, al di là dell'ironia, c'è la candida ammissione che la vita al Congresso — le gioie del discorso, della legislazione, del disbrigo degli affari, del persuadere ed essere persuaso — erano così conclusivamente la pregustazione di una eterna beatitudine come le delizie della contemplazione per la devozione medievale. Se togliamo a queste immagini della vita in un aldilà la loro connotazione religiosa — ciò che naturalmente è più legittimo nel caso di Jefferson che di Tommaso d'Aquino — esse non presentano nulla in più o in meno dei vari ideali di una umana felicità. Ma il punto della questione è che la perfecta beatitudo di Tommaso consisteva interamente in una visione, la visione di Dio, per la quale non era richiesta la presenza di nessun amico (amici non requiruntur ad perfectam beatitudinem), mentre Jefferson poteva immaginare un possibile perfezionamento dei momenti della sua vita migliori e più felici solo ampliando la cerchia dei suoi «colleghi», cosicché egli avrebbe potuto sedere «a Congresso» con gli antichi. È in grandissima parte col medesimo spirito e col medesimo stato d'animo che Socrate, in un famoso passo sulle possibilità della vita dopo la morte, confessò in maniera franca e sorridente che tutto quello che poteva chiedere era, per così dire, l'accrescimento delle stesse cose: nessun'isola dei beati e nessuna vita da anima immortale, che sarebbe stata completamente diversa dalla vita dell'uomo mortale, ma l'incontro nell'Ade con i suoi illustri «antichi colleghi» — Orfeo e Museo, Esiodo e Omero — che egli non aveva potuto incontrare sulla terra, e che avrebbe desiderato impegnare in quegli interminabili dialoghi di pensiero dei quali era divenuto il maestro. Senza dubbio, anche lui avrebbe amato «ricevere con loro il suggello dell'approvazione».
Ma torniamo a Jefferson. Ciò che rende la sua asserzione così notevole e degna di nota, è la sua lampante e in qualche modo innocente discrepanza con l'intero corpo della teoria politica antica e moderna, che Jefferson non ha mai pensato di sfidare esplicitamente. Nella frase che ho citato, perfino il «suggello dell'approvazione» non è la consueta ricompensa per la virtù in una condizione futura; esso è connesso, piuttosto, con un altro passaggio in cui egli ammette candidamente che c'era stato un tempo «in cui forse la considerazione del mondo era ai miei occhi di valore più alto che qualsiasi altra cosa al suo interno». Ma anche Jefferson credeva che «la cura per la vita e la felicità umane... è l'...unico intento legittimo del buon governo», che ogni «felicità» in chi governava era sospetta, che questa poteva consistere solo in una «smodata passione per il potere», e che la ragione principale per cui i governati dovevano prendere parte al governo era questa deplorevole, «ingiustificabile» tendenza della natura umana (John Dickinson).
Egli sarebbe stato d'accordo con Madison che il governo non è altro che un riflesso della natura umana, che gli uomini, se fossero angeli, non avrebbero bisogno di governo, e che se il governo fosse esercitato da angeli, non avrebbe bisogno del Congresso né di nessun'altra istituzione di controllo per limitare i suoi poteri. Quando parlava della sua carriera pubblica, egli accennava raramente a quanto ne avesse tratto piacere lui stesso; piuttosto, preferiva sottolineare il debito di servizio che aveva contratto verso i suoi cittadini, «che da parte di ogni individuo è doveroso prestare un turno di servizio, in qualsiasi campo possa mostrarsi utile al suo paese». Quando parlava della felicità, inoltre, usava affermare che il suo posto si trova «nel grembo e nell'amore della famiglia, nella compagnia dei miei vicini e dei miei libri, nelle salutari occupazioni delle mie fattorie e dei miei affari» — in breve, in un luogo quanto più possibile remoto dal Congresso, e in una vita su cui la sfera pubblica non poteva rivendicare alcun diritto.
Io non nego che queste esortazioni e riflessioni siano tutt'altra cosa dalle più banalità correnti nella politica del diciannovesimo secolo e addirittura ancora oggi nel repertorio dell'oratoria politica al suo più basso livello. Ma penso che non rivestano molta importanza negli scritti e nel pensiero dei padri fondatori — poca importanza nelle opere di Jefferson, e ancor meno in quelle di John Adams. Uno dei passi di maggiore effetto, da questo versante, ricorre in una delle lettere che John Adams scrisse da Parigi alla moglie, e suona così; «Io devo studiare politica e guerra perché i miei figli possano avere la libertà di studiare matematica e filosofia, geografia, storia naturale e architettura navale, navigazione, commercio, e agricoltura, per dare ai loro figli il diritto di studiare pittura, poesia, musica, architettura, scultura, tappezzeria e porcellana». Queste frasi, in qualche modo, producono convinzione in virtù della precisa e divertita enumerazione di minuzie; e tuttavia, non è possibile trascurare il fatto che contengono una teoria sullo sviluppo storico della civiltà piuttosto che l'indicazione di un anelito personale al tempo libero e alla contemplazione. Inoltre, ciò che è più importante, l'enumerazione che si supporrebbe ascendere da un livello più basso ad uno più alto, termina in realtà con le più triviali fra le occupazioni proposte — tappezzeria e porcellana; quindi, dopo aver cominciato a esporre secondo canoni ovvii un ordine ascendente, d'accordo con quanto tradizione e convenzione gli avevano detto che era giusto, Adams è stato trascinato dalle sue segrete convenzioni, e la verità è saltata fuori — non i suoi nipoti, preoccupati a decorare pareti di casa ed a collezionare porcellane, ma il loro nonno, «schiacciato» dagli affari pubblici, aveva vinto il primo premio alla lotteria della vita. Se vogliamo imparare qualcosa sulle autentiche esperienze dietro al luogo comune che gli affari pubblici sono un onere e un dovere, faremo meglio e rivolgerci al quinto e al quarto secolo a.C. in Grecia, invece che al diciottesimo secolo d. C. della nostra civiltà.
Sfortunatamente, non è uno sbaglio inconsueto quello di scambiare gli scritti di questi uomini d'azione, o addirittura i documenti da essi ideati, per prodotti letterari, la cui originalità, o mancanza di essa, potrebbe essere giudicata secondo criteri validi per i libri ordinari che, nella misura in cui sono libri, non fanno parte dell'ambito dell'azione. Certamente non è la sua filosofia della legge a dare importanza alla Dichiarazione d'Indipendenza, nel qual caso davvero verrebbe a «mancare di profondità e sottigliezza» (Carl L. Becker); né ha senso cercare idee nuove in un documento i cui concetti principali erano così ben conosciuti che il suo autore non pensava d'aver espresso altro se non «il senso comune dell'argomento», mentre almeno alcuni dei suoi lettori contemporanei erano coscienti che queste idee apparivano già piuttosto «viete» (John Adams). Nondimeno, la grandezza del documento è al di là di ogni dubbio, e sta in fatti come questi, che un documento si ritenesse in qualsiasi modo necessario per «rispetto verso l'opinione dell'umanità», o che un elenco di rivendicazioni molto specifiche contro un re particolare conducesse alla negazione della monarchia e della regalità in generale. La grandezza della Dichiarazione d'Indipendenza, in altri termini, consiste nel suo essere «un argomento in appoggio ad un'azione» (Carl B. Becker), o nel costituire il modo con cui un'azione si manifesta perfettamente in parole. E poiché in questo caso abbiamo a che fare con la parola scritta e non con quella parlata, ci troviamo di fronte ad uno dei rari momenti in cui il potere dell'azione è abbastanza grande da sollevare un monumento a sé stesso.
Ciò che è vero della Dichiarazione d'Indipendenza è perfino più vero per gli scritti degli uomini che hanno fatto la rivoluzione. Era quando smetteva di parlare per affermazioni generali, quando parlava o scriveva nei termini dell'azione passata o futura, che Jefferson arrivava il più vicino possibile ad apprezzare nel suo effettivo valore la relazione caratteristica fra azione e felicità, verso la quale sto cercando di portare la vostra attenzione. È solo perché era così consapevole del loro essere in relazione che egli tracciò sempre di nuovo il suo grande e del tutto dimenticato progetto di dividere e suddividere le repubbliche dell'Unione nelle «repubbliche elementari delle circoscrizioni territoriali», dove ogni uomo avrebbe potuto sentire di «essere un partecipante nel governo degli affari», e sarebbe quindi vissuto in un Congresso suo proprio.
Egli era convinto, ed io penso a ragione, che la repubblica non poteva essere sicura senza la costituzione di ciò che egli già allora era soliti chiamare «consigli» — certo senza alcun presentimento dei sistemi dei soviet e dei räte delle rivoluzioni più tarde, e molto probabilmente senza molta consapevolezza dei primi inizi di questo sistema, confusi e destinati alla sconfitta, nelle sezioni della Comune parigina. È tanto più degno di nota che pensasse al suo progetto universalmente ignorato in termini di sicurezza elementare per l'esistenza effettiva della repubblica americana, per cui molto enfaticamente scrisse che il suo «sistema circoscrizionale» rappresentava il suo ceterum censeo Carthaginem esse delendam, le famose parole riferite alla salvezza di Roma. La motivazione di Jefferson era la seguente: «Quando nello Stato non esisterà un uomo che non sia membro di qualcuno dei suoi consigli, piccoli o grandi, questi si farà strappare il cuore dal corpo prima di lasciarsi estorcere il potere da un Cesare o da un Bonaparte». Ma il motivo per cui tutta questa parte della politica di Jefferson è stata sepolta nell'oblio, insieme a parti analoghe degli scritti di John Adams (fino al punto, per inciso, che la parola «ward» manca dagli indici delle correnti edizioni), è precisamente che nel pensiero politico non si potrebbe trovare nessuna teoria, antica o moderna, e nessuna struttura concettuale che sia d'accordo con essa. Il guaio è che, contrariamente a ciò che Jefferson stesso credeva, il «senso comune di un argomento» non è affatto sempre identico con le credenze sostenute comunemente in proposito.
Per porre la questione altrimenti, Jefferson nei suoi scritti poteva mostrarsi indignato quanto voleva per i «nonsensi di Platone»; la verità è che la «mente nebulosa» di Platone ha predeterminato le categorie del pensiero politico in una tale misura, che Jefferson stesso non era maggiormente in grado di un qualsiasi ammiratore dichiarato della Repubblica (e forse lo era persino meno) di sfuggire nel suo pensiero politico a dissimulate concezioni platoniche. Queste concezioni — per esporle nella maniera più approssimativa possibile, ma appena più approssimativa di come le idee platoniche erano diventate alla fine del diciottesimo secolo — possono venire enumerate come segue: il fine ultimo della politica in generale e dell'azione in particolare è al di sopra e oltre l'ambito politico. La meta in base a cui l'azione politica deve orientarsi, e i criteri con i quali può essere giudicata, non provengono originariamente dalla politica, ma sorgono da un complesso di esperienze trascendenti e del tutto diverse. L'azione non è fondamentalmente più che esecuzione di conoscenza, e rispetto ad essa è perciò secondaria e inferiore. È quindi l'«uomo saggio» a essere l'«uomo buono». Infine, nella versione aristotelica del platonismo, l'azione politica e la sua meta ultima stavano nella medesima relazione reciproca di guerra e pace, cioè il fine dell'azione politica non è soltanto diverso dalla politica in genere, ma ne è addirittura l'esatto opposto.
Di questa tradizione, ai philosophes e agli uomini di lettere del diciottesimo secolo non era pervenuto molto più della questione che sembra porre il problema centrale per ogni pensiero politico: Qual è il fine del governo? Ma il punto da ricordare è che questa questione, la quale ancora oggi tormenta i manuali, ha senso soltanto se si prende sul serio la filosofia tanto quanto fecero quelli che per la prima volta scoprirono e definirono il modo di vita del filosofo, distinguendoli ed opponendolo al modo di vita politico. E né i padri fondatori, né i teorici politici in Inghilterra e in Francia, da cui essi derivarono la loro propria «filosofia», erano disposti o persino capaci di assumere la filosofia in quanto modo di vita abbastanza seriamente da pervenire sino alle origini del loro linguaggio concettuale. Questo avrebbe potuto avere poca importanza, se solo fossero riusciti a raggiungere un'altra modalità comprensiva di comunicazione e determinazione delle loro esperienze. Poiché ciò non si è verificato, essi restarono sfortunatamente prigionieri di una tradizione, le cui fonti autentiche si trovavano oltre il raggio della loro esperienza, così come oltre la loro comprensione. Il risultato è stato che ogni-qualvolta avessero pensato in termini universali o teoretici, cioè non in termini di azione politica e della fondazione di istituzioni politiche, il loro pensiero sarebbe rimasto superficiale e la profondità delle loro esperienze inarticolata.
In ultima analisi, era probabile che fosse questa inarticolata profondità, una volta fattasi strada attraverso la rigida scorza dei luoghi comuni tradizionali, a condurli ed a fuorviarli verso alcune asserzioni grandi e pericolose, come quando Jefferson parla dell'«albero della libertà che di tanto in tanto dev'esser rinfrescato col sangue dei patrioti e dei tiranni». È stata ancora la profondità di esperienza, la stessa incapacità di chiarirla e indagarla con gli strumenti concettuali della nostra tradizione, a condurre e fuorviare gli uomini della Resistenza francese verso una filosofia dell'«assurdità» trionfante, quando cercavano di distillare l'«aroma di quegli anni essenziali» per quelle prove e quei sacrifici, ai quali erano tanto meglio preparati, che non alla «felicità» e significatività inaspettate tenute in serbo da questi anni per loro.
Consentitemi ora di volgermi, dal mio raccontare storie fuori moda, al più soddisfacente modo interpretativo di isolare, distillare ed alienare per fornire maggiore plausibilità a ciò che penso queste storie abbiano da dirci. Per prima cosa, non richiamerò la vostra attenzione neppure su una frase, ma soltanto su due parole, che difficilmente noi useremo insieme, ma che nel diciottesimo secoli erano un modo di dire corrente. Le due parole sono «felicità pubblica». È un fatto strano, e naturalmente spesso notato, che mentre Jefferson stava abbozzando la Dichiarazione d'Indipendenza, abbia cambiato la formula corrente con la quale venivano elencati gli inalienabili diritti umani da «vita, libertà e proprietà» in «vita, libertà e ricerca della felicità». Più strano ancora è che nei dibattiti che precedettero l'adozione dell'abbozzo di Jefferson, questa modifica non venisse discussa; e questa curiosa mancanza di attenzione per una fraseologia che, nel corso dei secoli seguenti, ha contribuito più di ogni altra parola o concetto ad un'ideologia specificamente americana, ha bisogno di una spiegazione almeno quanto la frase stessa. È senz'altro possibile che questa originale mancanza di attenzione fosse dovuta all'alta considerazione in cui la famosa «facilità di penna» di mr. Jefferson era tenuta; addirittura più probabile è che il cambiamento sia sfuggito all'attenzione perché la parola «felicità» occupava un suo posto nel linguaggio politico pre-rivoluzionario, cosicché assumeva, in questo contesto, un suono abbastanza familiare.
La prima fonte che viene in mente per una tale familiarità è la formula convenzionale dei proclami regi, in cui «il benessere e la felicità del nostro popolo» significava abbastanza esplicitamente il privato benessere dei sudditi e la loro privata felicità, e cioè esattamente quello che l'espressione «ricerca della felicità» è venuta a significare attraverso il diciannovesimo e il ventesimo secolo. Contro questa ipotesi plausibile, però, sta il fatto che nell'America pre-rivoluzionaria parlare di felicità pubblica invece che di «benessere e felicità» costituiva appunto una variazione altamente significativa. Cosa lo stesso Jefferson, in un documento preparato per la Convenzione del 1774 in Virginia, e che per molti aspetti anticipava la Dichiarazione d'Indipendenza, aveva dichiarato che i «nostri antenati», quando avevano abbandonato «i domini inglesi in Europa», avevano esercitato «un diritto che la natura ha dato a tutti gli uomini... quello d'instaurare nuove società, sotto quelle leggi e quei regolamenti che secondo loro avessero la maggiore probabilità di promuovere la felicità pubblica» (corsivi miei — aggiunta di H. A.). Se Jefferson aveva ragione, ed era alla ricerca della «felicità pubblica» che i «liberi abitanti dei domini inglesi» erano emigrati in America, allora le colonie del nuovo mondo dovevano essere state sin dall'inizio terreni di coltura di rivoluzionari: perché «felicità pubblica» significava una partecipazione al «governo degli affari», cioè al potere pubblico, in quanto distinto dal diritto, generalmente riconosciuto, di essere protetti dal governo persino contro il potere pubblico. Più importante ancora, nel nostro contesto, è che la combinazione dei due termini: «pubblico» e «felicità» indica con forza come questi uomini sapessero di non dire completamente la verità quando affermavano (come Jefferson in una lettera a John Randolph del 1775): «Il mio primo desiderio è la restaurazione dei nostri giusti diritti; il secondo, di ritornare a quel felice periodo in cui... potrò sottrarmi del tutto alla vista del pubblico, e passare il resto dei miei giorni nella tranquillità e nella calma domestiche, scacciando ogni desiderio di venire anche soltanto a sapere in seguito cosa succede nel mondo»; benché solo John Adams fosse audace abbastanza da fare del godimento del potere e della felicità pubblica la pietra angolare della sua filosofia politica.
Per quanto riguarda la Dichiarazione d'indipendenza, noi siamo tenuti senza dubbio a intendere il termine «ricerca della felicità» in un duplice significato, anche se questi due significati non possono venire conciliati né storicamente né concettualmente. In questo caso, la facilità di penna di Jefferson è riuscita sin troppo bene a confondere la linea distintiva fra «diritti privati e felicità pubblica» (James Madison). Ciò aveva l'ovvio vantaggio immediato che la formula del suo abbozzo — senza suscitare l'opposizione dei suoi colleghi che effettivamente volevano costituire un nuovo corpo politico, un luogo per la felicità pubblica, in cui la loro passione per l'«emulazione», lo spectemur agendo del motto di John Adams (facciamoci vedere in azione), avrebbe potuto essere realizzata — sarebbe piaciuta anche a quelli dell'assemblea che volevano prestare attenzione «esclusivamente ai loro personali interessi» (Cooper), senza venire ulteriormente infastiditi dagli affari pubblici e da una «pubblica felicità» che né capivano e né desideravano. E perché qualcuno non dubiti che i padri fondatori potessero aver avuto una concezione differente della dignità della politica, rispetto a quella che viene loro correntemente attribuita, consentitemi di citare John Adams, il quale audacemente sosteneva che «uno dei fini del governo è di regolare questa passione (cioè, la passione dell'emulazione), la quale a sua volta diventa uno dei principali mezzi di governo». In questa definizione del «fine del governo», mezzo e fine ovviamente coincidono; dal momento in cui al posto dei diritti privati e degli interessi personali si pone il concetto della «felicità pubblica», la questione: Qual è il significato del governo? perde il suo senso.
Per capire il significato della felicità pubblica, può essere utile ricordare che nel linguaggio politico della Francia pre-rivoluzionaria del diciottesimo secolo esisteva una formula molto simile, e nondimeno significativamente diversa. Tocqueville racconta di quanto il «gusto» e la «passione per la libertà pubblica» fossero diffusi, quanto predominanti nelle menti di coloro che non avevano alcuna idea di ciò che noi oggi chiamiamo rivoluzione, né alcun presagio del ruolo che essi vi avrebbero svolto. Gli americani potevano parlare di felicità pubblica perché avevano provato l'esperienza della libertà pubblica prima della rivoluzione, nelle assemblee delle città e dei distretti in cui erano abituati a deliberare sugli affari pubblici e nelle quali, secondo John Adams, «i sentimenti del popolo si vennero in primo luogo a formare». Essi sapevano che le attività connesse con questi affari non costituivano un peso, ma davano a quelli che le svolgevano in pubblico un sentimento di felicità che non potevano acquistare da nessun'altra parte. In confronto a questa esperienza americana, la preparazione dei francesi hommes de lettres, che alla fine avrebbero fatto la Rivoluzione francese, era teoretica all'estremo; senza dubbio, anche gli uomini che uno storico avverso ha con qualche ragione chiamato «i commedianti» dell'assemblea francese provavano piacere, ma, catturati dal torrente di eventi rivoluzionari che non sapevano più come controllare, non avevano certamente tempo per riflettere su questo lato di faccende altrimenti odiose.
Qual era allora il retroterra di esperienza dal quale il termine «libertà pubblica» venne coniato? Chi erano gli uomini che, senza neppure saperlo (perché «la nozione esatta di una rivoluzione violenta non aveva posto nella loro mente; non era discussa perché non era concepita», come osservò Tocqueville), si accingevano di fatto a cambiare il vecchio ordine di un'intera civiltà? Il diciottesimo secolo, come ho accennato prima, chiamava questi uomini hommes de lettres, e una delle loro caratteristiche principali consisteva nel fatto che essi si erano volontariamente ritirati dalla società, prima dalla società della corte e dalla vita dei cortigiani, e quindi dalla società dei salotti. In una solitudine liberamente scelta, educavano loro stessi e coltivavano le loro menti, ponendosi deliberatamente a distanza dalle vicende sia sociali che politiche, dalle quali erano comunque esclusi, allo scopo di osservarle entrambe in prospettiva. Vivendo sotto il regime di un assolutismo illuminato in cui la vita alla corte del re, con i suoi intrighi senza fine e i suoi onnipresenti pettegolezzi, aveva il compito di offrire piena compensazione per la partecipazione al mondo degli affari pubblici, la loro distinzione personale stava nel rifiuto di scambiare la reputazione sociale con la rilevanza politica, optando piuttosto per l'appartata oscurità di studi, riflessioni e sogni privati. Noi conosciamo questa atmosfera dagli scritti dei moralistes francesi, e restiamo ancora affascinati ponderato e deliberato disprezzo per la società che si mostra ai suoi stadi iniziali, e che per di più fu all'origine della saggezza di Montaigne, affinò la profondità del pensiero di Pascal, e lasciti ancora le sue tracce su molte pagine dell'opera di Montesquieu.
Inoltre, è importante che, non importa a quale «stato» appartenessero, gli uomini di lettere fossero liberi dal fardello della povertà, e quindi in una posizione molto simile ai loro colleghi americani. Insoddisfatti dell'importanza che lo stato o la società dell'ancien régime avrebbe potuto garantire loro, essi sentivano che il loro tempo libero era un fardello più che una benedizione, un esilio coatto da un ambito cui avevano diritto di accesso per nascita, talento e inclinazione. Essi chiamarono «libertà pubblica» ciò di cui in questa posizione, nella quale il «triοnfο degli affari pubblici era per loro non solo poco conosciuti, ma invisibile» (Tocqueville), sentivano la mancanza.
Per porre la questione in altri termini, il loro tempo libero era l'otium dei romani, non la skhole dei Greci; era un'inattività forzata, l'«illanguidimento di un ritiro inoperoso», entro il quale la filosofia aveva il compito di dispensare «qualche rimedio per il dolore» — una doloris medicina, come dice Cicerone. Ed essi agivano ancora del tutto in stile e in attitudine romani quando cominciarono a impiegare il loro tempo libero nell'interesse della res publica, o la chose publique, come ancora la Francia del diciottesimo secolo, traducendo alla lettera dal latino, chiamava l'ambito degli affari pubblici. Essi si volsero quindi allo studio degli autori greci e romani, ma non — e questo è decisivo — per amore di una qualsiasi saggezza eterna o bellezza immortale gli antichi libri potessero contenere, bensì quasi esclusivamente per venire a conoscere le istituzioni politiche di cui essi recavano testimonianza. Nella Francia del diciottesimo secolo, come nella contemporanea America, era la loro ricerca della libertà pubblica e della felicità pubblica che riportava gli uomini all'antichità, e non la loro ricerca della verità.
Tocqueville una volta ha giustamente osservato che «di tutte le idee e i sentimenti che avevano preparato la rivoluzione, in senso stretto i primi a scomparire sono stati il concetto e il gusto della libertà pubblica». E mutatis mutandis, si può dire lo stesso per la nozione di felicità pubblica in America, dove «ricerca della felicità» venne quasi immediatamente usata ed intesa senza l'aggettivo che originariamente la qualificava. Fu per motivi storici quanto teoretici che questa fatale scomparsa giunse a prodursi. Io ho fatto riferimento all'insufficienza teoretica della nostra tradizione di pensiero politico, insufficienza che in questo caso si aggirava intorno alle ambiguità delle definizioni tradizionali della tirannia. Secondo la comprensione antica, pre-teoretica, tirannia era la forma di governo in cui il governante aveva monopolizzato per sé il diritto all'azione, e bandito i cittadini dalla sfera pubblica nella privacy della famiglia, in cui erano tenuti ad occuparsi dei loro affari privati. La tirannia, in altri termini, privava della felicità pubblica e della libertà pubblica, senza necessariamente interferire col perseguimento di interessi personali ed il godimento di diritti privati. Secondo la teoria tradizionale, era tirannia la forma di governo in cui il governante governava in base alla sua propria volontà e perseguendo i suoi propri interessi, venendo così a ledere il benessere privato e le libertà personali dei soggetti. Quando parlava di tirannia e dispotismo, il diciottesimo secolo non distingueva fra queste due pοssibilità, ed imparò l'acutezza della distinzione fra il privato e il pubblico, fra la ricerca senza ostacoli di interessi privati, e il godimento della libertà o della felicità pubbliche, solo quando nel corso delle rivoluzioni questi due principi entrarono in conflitto l'uno con l'altro.
Il conflitto era fondamentalmente lo stesso sia nella Rivoluzione americana che in quella francese, benché assumesse espressioni molta diverse. Da un punto di vista teoretico, la via più breve per afferrare la sua portata può essere quella di ricordare la teoria della rivoluzione di Robespierre, la sua convinzione che «il governo costituzionale si occupa principalmente della libertà civile, quello rivoluzionario della libertà pubblica». Ma l'insistenza di Jefferson su di un qualche tipo di «sistema circoscrizionale», la sua convinzione che la rivoluzione fosse incompleta e la permanenza della repubblica non assicurata, perché non era riuscita a stabilire istituzioni in cui lo spirito rivoluzionario potesse essere tenuto in vita, vanno nella stessa direzione. La profonda contrarietà di Robespierre a porre fine alla rivoluzione, la sua paura che la fine del potere rivoluzionario e l'inizio del governo costituzionale non segnassero la fine della libertà pubblica, sono essenzialmente affini al desiderio poco convinto di Jefferson per una rivoluzione ad ogni generazione. Nei termini della Rivoluzione americana, la questione era se il nuovo corpo politico dovesse costituire un ambito autonomo per la «felicita pubblica» dei suoi cittadini, o se era stato ideato solo per servire e assicurare più efficacemente di quanto non facesse il vecchio regime la loro ricerca della felicità privata. Nei termini della Rivoluzione francese, la questione era se il fine del governo rivoluzionario consisteva nell'instaurazione di un governo costituzionale, che avrebbe potuto porre termine al regno della libertà pubblica garantendo le libertà e i diritti civili, o se per il bene della libertà pubblica la rivoluzione non andasse dichiarata in permanenza. La garanzia delle libertà e dei diritti civili era stata da lungo tempo considerata essenziale in tutti i regimi non tirannici, nei quali il monarca governava entro i limiti della legge e in vista del benessere e degli interessi dei suoi sudditi. Se non fosse stato in gioco nient'altro, allora i mutamenti rivoluzionari di governo, l'abolizione della monarchia e l'instaurazione della repubblica, dovrebbero essere considerati come incidenti provocati dalla pervicacia e dalle grossolanità degli antichi regimi; le risposte avrebbero dovuto essere non rivoluzioni ma riforme, non la fondazione di nuovi corpi politici ma il cambio di un governante cattivo con uno migliore.
Invece, il punto della questione è che sia la Rivoluzione francese sia quella americana furono spinte ben presto a insistere per un governo repubblicano, benché gli uomini che le promuovessero su ambedue le sponde dell'Atlantico non intendessero altro se non tali riforme nella direzione di una monarchia costituzionale- Una delle principali caratteristiche che le due rivoluzioni avevano in comune, per quanto diverse l'una dall'altra sotto molti altri aspetti, era il nuovo violento antagonismo fra monarchici e repubblicani, e prima di queste rivoluzioni tale antagonismo era praticamente sconosciuto; esso era chiaramente il risultato di esperienze fatte nell'azione. Qualsiasi cosa gli uomini delle rivoluzioni avessero pensato o immaginato prima, fu solo nel corso delle rivoluzioni stesse che si familiarizzarono pienamente con la felicità pubblica e la libertà pubblica, quando divennero — come si suol dire — ebbri del vino dell'azione. Comunque, nel caso in cui le alternative andassero sfortunatamente poste in termini come questi, l'impatto di queste esperienze fu sufficientemente profondo da far loro preferire in pressoché ogni circostanza la libertà pubblica agli interessi privati, e la felicità pubblica al privato benessere. Dietro le teorie e i propositi di Robespierre e di Jefferson, condannati in principio, e che adombravano la rivoluzione dichiarata in permanenza, si può scorgere la questione scomoda, allarmata e allarmante, che dopo di loro avrebbe turbato pressoché ogni rivoluzionario degno di tale nome: Se la fine della rivoluzione e l'introduzione di un governo costituzionale significavano la fine della libertà pubblica, era anche solo desiderabile porre fine alla rivoluzione? Entro la cornice di questo saggio non è chiaramente possibile inseguire il percorso contorto di queste esperienze attraverso la storia delle rivoluzioni dalla fine del diciottesimo secolo alla metà del nostro. Ancor meno possibile è rendere giustizia alla rilevanza di queste esperienze per una teoria della politica adeguata e veramente moderna. In conclusione, però, vorrei evidenziare le due direzioni per considerazioni ulteriori che le mie osservazioni hanno cercato d'indicare.
La prima di queste direzioni ci porta alla dimensione della storia, che può provare, credo, come le principali rivoluzioni del diciannovesimo e del ventesimo secolo abbiano invariabilmente e spontaneamente riprodotto l'impulso di Robespierre verso una rivoluzione dichiarata in permanenza, così come il tentativo di Jefferson volto a stabilire nei «consigli», o nelle «repubbliche elementari» di un «sistema circoscrizionale», una durevole istituzione politica che avrebbe preservato non tanto la meta originaria della rivoluzione, quanto lo spirito che aveva ispirato quelli che avevano fatto la rivoluzione e che a loro stessi era sconosciuto prima del corso degli eventi.
La seconda direzione ci porta alla dimensione della teoria, in cui, sulla base dell'esperienza storica, potrebbe venire esplorato il rapporto dell'azione con la felicità (che potrebbe fornire la chiave per la duplice questione: Che cos'è l'azione? e cosa la virtù?). In questa seconda direzione, il significato della parola rivoluzione dev'essere depurato dalle ideologie del diciannovesimo secolo e riscattato dalla sua perversione attraverso il totalitarismo del ventesimo secolo. Apparirà allora che le rivoluzioni hanno costituito lo spazio-tempo in cui l'azione, con tutte le sue implicazioni, fu scoperta o, piuttosto, riscoperta per l'età moderna — un evento di terribile importanza, se ricordiamo per quanti secoli l'azione era stata oscurata dalla contemplazione, e l'ambito degli affari pubblici, nell'efficace detto di Tocqueville, era stato «invisibile» ugualmente al povero e al ricco. È per questo che ogni teoria moderna della politica dovrà fare i conti coi fatti portati alla luce dagli sconvolgimenti rivoluzionari degli ultimi duecento anni, e questi fatti sono, naturalmente, di gran lunga diversi da ciò che le ideologie rivoluzionarie vorrebbero farci credere.
Le difficoltà per comprendere e persino per cogliere questi fatti sono grandi, perché in questo tentativo ci vengono meno tutti gli strumenti del pensiero tradizionale — sia politico che concettuale. La riscoperta dell'azione e la ri-emergenza di un ambito di vita pubblico, secolare potrebbero sicuramente rappresentare l'eredità più preziosa che l'età moderna ha trasmesso a noi, che stiamo entrando in un mondo del tutto nuovo. Ma la nostra posizione, come eredi di questa eredità, è ben lontana dall'essere tranquilla. Il problema è stato espresso molto succintamente da René Char, il poeta e scrittore francese che ho citato in precedenza e che, riassumendo le esperienze da lui compiute nella Resistenza, ha detto: Nutre héritage n'est precedé d'aucun testament.
Ultima modifica 2019.05.21